CAMBOGIA – Se mine e aids scomparissero

Un futuro già compromesso?
Si muore di diarrea o di Aids. O per lo scoppio
di una mina. Ma la Cambogia non è solo questo:
è anche natura esuberante, frutti succosi,
fiori profumati, sorrisi disarmanti.
Ricordo di un paese dove violenza e dolcezza
convivono fianco a fianco.

M olte sono le immagini che hanno rappresentato la Cambogia in articoli, saggi, libri. Immagini quasi sempre drammatiche: campi disseminati di ossa e teschi, bande di guerriglieri con lanciagranate in spalla, terreni minati, vittime delle mine per le vie di Phnom Penh o nei villaggi di campagna. Tutte cose assolutamente vere e realistiche, ma non sufficienti a raccontare la Cambogia.

I n questo strano paese gli estremi si mescolano in un solo ricordo. E così, accanto ai drammi di una popolazione violata, si aggiungono immagini di volti dolcemente sorridenti e, accanto a immagini di corpi in fin di vita per l’Aids, quelle delle danze aggraziate apsara. Ricordo molto di più la dignità che la disperazione, negli animi delle persone con le quali ho lavorato e vissuto per oltre un anno.
È incredibile come qui convivano due anime: quella della violenza e quella della disarmante dolcezza. Ad esempio, per le vie di Phnom Penh, trasudanti caldo e polvere, durante il giorno era evidente l’aspetto sofferente della città: cupe abitazioni, giungla di fili elettrici abusivi, amputati e poveri medicanti a popolare i bordi di strade inesistenti, la povertà evidente dei piccoli mercati. Ma la sera, lungo il Tonle Sap o intorno al Wat Phnom, centinaia di famigliole, sedute su stuoie nei prati e sul lungofiume, gustavano uova sode o pesce affumicato, in un quadro di bei colori ed armonia. E nelle province, nei remoti villaggi, dove miseria e malattie dettano le regole di una stentata sopravvivenza, non mancano i fiori davanti alle case in legno e bambù, né vengono risparmiati sorrisi al visitatore.
Né posso dimenticare lo splendore di una natura esuberante, di frutti succosi (non ricordo di aver conosciuto altri posti con tale varietà di frutti), fiori profumati (il frangipane la sera, o dopo la pioggia, diffonde a tutta la città il suo profumo) e fiori colorati (i flamboyantes che adoano i viali della capitale come i sentirneri dei villaggi). In questo splendore tutto a volte assume un aspetto solenne e celebrativo, soprattutto quando i mille colori del tramonto tingono meravigliosamente fiume e risaie.

D ella Cambogia ricordo lo splendore dei tetti oro e smeraldo del palazzo reale, i luminosi viali di Phnom Penh, i mille tetti delle innumerevoli pagode che appaiono ovunque, le colorate cerimonie con i solenni bonzi dal cranio rasato e le tuniche arancio, il delizioso pesce-elefante pescato nel Mekong e servito con profumate salse al mango verde.
E come non collegare il ricordo della Cambogia al mistero e al fascino di Angkor Wat, il cuore del paese, che merita da solo un viaggio in Indocina. Cammini per ore nella giungla soffocante, tra templi ricamati, imponenti colonnati, i quattro volti di Bayon, fino a raggiungere un’immagine che toglie il respiro: l’enorme complesso di Angkor, memoria storica e intima del popolo khmer.
Nonostante questo, chi è stato in Cambogia non da turista non può evitare di sentirsi come in un immenso sacrario, dove le sofferenze inaudite di un popolo hanno innaffiato di sangue gran parte della attuale vegetazione. Per fortuna, questo pesantissimo ricordo è vissuto dai khmer con discrezione, quasi come una vergogna da coprire.

P er me e la mia famiglia è stato come conoscere i sopravvissuti di Auschwitz, vittime dell’ennesimo olocausto.
Avrei avuto voglia di interrogarli, ascoltare i loro racconti, le loro vite difficili da immaginare. Ma loro discreti scivolavano sul passato, fino a quando, magari passeggiando alla sera, ti raccontavano come una storia qualsiasi di quando videro massacrare a bastonate i loro cari, in quel delirio che erano i «campi di rieducazione» o, con minor eufemismo, i «killing fields», i campi dell’uccisione.
Ancora oggi i cambogiani sono un popolo costretto a subire violenze quotidiane: una corruzione senza vergogna, l’arroganza illimitata di chi detiene il potere (magari conferito dai proventi di traffici illeciti), fino al drammatico disboscamento che sta minacciando l’equilibrio ecologico del paese. Come se ciò non bastasse, c’è la piaga dell’Aids, che trova nella capillare rete di prostituzione e bordelli l’ideale terreno di coltura per una crescita esponenziale, proprio lì dove i farmaci per curare l’infezione e le complicanze sono introvabili.
Si muore di Aids; si muore di diarrea nei lontani villaggi delle province di Ratanakiri o Stung Treng; si muore ancora su una mina a Anlong Veng o vicino Battambang. E la fabbrica delle protesi è forse l’unica industria dal roseo avvenire nel paese.
In Cambogia centinaia di Ong e agenzie di cooperazione si sono date appuntamento, forse con un esubero eccessivo e con finalità non sempre compatibili con un reale sviluppo del paese.

Oggi, nella mia mente, rivedo le persone che ci sorrisero, per rincuorarci nei momenti difficili, quando tutti avevamo paura, o per esprimere la loro fiducia nel nostro lavoro. Ecco, i mille sorrisi di quella gente costituiscono, per me e la mia famiglia, ricordi indelebili di un anno indimenticabile.

Carlo Urbani




CAMBOGIA – Finito l’incubo rimane la miseria

Una vita di pura sopravvivenza
Corruzione diffusa, prostituzione,
sfruttamento minorile, soldi di provenienza ambigua.
Nel paese asiatico il disordine sociale
ed economico regna sovrano.
Favorendo una esigua minoranza di cambogiani
e di compagnie straniere.

Il nonno di Tung era monaco buddista. A 25 anni lasciò il convento, si sposò ed ebbe 14 figli da 3 mogli. Il padre di Tung si chiama Vech Savey, (Vech vuol dire monaco). Nel 1974, durante il regime di Pol Pot, mentre serviva nell’aviazione cambogiana come paracadutista, venne a sapere delle purghe e delle deportazioni. Fu così che riuscì a portare in salvo la famiglia.
Lasciarono la casa di Siem Reap su di un carro trainato da buoi, carico di bambini, vecchi, riso e masserizie. Dovevano raggiungere le aree più remote del nord est, per mettersi in salvo. Durante il viaggio, che durò più di tre mesi, si nutrirono di quello che potevano cacciare con trappole, arco e frecce. Cinghiali, orsi, cervi, ma anche topi, lucertole, rane e serpenti. Tung allora era bambino, ora è un giovane fortunato, che ha potuto studiare un poco d’inglese a Phnom Phen, anche se per pochi mesi. La vita è cara, nella capitale, per un ragazzo di campagna.

La Cambogia ha molte ricchezze, che non sono solo minerali, pietre preziose, petrolio. Uno splendido passato ha lasciato templi affascinanti. Il complesso di Angkor, al centro di una zona fertile e ricca d’acqua, rappresentava il centro spirituale e temporale del regno khmer dal IX al XIV secolo. Dalla foresta tropicale emergono i grandiosi edifici sacri, costruiti idealmente intorno al mitico monte Meru, dimora degli dei nell’olimpo hindu. Avvolti da una densa vegetazione, sono circondati da bacini d’acqua che simboleggiano l’oceano. Rampicanti e liane filtrano la luce del giorno, creando effetti fantastici nei corridoi e nei cortili ingombri di pietre e fregi spezzati .
In questo contesto che affascina i visitatori (i quali oggi arrivano più numerosi di un tempo) si è organizzata una «corte dei miracoli», che fa urlare di sdegno. Hanno raccolto le mostruosità della guerra e dei campi minati per sfruttarle. Vittime di terribili amputazioni, storpi e ciechi con le orbite vuote e trafitte, vengono sistemati la mattina davanti ai sontuosi portici di pietra grigia, lungo i camminamenti che attraversano le vasche sacre, accanto agli splendidi, lugubri templi khmer. Uno spettacolo atroce, fatto per commuovere.
Fuori, seminascosti dai cespugli di bambù e dalle palme, ci sono loro, i banditi con le grosse moto. Controllano costantemente la raccolta di offerte e denaro, foendo di bibite, cartoline e sciarpe uno stuolo di bambini, che hanno il compito di avvicinare, circondare e intenerire i visitatori. Aspettano fino a sera, poi se li portano via, i loro schiavi, chi sa dove, fino al giorno dopo.
Poi ci sono i bambini in vendita. Li ho incontrati nei templi più remoti, quelli che sembrano lottare contro una natura troppo forte, che li abbraccia e li stritola. Ci aspettavano. Ci guardavano e ci seguivano, con occhi già vecchi, tra le pietre coperte di muschio. Sono i bambini che non vendono sciarpine colorate. Vendono se stessi. Li hanno anche intervistati, e chi ha visto alla televisione quel filmato e ha udito i racconti ingenui e precisi di cosa fanno con gli stranieri di passaggio, ne è rimasto sconvolto.

Piove molto in Cambogia, tutto l’anno. A volte sono scrosci fortissimi, che lasciano pozze d’acqua e di fango. A volte è una pioggia fine, leggera. L’umidità è forte. La terra è satura d’acqua, specialmente in autunno, quando il grande lago riceve le acque lontane del Mekong in piena e si allarga invadendo le campagne. Nella stagione secca si ritirerà, a un quinto della sua grandezza. Quello che era forse il bacino interno più ricco di pesce al mondo, che alimentava l’esportazione e dava cibo e proteine alla gente, ora sta morendo. In questi lunghi anni di guerra sono state gettate nelle acque del lago Tonle Sap armi chimiche e sostanze velenose. L’hanno fatto per annientare la popolazione?
Qui vivono anche molti vietnamiti. Sono stranieri, odiati, perché nemici da sempre. Non hanno diritto alla terra: quindi vivono sulle loro misere barche, dove coltivano ortaggi e cercano di allevare pesci in rudimentali gabbie di legno. La Cambogia è fertile e poco abitata, e loro sono rimasti dopo l’invasione.
Qui arrivano anche le ragazze, quelle più carine, reclutate nei villaggi vietnamiti. Sono loro le prostitute disponibili in tutti gli alberghi.
Alcuni dei progetti miliardari di alberghi si sono ridimensionati. I flussi turistici non sono ancora adeguatamente forti: restano le strutture di cemento vuote, nelle vie fangose. Una misera tendopoli, fatta di teli di plastica azzurra tirati da corde, è sorta accanto a un cantiere, unico riparo per decine di profughi. I pullman di turisti indifferenti e ciechi vi passano accanto, per poi fermarsi nel negozio di pietre preziose poco lontano. A causa delle condizioni disumane in cui vivono, i profughi sono vittime di Tbc, lebbra, Aids e altro. Vengono dal confine con la Tailandia, dove dicono che i ribelli khmer siano ancora attivi, dove in realtà si cerca di far sgombrare tutta la popolazione. Quelli sono i territori più ricchi di risorse, che devono venire sfruttate senza lasciare nulla al popolo.

Sono passati quasi 5 anni dalla mia prima visita. Sorita, una bella signora in costume tradizionale, era stata la mia guida. Ricordo che non aveva voluto entrare a Tuol Sleng, l’ex liceo trasformato dai khmer rossi nel centro di torture S-21 e oggi museo dove sono conservate le testimonianze delle torture e dei massacri perpetrati dal 1975 al ’79: il ricordo e il dolore erano troppo recenti.
Durante il regime di Pol Pot, Sorita perse 38 dei suoi familiari, intellettuali imparentati con la famiglia reale. Quando i khmer rossi ordinarono a tutta la popolazione della capitale di evacuare la città, la famiglia di Sorita fu deportata nelle campagne per i lavori forzati. A quei tempi, Phnom Penh era passata da 500 mila a quasi 2 milioni di abitanti, a causa dei profughi fuggiti dal Vietnam.
Centinaia di migliaia di persone furono buttate sulla strada, tutte insieme, con poche cose prelevate da casa all’ultimo momento. Fu un esodo lento e terribile, a piedi, nel fango, vecchi, donne e bambini. Chi si ribellava veniva ucciso. Chi non poteva dimostrare di avere origini umili veniva eliminato.
Sorita dovette lavorare giorno e notte nei campi sorvegliati dai khmer. Lei così miope senza gli occhiali, distrutti perché pericoloso segno di cultura. Poi venne il giorno delle «nozze» di gruppo. I giovani in età di matrimonio furono convocati e a ciascuno fu abbinato una compagna. Naturalmente ci fu anche il controllo, affinché l’unione fosse effettivamente consumata.
Sorita fu fortunata. Il giovane con cui fu accoppiata era un medico che aveva finto di essere meccanico di biciclette. Nacquero 3 figli che cementarono quell’unione con l’amore. Non tutti ebbero la stessa fortuna.

Già 5 anni fa mi avevano colpito i bambini. Ci guardavano silenziosi, assorti, senza un sorriso. Anche nella miseria, in tutto il mondo i bambini giocano, ridono e ti sorridono. Sono loro il futuro di un paese. Oggi i piccoli cambogiani sanno sorridere, ma in modo ambiguo. Tendono la mano, chiedono, sono già «corrotti». E tanto più poveri e disperati.
Allora la capitale Phnom Phen era percorsa da un frenetico attivismo commerciale e di ricostruzione, segno evidente della voglia di risorgere dalle macerie della guerra. Oggi per la maggior parte degli abitanti, arrivati dalle campagne in cerca di una vita migliore, la situazione è sempre la stessa: case fatiscenti, alveari di cemento che danno su vicoli fangosi. Allora si sperava, c’era da ricostruire un paese. Sapevo che anche i salesiani erano stati chiamati a dare una mano, per le scuole.
Ora il paese si presenta in uno stato di disordine morale, economico, sociale. Ci sono molti traffici, operatori stranieri che cercano di fare affari in un paese allo sbando, con un re vecchio e balordo, e un primo ministro (Hun Sen) coinvolto in scandali e corruzione. Una corruzione che impedisce lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita della gente.
L’albergo che ci ospita nella capitale, di proprietà straniera, è nuovissimo, di un lusso incredibile, ma vuoto. Si può contrattare il prezzo di una stanza, che risulta poi ben inferiore a quello di listino. Sono investimenti fatti con denaro di provenienza ambigua. Si parla dei signori della droga o di militari, che in questi paesi hanno le redini del potere.
La guerra è finita? Non credo. Ci sono altre battaglie che andrebbero combattute, ma qui chi comanda sono i banditi e la gente rimane sola, povera e ignorante. Da anni si dice che la Cambogia soccomberà un giorno, stretta tra due potenze aggressive: la forte Thailandia e il Vietnam, affamato di terra per i suoi 75 milioni di cittadini.

Claudia Caramanti




CAMBOGIA – I sopravissuti di Phnom Pehn

Un paese in lenta convalescenza

Vessati e massacrati dai «khmer» rossi
dal 1975 al 1979, i cambogiani stanno ancora rimarginando le profonde ferite.
Bisogna ricostruire il paese sotto ogni profilo.
La gloriosa civiltà di Angkor è una buona risorsa
per attirare visitatori stranieri, ma certo non basta…
Diario di un turista tra mendicanti e mutilati.

L a prima sensazione che si prova arrivando a Phnom Penh, capitale della Cambogia, è di vivere al rallentatore.
Il traffico automobilistico non è certo intenso e procede a bassa velocità. Analogamente il viavai, molto più sostenuto di moto e bici, si muove in una specie di ipnosi. Però non si tratta di pacatezza, ma di vera lentezza.
Il fatto è indice, forse, della «convalescenza» del paese, dopo qualche lustro di guerra civile culminata con il regime, durato quattro anni, dei khmer rossi… Oggi la nazione sta cercando di riprendersi, dopo la distruzione totale di ogni risorsa economica che non fosse la vanga e la zappa.
LA grande follia OMICIDA
I khmer rossi, dopo aver preso il potere il 17 aprile 1975, costrinsero i cambogiani a vivere in campi di lavoro, dove faticavano anche 14-18 ore al giorno con una scodella di riso e acqua.
I crudeli padroni uccisero e torturarono sistematicamente gente innocente, cercarono di distruggere il passato, compresa la religione buddista, trucidando ogni persona che avesse un titolo di studio o anche solo una competenza professionale, per rifondare una società basata sull’oblio della tradizione e su attività puramente agricole esercitate in modo arcaico.
Non si può, oggi, parlare della Cambogia senza iniziare da questa allucinata esperienza, che causò circa 1 milione e 700 mila cittadini uccisi da malattie e fame, oppure trucidati per lo più a randellate. Fu un incubo, in cui i bambini dovevano lavorare come adulti, e gli adulti erano mortificati come bambini.
I figli giovani, selezionati e sottoposti al lavaggio del cervello in campi di rieducazione, venivano poi inseriti nella «milizia nazionale» per spiare gli adulti, compresi i genitori; erano impiegati come soldati anche per eseguire omicidi. Tutti, comunque, venivano trattati da bestie, che però erano meglio nutrite.
Il nucleo familiare fu oggetto di distruzione da parte dei khmer rossi. Sotto il loro governo, diretto da Pol Pot, la stessa parola «famiglia» ha perso il suo significato autentico e originale, assumendo quello riduttivo di «sposa».
I khmer combinavano pure i matrimoni, soddisfacendo (fra l’altro) le brame dei dirigenti del partito verso le ragazze più belle. Però i figli venivano sottratti immediatamente alla cura delle madri e affidati a enti dello stato.
Il regime si concluse nel 1979.
FRA MUTILATI E MENDICANTI
Il dolce panorama delle campagne nell’area centrale del paese e la sorprendente ricchezza dei monumenti storici dell’antica civiltà khmer passano in secondo piano, osservando la miseria della popolazione e il numero impressionante di mendicanti spesso mutilati. Non si può distogliere lo sguardo da centinaia e centinaia di bambini che si industriano a raggranellare qualche soldo durante la giornata.
In ogni angolo si è circondati da schiere di adulti, che vendono bibite fresche, prodotti artigianali, raccolte di fotografie dei monumenti o rotoli di film per macchina fotografica. Però non c’è insistenza; basta dire «no, grazie», perché il venditore si ritiri e tenti la sorte presso un altro passante.
Il caldo è elevato e la traspirazione è tale da inzuppare anche i leggeri abiti estivi. Questo, oltre a favorire un’imponente vendita di bibite (tutt’altro che a buon prezzo), genera anche gesti simpatici da parte specialmente di bambine: ti si avvicinano con lo sguardo di chi teme una possibile reazione di fastidio e provano a farti vento con il classico ventaglio di fibra vegetale, a forma di cuore, comune anche in Thailandia. Lo fanno per avere una mancia, ma generano un problema nell’utente del servizio, che non dovrebbe fare preferenze di fronte a tantissime offerte. Problema penoso, la cui soluzione finisce sempre per deludere le molte offerenti.
Una bambina, di circa sei anni, mi si è avvicinata per vendere qualcosa. Ma io le ho chiesto di fotografarla, in cambio di una mancia: ha accettato con una riverenza, come fanno le piccole in questi casi; con un rapido tocco della mano si è rassettata i fluenti capelli neri e, con un sospiro di rassegnazione, si è messa in posa senza un sorriso sottoponendosi a qualcosa che proprio non le piaceva.
Ci si trova sempre a disagio a fotografare una persona sconosciuta. Ma, nel caso descritto, il disagio è stato maggiore, trattandosi di una creatura a cui è stata rubata l’infanzia e l’adolescenza non presenta rosee prospettive.
In un’altra occasione, scendendo lungo un sentirnero ripido e sconnesso, un bambinetto si è affiancato a mia moglie Adelaide, senza dire una parola, il visino serissimo, indicandole con la mano dove porre il piede per rendere più agevole la discesa. Anch’egli si ingegnava di fare qualcosa per ricavare un piccolo gruzzolo.
tra luci e ombre
Oggi in Cambogia si impone un difficile lavoro di ricostruzione, anche del morale della popolazione. Il governo locale è sotto esame delle Nazioni Unite, che gestiscono i programmi di aiuti.
Finalmente, nel 1979, si è fermato lo sterminio da parte dei khmer rossi con l’intervento dell’esercito del Vietnam, che però era responsabile dell’armamento e addestramento militare dei khmer stessi. In seguito, invasa la Cambogia, il Vietnam non è stato pronto a ritirarsi. Né si deve dimenticare che l’attuale capo del governo cambogiano, Hun Sen, si era fortemente compromesso con il regime di Pol Pot, il famigerato capo dei khmer rossi.
Per ricostruire la Cambogia, occorrono imponenti investimenti di capitali, che probabilmente si stanno muovendo, anche perché la politica economica ha abbandonato le regole comuniste e si è allineata agli schemi occidentali. Però la debolezza dell’attuale governo è tale da rendere possibili abusi e corruzioni.
Un residente europeo a Phnom Penh ha raccontato che, in tempi recenti, il governo non aveva soldi per pagare gli stipendi dei dipendenti statali. Allora è intervenuto un uomo d’affari cinese, che ha erogato il denaro per qualche mese (si dice per sei mesi) e non ne ha richiesto la restituzione, ma «solamente» alcuni privilegi!
A dispetto della diffusa miseria che si osserva in Cambogia, sulla riva del fiume Tonle Sap è ormeggiata un’imponente nave, di proprietà cinese, che incorpora anche un casinò. E le quantità di denaro che vi si spendono non provengono certo da tasche cambogiane.
Segni di speranza
Non manca qualche buona realizzazione.
Ad esempio: un medico svizzero, col denaro di una fondazione elvetica di solidarietà, ha costruito, partendo da zero, un ospedale per curare gli occhi dei bambini. Il trattamento è gratuito: quindi il numero dei pazienti è elevato. L’anziano medico è circondato non solo da stima, ma anche da venerazione. L’opera è talmente positiva che ora è in corso la costruzione di un analogo ospedale in un’altra area. Esiste pure un ospedale costruito gratuitamente dai giapponesi; ma la degenza è a pagamento.
Alcuni quartieri di Phnom Penh (pochissimi invero) sono stati rifatti (spesso con l’aiuto del governo francese, che è molto attivo per ragioni storiche): si presentano impeccabili, in stile coloniale, nel fulgore della vegetazione tropicale dei curatissimi giardini.
Il governo ha ristrutturato completamente nella capitale un albergo di lusso, con tariffe da capogiro persino a Manhattan. Però questo ha pure un aspetto positivo: infatti la presenza di uomini d’affari o turisti facoltosi comporta un introito di denaro per le casse dello stato.
Invece intatto rimane il sinistro edificio dell’ex scuola superiore Tuol Sleng, trasformata in carcere di sicurezza (S-21) dai khmer rossi: un luogo di tortura, dove sono transitate 17 mila persone, trucidate sul posto o in un campo di sterminio alla periferia della capitale.
A Siem Reap, dove sono visibili gli straordinari monumenti antichi di Angkor, sono stati costruiti alberghi di varie categorie, che rappresentano dei motori per l’economia locale.
Gli splendori di Angkor
Un viaggio in Cambogia non può prescindere dalla visita alle rovine di Angkor.
Su un’area vastissima si trovano vestigia di raffinati insediamenti urbani, spesso cintati da mura e con stagni artificiali, che rimandano ad alcune capitali fondate dai sovrani khmer dal X al XII secolo, nel periodo del loro massimo splendore (ndr: il popolo khmer, insieme a quello mon, risiede in Cambogia fin dal I secolo d. C.). Si tratta generalmente di templi. Il tutto è patrimonio dell’umanità, protetto dall’Unesco.
Lo splendore dei luoghi e i lavori di preservazione degli edifici stanno tramutandosi, grazie al turismo, in una buona fonte di denaro. Le rovine sono immerse in una vegetazione lussureggiante: talora viene un po’ sfoltita, pur mantenendo l’aspetto fascinoso della giungla che inghiotte e nasconde antiche costruzioni.
Gli edifici sono anche circondati da vasche, che si riempiono d’acqua specialmente nella stagione delle piogge. Succede di sentirsi attratti dal rumore di un tonfo nell’acqua… e di scorgere poi un serpente, caduto nello stagno, che nuota velocemente, raggiunge i muri coperti di erbe e vi si nasconde con movenze rapidissime.
Queste aree culturali sono oggi protette da organi di sicurezza, anche contro i ladri di reperti archeologici. Le misure sono così drastiche che le zone aperte al pubblico, alla chiusura serale, vengono minate e liberate il giorno dopo, prima dell’inizio delle visite dei turisti.
I templi testimoniano l’evoluzione della religione nella società khmer, che ha subìto nei secoli una frote influenza della cultura indiana. Infatti la prima religione è stata l’induismo, con una successiva evoluzione verso il buddismo «mahayana». Il buddismo, però, si è sovrapposto all’induismo senza cancellarlo: per cui si possono vedere statue di Budda, ritratto in posizioni classiche, accanto a statue di Shiva.
Il buddismo «mahayana» verso il X secolo è stato sostituito da quello «hinayana» della corrente «theravada».
TRE RACCOLTI DI RISO
L’ANNO
Tra giugno e luglio inizia la stagione delle piogge, che si presenta con mattinate terse, nuvole vaganti nel pomeriggio e un immancabile temporale notturno. Spettacolari i cieli azzurri, trapunti di bianchi cumuli di nubi, che generano un incanto in contrasto con quanto si avviene sulla terra.
Le campagne (sminate) sono oggi regolarmente coltivate, consentendo persino tre raccolti di riso all’anno, grazie anche alla rete idrica.
I khmer fin dal X secolo avevano perfezionato un sistema di canali e bacini artificiali, che assicuravano l’acqua durante l’intero anno immagazzinando le piene del fiume Mekong. Inoltre la rete idrica presenta una peculiarità.
Infatti, durante la stagione delle piogge, il Mekong raccoglie dal suo vasto bacino un’ingente quantità d’acqua. L’affluente Tonle Sap, prima di confluire nel Mekong, forma un lago. Ma la portata d’acqua del Tonle Sap, specie nella stagione delle piogge, è così scarsa rispetto a quella del Mekong che questo si riversa sull’affluente. Il Tonle Sap, allora, inverte il percorso e incomincia a riempire il lago: quindi allarga il suo letto anche otto volte rispetto a quello dei periodi di secca.
Questa particolarità è stata sfruttata dalla civiltà di Angkor che, con il contributo di canali e bacini artificiali, era in grado di incamerare l’acqua delle piene del Mekong riuscendo a farla durare un anno, fino alla piena successiva.
Oggi questo permette di avere anche tre raccolti di riso l’anno. Inoltre i fiumi e il lago Tonle Sap sono molto pescosi. Senza scordare che la natura tropicale è generosa di frutta e verdure.
È comprensibile, pertanto, l’interesse dimostrato sempre dalla Cina sulla Cambogia. I cinesi hanno cercato di estendere il loro controllo nel sud dell’Asia fin dai tempi dell’invasione mongola. L’interesse esiste tuttora, come dimostra la sanguinosa storia degli ultimi decenni che ha coinvolto pure il Vietnam.

Nonostante la tragica eredità lasciata dal regime di Pol Pot, si può essere moderatamente fiduciosi sul futuro della Cambogia. Ma è necessario controllare e a vanificare le mire degli khmer rossi, non ancora completamente messi a tacere, e le possibili deviazioni di masse di denaro controllate da persone senza scrupoli.

Giorgio Motta




CAMBOGIA – Sotto il peso della storia – Introduzione –

Dopo i fasti della civiltà khmer, il piccolo paese
asiatico ha conosciuto soltanto tragedie.
Dalla folle dittatura di Pol Pot all’occupazione
vietnamita fino all’attuale situazione,
caratterizzata da instabilità politica, corruzione
e una diffusa miseria.

Claudia Caramanti, Giorgio Motta, Carlo Urbani




Meno tecnologia, più spiritualità

Musica e solidarietà, un mero abbinamento pubblicitario o un sincero
interessamento per i più sfortunati? Può la musica arrivare dove altri falliscono?
Ne abbiamo parlato con due componenti dei «Nomadi», il complesso italiano
che da anni appoggia la causa del Tibet, paese schiacciato dalla dominazione cinese.
Il racconto della loro visita a Dharamsala e l’ammirazione nei confronti
del Dalai Lama, capo politico e spirituale del popolo tibetano.

Per alcuni i «Nomadi» fanno pensare ad un noto complesso pop degli anni ’60. I Nomadi, invece, continuano a esistere: producono dischi, fanno oltre 150 concerti all’anno, hanno un nutrito stuolo di fans e, ciò che più ci interessa, spendono la loro immagine a favore di molte cause e di molti popoli oppressi. Noi li ricordiamo, tra l’altro, come testimonials per la Colombia e il Caquetà nella giornata conclusiva della campagna «Non di sola coca».
Impegnati da anni a far conoscere nel nostro paese la tragedia del Tibet, conquistato ed oppresso dalla Cina comunista, i Nomadi hanno suonato nell’ottobre scorso a Milano in un concerto tenutosi in occasione della visita in Italia del Dalai Lama.

A biamo incontrato, durante le prove del concerto milanese, Beppe Carletti (tastierista e membro storico del gruppo) e Danilo Sacco (cantante e frontman).
I Nomadi sono noti anche per il loro impegno in molte attività umanitarie. Ma, tra le tante cause per cui lottare, perché avete scelto proprio il Tibet?
Danilo: «In generale, ogni popolo che soffre riceve la nostra attenzione. Il Tibet ci ha colpito particolarmente, perché è un polmone di cultura e fede. Se questa cultura fede andassero perdute, credo che il mondo ne risentirebbe moltissimo. E, purtroppo, questa perdita è già in atto, perché i cinesi con la loro repressione hanno distrutto gran parte dei monasteri e deportato tantissima gente.
Pur vivendo nell’epoca dei mass media, del Tibet si conosce poco e soprattutto non si sa della repressione che ha subìto e sta ancora subendo. Purtroppo, se non passa in televisione, la gente pensa che queste cose non esistano… Invece eccome se esistono: c’è un popolo che sta soffrendo da decine di anni e ci sono stati già più di un milione e 200 mila morti.
Il nostro impegno allora è questo: testimoniare ciò che sta accadendo. Noi quindi facciamo prima di tutto una campagna di informazione.
Il Tibet per noi è importante, anche perché abbiamo conosciuto sua santità il Dalai Lama, una persona che ci ha colpiti molto. Ci hanno stupito la sua dolcezza e tenerezza incredibili. Egli è il capo spirituale – e anche politico – di un popolo che è stato massacrato. Ci chiediamo sempre come faccia a mantenere la scelta per la nonviolenza, a voler seguire con il suo popolo questa strada, qualunque cosa accada. Questa è la cosa che più ci ha impressionato».
Beppe: «Già nel ’95, in occasione del disco Tributo ad Augusto (Augusto Daolio, già cantante dei Nomadi, morto per un cancro il 7 ottobre 1992, n.d.r.), abbiamo voluto devolvere gli introiti del disco a 3 associazioni: una che si occupa dei bambini palestinesi, una di un orfanotrofio a San Paolo del Brasile e la terza di bambini tibetani. Ci sembrava giusto beneficiare tre realtà così diverse e lontane. In seguito, io sono stato tre giorni in un monastero tibetano, a Sheherezed, nel sud dell’India, dove ho potuto incontrare i bambini tibetani che là erano ospiti. Tra l’altro, questa sera ci sono dei coristi che vengono proprio da Sheherezed.
Nel ’95 siamo stati tutti insieme a Dharamsala, un paese nel nord dell’India, abitato completamente da profughi tibetani. Qui abbiamo incontrato il Dalai Lama, che in quella occasione ci ha detto una cosa molto bella: cioè che la musica può fare tanto per la causa tibetana. E in effetti è vero: non è necessario suonare musica tibetana, ma quando noi saliamo sul palco a inneggiare al Tibet e alla sua liberazione, questo è qualcosa che la musica fa… Perché quello del Tibet è un popolo che ha bisogno non tanto di denaro quanto soprattutto che si sappia cosa accade.
E poi, come sottolineava Danilo, il Dalai Lama ha una spiritualità ed un sorriso grandissimi… Mi ha colpito molto quando ha detto “si deve perdonare, ma non si deve dimenticare”. È stato un incontro incredibile, di oltre un’ora, e non è comune poter avere un incontro così lungo con lui, premio Nobel per la Pace, capo spirituale e politico di una nazione.
Quando eravamo là, c’era con noi un amico carissimo, di Reggio Emilia, che subito ha detto: “Bene, possiamo organizzare una manifestazione davanti all’ambasciata cinese…”. Ma Dalai Lama ha risposto: “No! Non fate queste cose, non c’è bisogno… Noi vinceremo con il sorriso…”. E lui ti accoglie con questo sorriso che, da solo, ha la grande prerogativa di farti stare bene e di metterti a tuo agio. Non so se sia lui come persona o ciò che rappresenta, ma è così. Vale la pena di portare avanti questa causa. Noi, con la nostra musica, crediamo di poter fare qualcosa».
Danilo: «C’è un’altra frase che, secondo me, fotografa bene quello che è il Dalai Lama. Egli è soprattutto un capo spirituale, il capo spirituale dei buddisti tibetani mahayana. E proprio lui dice: “Non dovete cambiare religione. Non cambiate religione: le religioni sono tutte positive. Cambiate voi stessi!”».
Beppe: «Anche a quelli che vogliono avvicinarsi al buddismo egli dice: “È bene che lo facciate, così potete capire meglio anche la vostra religione”. Lui non vuole “rubare” fedeli alle altre confessioni. Questo è molto bello».
Danilo: «Questo è un punto da mettere in evidenza: il buddismo mahayana non ha mai cercato di fare proselitismo. Ed è bello che questo stesso principio ci sia stato ripetuto anche da Dwayne, sciamano e capo spirituale della tribù sioux dakota. Anch’egli ci ha detto: “Non dovete cambiare religione per cercare qualcosa di diverso. Per cercare una maggiore armonizzazione, cambiate voi stessi”. Lo stesso concetto espresso da due persone completamente diverse, che vivono a migliaia di chilometri di distanza».
Voi avete incontrato il Dalai Lama, siete stati a Dharamsala… Il popolo tibetano è composto in gran parte da monaci. Cosa vi ha colpito di queste persone?
Danilo: «Prima di tutto, quando si incontrano culture così lontane dalla nostra, è importante lasciare completamente a casa i preconcetti di uomo europeo. Soltanto aprendo il cuore si può riuscire a capire quello che queste persone hanno da dire. I tibetani hanno fatto una scelta opposta della nostra: noi abbiamo demandato tutta la nostra vita alla tecnologia: più tecnologia, meno spiritualità… Essi hanno fatto l’esatto opposto: meno tecnologia, più spiritualità. Di conseguenza noi siamo convinti di essere avanzati, perché abbiamo il telefonino, la macchina eccetera… In realtà poi non è così: conoscendo bene le loro opinioni e le loro idee, credo che il vero progresso sia il loro, perché progrediscono dentro e non fuori. Io sono convinto, ad esempio, che la scienza e la medicina europee si avvicineranno sempre di più a questa cultura, perché ha molto da insegnarci».
Beppe: «Noi a Dharamsala siamo stati tre giorni, e quello che ci ha colpito è stata la spiritualità che essi vivono così a fondo. E poi il sorriso che ha il Dalai Lama lo hanno tutti… Dharamsala è un paese, di circa 1.500 abitanti, popolato totalmente da tibetani. Anche se geograficamente è in India, si entra in un altro mondo. Si incontrano i monaci, che sono quasi continuamente in preghiera. La cosa bella è questa: vivono totalmente la loro spiritualità, te la trasmettono, ti fanno stare bene quando sei con loro. La spiritualità si “respira” è nell’aria, non si può fare a meno di incontrarla.
Al monastero di Sheherezed, per esempio, i monaci iniziavano la preghiera al mattino all’alba e andavano avanti fino a sera tarda, con alcuni che portavano da mangiare e bere, perché gli altri non interrompessero la preghiera. Questa è una cosa bellissima, che colpisce e fa riflettere. Insomma, ti rimane dentro».
L’incontro con una cultura così diversa può cambiare la vita delle persone?
Beppe: «Posso parlare per me. Io non so se sono cambiato. Sinceramente se dicessi “sì, sono cambiato, mi ha fatto cambiare”, sarei un bugiardo. Se sono cambiato non me ne sono accorto, anche perché il tempo in cui sono stato là è poco rispetto ad una vita. Però sono sensazioni che mi porto dentro. Anche se non sono cambiato io, può darsi che io trasmetta queste emozioni ad altri che mi ascoltano…».
Danilo: «Per me questo incontro è stato importante soprattutto perché ogni cultura, diversa dalla tua, ti arricchisce molto, se tu ovviamente tu non la rifiuti. E questo è già essenziale.
Si dovrebbe imparare ad accogliere tutte le diversità, ad avere voglia di confrontarsi. La fusione delle culture, prendendo il meglio da ciascuna, credo che sia l’unica salvezza del mondo. E la cultura tibetana è una delle più importanti e antiche. Se la salviamo, salviamo anche una parte di noi stessi».

Ugo Finardi




kinshasa (Congo R. D. ) – Pelle a rischio

Nella spirale di violenza che ha insanguinato
la capitale della Repubblica Democratica del Congo padre Stefano ha condiviso con la gente rischi e pericoli, fino a sentire un mitra puntato alle tempie.
La presenza dei missionari continua
a infondere nella popolazione semi di speranza.

L a chiamano «guerra mondiale africana». Tra paesi e gruppi ribelli si contano 19 soggetti in stato di guerra. È stato firmato un documento di «cessate il fuoco» tra l’esercito di Kabila e quello dell’Uganda e Rwanda, ma si continua a sparare. I gruppi ribelli continuano a frammentarsi e boicottare gli sforzi di pace, rivendicando fette di territorio e potere.
Tra le varie aggregazioni, quella di «Bemba» riscuote le maggiori simpatie da parte della gente. Figlio di un ministro di Mobutu e ancora al governo con Kabila, Bemba è diventato a poco a poco uno degli uomini più ricchi del Congo, padrone di quasi un terzo del paese. Anche lui rivendica la sua fetta di potere.
Tre quarti del territorio nazionale sono controllati da eserciti stranieri e forze ribelli. Troppi interessi sono in gioco e la guerra potrebbe durare molti anni. Alla fine il vecchio Zaire potrebbe essere smembrato in tre stati indipendenti. E sarebbe il male minore.
UNA CITTÀ ARRABBIATA
La situazione economica e sociale è allo sfascio. Kinshasa, capitale del Congo, fa paura: 8 milioni di abitanti cercano di sopravvivere in condizioni di precarietà. Non c’è lavoro. Chi ha un impiego non viene pagato, come maestri e professori, che continuano a insegnare per non perdere il posto.
Per la penuria di benzina i trasporti sono allo sbando: tanta gente fa a piedi 6-7 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro, con la prospettiva di non essere pagata. Il denaro non circola; eppure la vita continua, per una sorta di miracolo cittadino, dove ognuno s’inventa un modo di sopravvivenza.
La gente è arrabbiata contro Kabila: in più occasioni gli ha tirato i sassi. Cacciato Mobutu e raggiunto il potere con l’aiuto di rwandesi e ugandesi, il nuovo presidente aveva suscitato grandi aspettative, finendo per scontentare tutti, a partire dagli alleati. Ritenendoli ormai troppo ingombranti, Kabila pensò di sbarazzarsene prendendoli a calci, innescando così una guerra che ha ripiombato il paese nel caos e, all’inizio dell’agosto 1998, ha affogato in un bagno di sangue la capitale congolese.
In quei giorni, al colmo della rabbia, la gente ha sfoderato gli istinti più bassi della sua umanità, iniziando una feroce «caccia ai ribelli» e divertendosi nel bruciarli vivi: un copertone attorno al collo, inzuppato di benzina, un fiammifero… e lo spettacolo era assicurato!
La fobia del «ribelle» aveva sparso la voce che le spie nemiche si fossero infiltrate in Kinshasa travestite da dementi: persone malvestite che si aggiravano per la città, barboni e vagabondi sorpresi a rovistare tra le immondizie, tutta gente ignara dell’esistenza di una guerra, furono scambiati per spie e bruciati vivi.
La psicosi collettiva sembrava cancellare ogni senso d’umanità: si giunse a misurare il naso della gente, per decidere se uno era o meno un ribelle ugandese, e ad assassinare amici e conoscenti sospettati di collaborazionismo. Perfino le treccine legate ai capelli furono sospettate di essere veicolo per portare i messaggi al nemico: tale moda scomparve dalla circolazione in un baleno.
Ho visto scene da fare accapponare la pelle. In alcuni casi sono intervenuto, rischiando grosso, per salvare qualche vittima di tanta follia; ma ho ottenuto solo che il condannato non venisse sacrificato sotto gli occhi dei bambini.
TRE GIORNI DI FUOCO
I momenti più drammatici iniziarono quando gli ugandesi si organizzarono per conquistare Kinshasa e cacciare Kabila. Una parte dell’esercito ribelle si attestò sulla collina di Mont Ngafula, dove ci sono la nostra parrocchia e il seminario filosofico. Rimanemmo per una settimana alla mercé di 3.000 militari ugandesi, mentre i soldati di Kabila erano fuggiti per organizzare la difesa.
Bisognosi di cibo e medicine, i ribelli cominciarono a visitare conventi e fattorie della zona. A fae le spese erano soprattutto le galline. Vennero anche nelle nostre case e, devo confessarlo, si comportarono correttamente. Ci dissero di stare tranquilli, perché ce l’avevano solo con Kabila. Chiedevano da mangiare e medicine; poi se ne andavano.
Prima che scoppiassero le ostilità, pensammo bene di mandare studenti e suore nel seminario teologico verso il centro città, a una ventina di chilometri da Mont Ngafula. Per percorrere quel tragitto di una quindicina di minuti in auto, fratel Paolo Ferrari e padre Giovanni Torres, che accompagnavano gli studenti e le suore, impiegarono più di tre ore. Dovettero superare 25 sbarramenti militari e ogni volta bisognava scendere dall’auto, aprire le borse, identificarsi e sottoporsi a interrogatori.
Anche per me, rimasto a custodire la casa con tre seminaristi, quel viaggio fu un autentico calvario. In costante contatto telefonico con padre Vincenzo Mura, direttore del seminario teologico, mi sentivo morire dentro e mi domandavo cosa fosse loro capitato.
Il 2 agosto 1998 cominciò l’offensiva. La gente del quartiere era terrorizzata e non sapeva cosa fare. Gli uomini erano fuggiti per paura di essere presi dai soldati; donne e bambini, rimasti soli, si rifugiarono nella nostra casa. Condividemmo quel po’ di riso e quant’altro rimaneva delle scorte del seminario. Un gesto di solidarietà che è stato ampiamente ripagato: in seguito la gente ci ha aiutato, soprattutto vigilando sulla nostra casa, affinché non diventasse oggetto di rapine e saccheggi.
Per tre giorni, tappati in casa, sentivamo le pallottole fischiare senza interruzione e senza sapere cosa capitasse fuori. Nessuno fiatava. La notte, poi, senza luce elettrica, tensione e paura diventavano palpabili. Dovendo comunicare a Roma la nostra situazione, accendevo un piccolo generatore che, essendo alquanto rumoroso, spegnevo al più presto possibile, per non attirare l’attenzione, limitandomi a trasmettere le notizie essenziali e in modo telegrafico.
LA FUGA
Quando si sparse la notizia che i soldati di Kabila avrebbero bombardato Mont Ngafula, la gente cominciò a fuggire all’impazzata verso il fondovalle. Mi convinsi che non valeva la pena rischiare la pelle per restare a guardia della casa. Infilai i documenti essenziali in uno zainetto e raggiunsi la gente che sciamava.
Tutto avvenne in maniera improvvisa e precipitosa, da non permettere alcuna pianificazione. Una fiumana di persone scendeva la collina, ciascuno tirandosi dietro i bambini, una pentola, due stracci, in una fuga frenetica e disordinata, per arrestarsi di fronte ai blocchi militari.
Ad ogni barriera mi sentivo nell’occhio del ciclone: fui minacciato e molestato più degli altri. «Perché ce l’hanno tanto con me» pensai. Forse qualcuno aveva riferito ai soldati della nostra radiofonia, usata per restare in contatto con i confratelli del nord, e del telefono, che ci permette di comunicare con l’estero. Di conseguenza potevo essere sospettato di complicità con i ribelli e, soprattutto, di seminare zizzania, diffondendo all’estero notizie false sul paese.
In uno di quei blocchi non ricordo cosa sia successo: mi trovai inginocchiato per terra, con un mitra puntato alla testa. Un soldato urlava contro i bianchi, colpevoli di avere alloggiato i ribelli. «Voi preti, soprattutto, avete aperto le chiese e accolto i ribelli». Era vero. I soldati ugandesi erano entrati nelle nostre chiese. Cosa avremmo potuto fare contro 3.000 soldati armati fino ai denti?
Col mitra puntato alle tempie, dapprima rimasi muto per l’incredulità; poi stordito e pieno di paura; infine chiusi gli occhi e mi sentii pervaso da una grande pace. Non so quanto tempo restai in quella posizione: un minuto o un’eternità. Ricordo solo che, quando riaprii gli occhi, non vidi più nessuno attorno a me. Mi alzai di scatto e rincorsi la gente, sentendomi risuscitato.
Rimasi nel fondovalle per tre giorni. Avrei potuto raggiungere il seminario teologico verso il centro città, ma preferii restare con la gente, accampata sulla strada, senza acqua né cibo, con i bambini che piangevano.
I cannoni sparavano contro la collina. Non fu difficile inventare qualche battuta scherzosa per sdrammatizzare e raffreddare la tensione. In un momento di calma, raggiunsi un convento di suore e telefonai a Roma per rassicurare i superiori che confratelli, seminaristi e suore erano tutti al sicuro.
La domenica, cessato il bombardamento, sperimentai uno dei momenti più commoventi della vita. La gente mi circondò per dirmi: «Grazie, padre, perché sei rimasto con noi» e tante parole piene di amicizia e solidarietà. Poi arrivarono i confratelli che in quei giorni mi avevano cercato, pieni di apprensione per la mia sorte. È stato bellissimo riabbracciarsi.
IL RITORNO
La domenica pomeriggio le truppe di Kabila avanzarono verso la collina e cominciarono il rastrellamento. Gli ugandesi fuggirono nella foresta, dove furono massacrati.
La mattina seguente decisi di tornare a casa. Avevo fatto i primi passi con i tre seminaristi e alcuni amici, quando, come per incanto, la gente si accodò in massa dietro a noi. Più salivamo più la processione s’ingrossava. La fuga precipitosa del venerdì si era mutata in un rientro giornioso e pieno di speranza, tra i canti dei bambini.
Più in alto la visione era raccapricciante e l’aria irrespirabile per il fumo delle case distrutte e il fetore dei corpi bruciati e in decomposizione. Arrivati in seminario, ricevemmo la sgradita visita dei soldati di Kabila: ci derubarono di tutto, dopo averci fatto patire le pene dell’inferno.
Ci recammo in visita ai confratelli della parrocchia, che ci raccontarono la loro storia. Quel venerdì padre Fedele Crippa stava celebrando la messa, quando, al momento della comunione, i ribelli fecero irruzione nella chiesa, sparando in ogni direzione. Il celebrante rimase imperterrito, deciso a terminare la celebrazione, ma si ritrovò con la chiesa vuota: la gente, strisciando sotto i banchi, era scappata in sacrestia.
Quando i soldati si furono allontanati, i missionari si rifugiarono nella casa parrocchiale e vi rimasero intrappolati, con alcuni fedeli, per tutto il tempo del bombardamento. Grazie a Dio, erano tutti incolumi.
RICOSTRUIRE LA GENTE
DAL DI DENTRO
Tutti hanno apprezzato il fatto che siamo rimasti con loro e affrontato gli stessi rischi e sofferenze. In effetti è questo il significato principale della nostra presenza. La situazione di guerra in cui vive il paese non ci permette di fare grandi opere. È la terza volta che ci distruggono tutto e che dobbiamo ricominciare da capo. Stando con la gente, condividendone la precarietà e confusione del presente e l’incertezza del futuro, siamo un segno di speranza per un avvenire nuovo e migliore.
Tuttavia continuiamo a domandarci come possiamo essere segno più efficace per questa popolazione che, oggi più che mai, riscopre la propria religiosità e la convinzione che il futuro è nelle mani di Dio. Per aiutarla a sopravvivere, cerchiamo di stimolare e coinvolgere la gente in varie forme di collaborazione, piccoli progetti, cornoperative di lavoro e commercio. Le donne, soprattutto, giocano un ruolo di grande importanza: sono esse le più creative nella ricostruzione del tessuto sociale, organizzando, per esempio, giornate di lavoro comunitario per riparare le strade e altre strutture di comune utilità.
Al tempo stesso guardiamo anche lontano, per progettare un lavoro a lunga scadenza. A tal proposito, credo che dobbiamo dare priorità alla scuola, ormai completamente trascurata dallo stato. In un paese come il Congo, dove la corruzione è elevata a sistema di vita e di sopravvivenza, c’è bisogno di ricostruire la gente dal di dentro.
Sarà questa la sfida del futuro: formare le nuove generazioni a un maggiore senso di responsabilità, amore per la pace e il bene comune.

Stefano Camerlengo




Serbia – I patriarchi tra re e dittaori

I serbi cominciarono a diventare cristiani nell’VIII secolo, ma solo nel XII tutti accettarono la religione cristiana. Quando, nel 1054, la chiesa cristiana si spaccò (diventando cattolica ad Occidente e ortodossa ad Oriente), in un primo momento il governatore serbo Mihailo Vojislavic riconobbe il papa come capo supremo della chiesa e il papa lo premiò con l’arcivescovado indipendente di Bar.
Anche il grande Nemanja, il personaggio con il quale comincia la storia del regno serbo, fu battezzato con il rito occidentale. Successivamente, egli accettò la religione ortodossa che diventò la religione del suo popolo. Mantenne però sempre buoni rapporti con il papa. Nel 1183 Nemanja diventò indipendente dall’impero bizantino e allargò i confini del suo stato. Nemanja aveva tre figli: Vukan, Stefan e Rasko.
Rasko si fece monaco col nome di Sava e nel 1219 fondò la chiesa autocefala serba, di cui fu il primo vescovo. Anche Nemanja diventò monaco con il nome di Simeon; trascorse la fine della sua vita nel monastero di Hilandar sul monte Atos, dopo aver lasciato il suo secondo figlio a governare.
Il figlio maggiore, Vukan, spinto dalla gelosia e dall’invidia per la decisione del padre, promise al papa Innocenzo III (1198-1216) di proclamare la religione cattolica religione ufficiale dello stato serbo, se l’avesse aiutato a prendere il potere. Con l’aiuto del papa, nel 1202 Vukan raggiunse lo scopo e tutta la chiesa serba fu sottomessa a Roma.
Ma il potere di Vukan durò poco, perché Stefan ridiventò sovrano della Serbia. Anch’egli diventò amico del papa, che lo proclamò re. Però il papa perse l’influenza sulla chiesa serba, che toò ad essere ortodossa.
I due fratelli in lotta furono riconciliati dal fratello Sava, che con il suo lavoro diplomatico e illuminato, diventò il personaggio più importante della storia serba. La chiesa lo proclamò santo e il 27 gennaio di ogni anno si celebra santo Sava.
Il figlio di Stefano, Dusan (1331-1355), fece della Serbia lo stato più potente dei Balcani e la chiesa diventò patriarcato. Il codice di Dusan fu il più famoso di tutto il Medioevo. Dopo Dusan, la Serbia perse la sua potenza, ma tutti i sovrani erano molto religiosi e costruivano chiese e monasteri, dei quali la maggior parte si trova nell’attuale Kosovo. I monasteri erano centri dell’istruzione, dell’arte e della cultura serba.
In Kosovo, dopo la famosa battaglia di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, la Serbia perse la sua indipendenza, cadendo per 5 secoli sotto il dominio musulmano dei turchi ottomani. La popolazione cominciò a spostarsi verso nord. Lo spostamento più grande avvenne alla fine del XVII secolo, guidato dal patriarca Arsenije Caojevic.
Al nord i serbi ricevettero molti privilegi dall’impero austro-ungarico, a patto che difendessero i confini dell’impero dai turchi. Così Krajina, Slavonia e Vojvodina divennero roccaforti dell’impero, con una maggioranza di popolazione serba. Però la popolazione fu, fino al XIX secolo, sotto la pressione dei vescovi cattolici.
Nel 1878, con la pace di Berlino, la Serbia diventò di nuovo indipendente, grazie alle rivolte e al lavoro diplomatico di Milos Obrenovic. E nel 1882 diventò regno con la dinastia Karagiorgevic. La chiesa ebbe un ruolo importante.

T ra le due guerre mondiali tutti i re serbi ebbero un grande rispetto per la chiesa. Il re doveva essere benedetto dal patriarca.
Dopo il secondo conflitto mondiale, con la vittoria del comunismo, anche se formalmente era riconosciuta la libertà di religione, tutte le forme di religiosità furono combattute con una fortissima propaganda. La sorte peggiore toccò proprio alla chiesa ortodossa.
Le terre e ricchezze della chiesa furono espropriate dallo stato. Non c’era più l’insegnamento della religione nella scuola e chi andava in chiesa difficilmente poteva trovare lavoro. Per lavorare, era necessaria «l’attitudine morale-politica»: e questo voleva dire essere ateo. Il marxismo diventò la nuova religione, che entrò nelle scuole. Marx, Engels, Lenin e Tito erano i nuovi dèi.
Era nata e cresciuta una generazione di non battezzati, senza alcuna educazione religiosa, diventando a loro volta genitori di un’altra generazione senza fede.
Dopo Tito, con l’aumentare della crisi economica, cominciò lentamente il risveglio religioso della popolazione.
Nella Serbia di Milosevic non si lavora a natale e pasqua: questa è l’unica concessione ai credenti. Nelle scuole non si insegna religione e i matrimoni celebrati in chiesa debbono essere ripetuti in municipio per essere legali.
S.Pe.

Snezana Petrovic




Serbia – dal partito di Tito a quello di dio

M i hanno battezzata di nascosto… La nonna mi ha raccontato che di notte piangevo sempre e dovevano tenermi tra le braccia per farmi dormire. Lo facevano a tui: nonna, nonno, mamma.
Vedendo che la situazione non migliorava, la nonna concluse che mi comportavo così perché i diavoli mi maltrattavano, non avendo ottenuto la protezione di Dio tramite il battesimo. Ma non aveva il coraggio di parlare con suo figlio (mio papà) dei suoi timori, perché egli era un comunista convinto, iscritto al partito. In sua presenza non si poteva parlare di religione o di chiesa. Ma la nonna aveva un piano in testa…
Un giorno, quando papà partì per un viaggio di lavoro, mandò la mamma in città a fare la spesa. Chiamò sua figlia (mia zia), un suo cugino e tutti insieme mi portarono nella chiesa più vicina per il battesimo. Era primavera, ma faceva ancora freddo.
L’anziano prete mi bagnò così tanto con l’acqua, che la nonna si preoccupò che mi ammalassi.
Fecero tutto talmente in fretta che non diedero neanche i dati per iscrivermi nel registro dei battezzati.
Quando tornammo a casa, la mamma non era ancora rientrata e nessuno si accorse di niente. Però quella notte, per la prima volta, io dormii senza piangere. Per la nonna era la conferma che aveva ragione.
Dopo alcuni giorni, quando anche la mamma si accorse del cambiamento (di notte non piangevo più), la nonna raccontò cosa avevamo fatto. Ma decisero di non dire nulla a papà.

D a piccola, prima di andare a scuola, passavo molto tempo in campagna nella casa della nonna. Lei era vedova. Il nonno era morto quando avevo due anni e, da quel giorno, iniziano i miei ricordi.
La nonna mi portava in chiesa quando c’erano le feste del paese; nella bella stagione, perché d’inverno c’era troppa neve ed era molto difficile muoversi. Mi ricordo del cortile profumato e pieno di fiori del monastero, delle suore vestite in nero, di atmosfere festose e solenni. Mi ricordo delle candele che si accendevano per i vivi e i morti e del prete con la barba lunga, che mi faceva un po’ di paura.

N ella scuola elementare eravamo tutti bambini «pionieri di Tito». Per noi Tito era come un padre, un nonno, l’incarnazione di bontà, giustizia e saggezza.
«Il comunista morale» era un libriccino di Marx in cui si parlava di come deve essere un vero comunista. Io lo lessi e lo scelsi a mia guida di comportamento. Ero molto ambiziosa e volevo iscrivermi al partito. Ce la feci: il 7 marzo 1973 fui ammessa nell’organizzazione.
Ricordo che, prima di andare alla riunione, temevo che mi chiedessero delle mie convinzioni religiose. Mi spaventava l’idea di rinnegare Dio, anche se tutta la mia educazione era stata senza religione. Mi avevano insegnato che tutto – la vita presente e futura – è nelle nostre mani, che la vita dura fino alla morte e poi non c’è più nulla. Dall’esistenza si passa all’inesistenza. Chi nella vita crea un’opera significativa, resterà nella memoria dell’umanità finché durerà la sua opera.
Ivo Andric parlava dell’eterno bisogno dell’uomo di lasciare tracce dietro di sé, le tracce della sua esistenza, incapace di accettare il fatto che tutto passa, si disfa, marcisce… Io volevo diventare scrittrice: lasciare ai posteri dei libri come testimonianza della mia esistenza.

M i sono sposata con un italiano, cattolico, non praticante. Volevo sposarmi in chiesa, non per motivi religiosi, ma per il sogno romantico di un lungo vestito bianco e la solennità della cerimonia accompagnata con la musica dell’organo. E anche per superstizione. Ci siamo sposati in comune. Perché mi dissero che avrei dovuto convertirmi al cattolicesimo per sposarmi in una chiesa cattolica. Non era vero, ma allora non lo sapevo. Sapevo solo che non avrei cambiato la mia religione. Quale religione, se non ero religiosa? Mi rivolgevo a Dio solo se ero in difficoltà: lo mettevo alla prova e Lui mi aiutava sempre. Io ero il centro dell’universo e giudicavo ogni cosa secondo la mia convenienza.
C ominciò la guerra civile. Non c’era più la Jugoslavia, ma un enorme fronte, un manicomio, un mattatornio. Volevano sapere se ero serba, croata o bosniaca. Dicevo di essere jugoslava, ma quella nazione non esisteva più. Volevo capire il perché. Ho riletto la storia. Ho cominciato a studiare le religioni delle etnie in conflitto. Ho capito che quella jugoslava non era una guerra di religione. Era, al contrario, una guerra in un paese «ateizzato» e, proprio per questo, facile preda dei signori della guerra. Sono andata alla ricerca della religione cristiana ortodossa, scoprendo che essa fa parte inseparabile della mia identità nazionale.
Mi sono messa in viaggio verso Gesù e Lui mi è venuto incontro. Ho scoperto i doni del vangelo. Ho scoperto il volontariato e la gioia del lavoro gratuito come espressione dell’amore per il prossimo. Ho capito che non sono il centro dell’universo, ma solo un anello nella catena della vita e debbo stare attenta che questo anello non si arrugginisca.

D opo 13 anni di matrimonio, con due bambini già grandi, ci siamo sposati in chiesa con il rito ortodosso. E, come da bambina avevo smesso di piangere dopo essere stata battezzata, così… ho cessato di litigare con mio marito, come prima facevamo. È diventato più semplice educare i figli e risolvere ogni problema.
Per ogni cosa Gesù ha la risposta giusta e un consiglio saggio. Ora andiamo a messa tutte le feste e, in casa, commentiamo le prediche di don Enrico, il nostro parroco.
Una volta al mese ospitiamo padre Milivoj, il prete ortodosso che due volte al mese celebra la liturgia a Vicenza, in una chiesa prestataci per le funzioni religiose dai fratelli cattolici.
Nella nostra regione, il Trentino-Alto Adige, ci sono circa 3.600 serbi; nelle province di Vicenza, Verona e Padova sono oltre 6.000. Il nostro prete è, come l’apostolo Paolo, senza dimora fissa, ospitato dalla sua gente: ci insegna a vivere secondo l’insegnamento di Gesù, a comportarci da veri cristiani. Battezza i non battezzati e celebra i matrimoni; raccomanda di insegnare ai nostri figli lingua, usi e costumi della terra d’origine.

I o cerco di rispettare le regole della mia chiesa per ciò che riguarda digiuno, confessione e comunione; mio marito e i figli seguono le norme cattoliche. Siamo una famiglia ecumenica, e io prego con tutto il cuore che un giorno le nostre chiese si uniscano superando le divergenze dogmatiche.

Snezana petrovic




Serbia – E’ tempo di girare pagina

Pregare per chi sta al potere è una consuetudine della chiesa ortodossa. Ma quando il potere
è contro il popolo e il vivere cristiano, opporsi
è dovere di ogni credente. Oggi la Serbia
è distrutta dai bombardamenti della Nato
e 14 milioni di persone sono strangolate
da tirannia, miseria e sanzioni economiche.
Per questo il patriarca Pavle invita
il presidente Milosevic a uscire di scena.
Senza ulteriori spargimenti di sangue.

Oltre ai 10 comandamenti, la chiesa ortodossa serba chiede ai suoi fedeli di rispettare altre regole: andare alla liturgia tutte le domeniche e feste religiose; digiunare (cioè non mangiare carne) prima delle feste principali (pasqua, natale, apostoli Pietro e Paolo e assunzione di Maria), nonché ogni mercoledì e venerdì; confessarsi e fare la comunione dopo i periodi di digiuno; digiunare quando lo ordina il vescovo a causa di qualche disgrazia collettiva; non contrarre matrimoni nei periodi di digiuno; non leggere libri eretici; non adoperare oggetti che si usano in chiesa; rispettare i sacerdoti; pregare per quanti sono al potere.
Dunque, pregare per chi detiene il potere è un comandamento della chiesa ortodossa. Essere al vertice di un paese, è una responsabilità enorme, che l’uomo da solo non potrà mai sostenere se non aiutato da Dio. E, per esserlo, serve la preghiera non solo sua personale, ma anche comunitaria.
Ma che fare se al potere c’è un non cristiano? Quando egli stesso non rivolge alcuna preghiera a Dio per essere aiutato a svolgere il suo dovere verso il popolo? Quando non va in chiesa e non rispetta né i comandamenti di Dio né, tanto meno, quelli della chiesa? Quando considera la chiesa solo un’istituzione da sfruttare a suo vantaggio?
Così è accaduto in Serbia a partire dal 1945, in Russia dalla rivoluzione d’ottobre, in Romania e Bulgaria. Questi paesi, in cui la religione principale era quella cristiano- ortodossa, hanno sperimentato un potere contro ogni tipo di religiosità: contro la chiesa, contro i sacerdoti, contro Dio stesso.
«La religione è l’oppio dei popoli – tuonava Lenin -. Preti, vescovi e cristiani sono tutti parassiti, inutili e nocivi, da eliminare insieme ai capitalisti». Ne erano pieni i campi di concentramento di Stalin e degli altri capi comunisti. Sorsero nuovi martiri che perdevano la vita per testimoniare la fede, come ai tempi dei romani.
Eppure, nonostante tutto, è rimasta la regola di pregare per quelli che sono al potere, perché la preghiera cristiana non ha limiti.
Gesù ci insegna a pregare anche per i nemici (Mt 5, 44) e gli apostoli Pietro e Paolo invitano a rispettare e ubbidire a quelli che sono al potere (1Pt 2, 13-17; Rom 13, 1-7).
Ma, allorché i governanti portano in rovina il popolo, quando ciò che chiedono è in contraddizione con i comandamenti di Dio e del vivere cristiano, è dovere di ogni cristiano disubbidire, opporsi.

La chiesa ortodossa è apolitica. «Non ha il potere di costringere, ma di proporre con parole di verità, indicando quello che è peccato, male individuale o collettivo, disgrazia in questa vita e in quella eterna». Essa si preoccupa, innanzitutto, per l’anima della gente. Ma ora che la sopravvivenza fisica e spirituale del popolo è minacciata, la chiesa ortodossa serba ha alzato la voce. Per la prima volta nella sua storia, si è schierata contro un potere: il potere di Milosevic.
All’inizio la chiesa sostenne il presidente, perché riteneva che fosse l’uomo giusto per riunire tutti i serbi in un unico stato. Presto, però, si accorse che la politica del presidente portava i serbi alla rovina.
Oggi il paese sta affogando con i suoi 14 milioni di abitanti, soffocato dalla tirannia, dalla miseria, dalle sanzioni che hanno reso impossibile qualsiasi progresso: distrutto dai bombardamenti della Nato.
Il 10 agosto 1999, a Belgrado, i vescovi della chiesa serba hanno ricordato agli uomini del potere che hanno il dovere davanti a Dio, al popolo e alla storia di trovare una via d’uscita alla situazione.
In base a tale dovere e responsabilità, per prima cosa hanno chiesto all’attuale presidente, se non desidera trasformare il suo popolo in ostaggio, portandolo a sicura rovina, di permettere che altri assumano la guida dello stato, in modo democratico e pacifico, senza versare altro sangue.
«Ci aspettiamo elezioni libere e democratiche. La chiesa non ha mai suggerito per chi votare. Abbiamo soltanto invitato i nostri fedeli a riflettere prima di scegliere. Se uno è credente, non dovrebbe dare il proprio voto a partiti o persone non credenti».

La chiesa ha chiesto alle Nazioni Unite e alle forze di pace in Kosovo di porre fine ai crimini contro la popolazione serba e alle distruzioni di chiese, monasteri e interi villaggi. Da quando si è ritirato l’esercito serbo dal Kosovo, il presidente Milosevic non ha rivolto una parola né al popolo rimasto nella regione né ai profughi che si sono rifugiati nella Serbia settentrionale.
Il patriarca Pavle è andato due volte in Kosovo, per incoraggiare i serbi a non abbandonare le loro case e avere fiducia nelle forze inteazionali. Ha supplicato i rappresentanti inteazionali di proteggere il popolo indifeso e minoritario, di difendere chiese e monasteri carichi di storia.

Snezana Petrovic




Missionari in pensieri, parole e opere

Sintetizzare il pensiero missionario del beato Giuseppe Allamano non è facile.
Si rischia di essere riduttivi. Ma alcuni punti sono precisi, irrinunciabili.
Li ricordiamo… in occasione della sua festa: il 16 di questo mese.

Il primo annuncio

Nel 1901 il beato Giuseppe Allamano fonda i missionari della Consolata per annunciare il vangelo a persone, gruppi e popoli presso i quali non è ancora conosciuto… E questa è l’identità del missionario della Consolata, sacerdote, suora e fratello. Ciò comporta crescere nella «passione» di far conoscere il Signore al maggior numero possibile di persone, e fare proprie le parole dell’apostolo Paolo: «Guai a me se non evangelizzassi!» (1 Cor 9, 16).
«Tutto io faccio per il vangelo» dice ancora san Paolo. E l’Allamano incalza: «Tutto, tutto! Mi sacrificherò per questo, fino ad accorciare o anche donare la vita. Per questo ci vuole fuoco»: il fuoco dell’amore per Dio e i fratelli in attesa dell’annuncio di salvezza e di aiuto fraterno nelle loro necessità.
Solo questo giustifica l’impegno per la missione, l’apertura all’universalità, la sollecitudine per i fratelli di ogni razza e lingua. Se non si arde – continua l’Allamano – non si farà mai nulla. Si condurrà una vita amorfa, insignificante. Tale ideale va sempre riproposto, perché sia «al primo posto», «in cima a tutti i pensieri». Altrimenti «ci si guasta», non si è più come si deve essere.
Andare oltre
Anche se situazioni di «prima evangelizzazione» sono oggi presenti in ogni ambiente, la prospettiva dell’Allamano è quella dell’universalità: chiede di non rimanere chiusi entro i propri confini territoriali, stretti dalle proprie necessità, ma di guardare a quelle più grandi in altri paesi. E ciò in obbedienza al comando di Cristo «andate in tutto il mondo» e a testimonianza della natura «cattolica» della chiesa. Se essa pensasse soltanto alle sue urgenze, non sarebbe fedele a Cristo.
Fa parte della vocazione dei missionari della Consolata l’uscire dai propri confini nazionali, culturali e religiosi, per annunciare il vangelo negli avamposti del mondo, in ogni parte della terra, dove esistono situazioni che manifestano una lontananza dal Dio di Gesù Cristo e dagli ideali del suo regno.
Pur operando sempre in Italia, l’Allamano stesso vive la dimensione missionaria dell’«andare oltre». Egli ne intuisce la portata all’interno di ogni chiesa: opera (e fatica) per cambiare una mentalità chiusa, incoraggiando a superare gli schemi della pastorale ordinaria, per sostenere iniziative nuove, affrontare situazioni di emergenza, settori bisognosi di evangelizzazione anche a Torino: il mondo della moda, il settore della stampa, la classe operaia, l’azione cattolica, le cornoperative…
Questo spirito è oggi più che mai attuale, e impone ai missionari di dae una speciale testimonianza.
Sette Atteggiamenti
missionari
Nel realizzare la missione ad gentes il beato Allamano indica anche degli atteggiamenti che esprimono il suo stile.

1. Dedizione totale
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.

2. Qualificazione
Di conseguenza chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio.
È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è necessaria per essere mediatori culturali, veicoli d’incontro tra popoli, culture, religioni.
Inoltre la missione ad gentes è destinata alle frontiere, a situazioni-limite. Si deve confrontare con la globalizzazione economica, il pensiero postmoderno, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali.
Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.

3. Primato dello spirito
La qualificazione è soprattutto di carattere spirituale e morale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene».
«Voi – dice l’Allamano – dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».

4. Unità di intenti
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa.
Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti.

5. Collaborazione con i laici
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.

6. Stare con la gente
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza.
L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia.
Le Costituzioni dell’istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».

7. La promozione dell’uomo
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore.
A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti – si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio… Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.

Gottardo Pasqualetti