Incontro con Luciano Violante

Globalizzare i diritti…
la frontiera
degli onesti

Signor presidente, lei ha recentemente affermato (citando Norberto Bobbio) che «i diritti umani sono la religione civile del nostro tempo». Il fenomeno della globalizzazione dovrebbe favorire tale «religione». È veramente così?

Sinora la globalizzazione ha riguardato la finanza, l’economia e la comunicazione. Non ha riguardato ancora i diritti umani fondamentali. Anzi, sono aumentate le diseguaglianze tra gli uomini, tra le nazioni e tra i continenti. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione dei diritti; questa è la frontiera degli uomini onesti.
È importante che i vertici inteazionali comincino a porre il problema della globalizzazione responsabile: lo ha fatto l’Unione Europea durante il semestre di presidenza portoghese e l’hanno fatto ad Okinawa (Giappone) i capi di stato e governo del «G 8», il gruppo delle otto nazioni più industrializzate.

Le democrazie occidentali spesso si ritengono i paladini dei diritti umani… e lo dimostrano intervenendo anche manu militari in Kosovo o Timor Est. È questo il modo migliore per garantire la pace?

Con la guerra non si garantisce la pace. Ma in entrambi i casi, da lei citati, l’intervento militare si è reso necessario per impedire che continuasse la persecuzione di popolazioni povere e incolpevoli. Bisogna sempre più sviluppare, partendo dalle zone a rischio presenti nel mondo, operazioni di peace building e peace keeping, che servano appunto a costruire e mantenere la pace e a prevenire la guerra.
L’Italia in questo è all’avanguardia; tanto che, a Torino, è già operativa una scuola di peace keeping delle Nazioni Unite.

La povertà è una grave minaccia dei diritti umani: essa attenta al primo dei diritti, quello alla vita. La miseria, non raramente, coesiste con la ricchezza: le baraccopoli dell’America Latina (e non solo) insegnano. Questo è solo un paradosso?

Non è solo un paradosso. È una vergogna, frutto della diseguaglianza tra gli uomini. Ma intendo rispondere con precisione.
Oggi, a fronte di un crescente sviluppo economico globale, che ha fatto registrare negli ultimi 50 anni un aumento del prodotto interno lordo mondiale di dieci volte (da 3 mila miliardi a 30 mila miliardi di dollari), assistiamo (anche per effetto della globalizzazione) ad un preoccupante allargamento della forbice economica, già esistente tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo.
Secondo l’ultimo Rapporto sul programma di sviluppo delle Nazioni Unite, sono ancora oltre 80 i paesi che hanno redditi pro capite più bassi rispetto ad un decennio fa o più. In particolare, a partire dal 1990, solo 40 paesi hanno ottenuto una crescita media del reddito pro capite di oltre il 3% l’anno, mentre 55 paesi (soprattutto nell’Africa sub-sahariana, ma anche nell’Europa dell’est e nella Comunità degli stati indipendenti – Csi), si sono ulteriormente impoveriti. La povertà costituisce ancora oggi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo. Il 40% dei decessi è dovuto alle malattie contagiose, il 99% delle quali si verifica nei paesi meno sviluppati.
Come vede, la povertà non è una questione sociale. La povertà è una questione politica, che va affrontata come tale.
In coincidenza anche con il Giubileo dei cristiani, oggi si discute molto sulla cancellazione del debito estero dei paesi poveri. L’Italia ha deciso di cancellare 6 mila miliardi di lire. Come giudicare tale scelta?

L’Italia ha già approvato la legge sulla cancellazione del debito dei paesi poveri. In questo siamo più avanti di altri. Ma non basta. Bisogna lavorare per portare istruzione, sanità e sviluppo nei paesi poveri.

Circa la cancellazione del debito, qualcuno ha affermato che siamo di fronte alla «mano destra che dona, seguita però dalla sinistra che toglie». È questa solo una battuta maliziosa?

Non è questa l’intenzione italiana; né è questa una nostra abitudine.
Quest’anno il Brasile celebra i 500 anni della sua nascita. Ma è una celebrazione contestata dagli indios, dai discendenti degli schiavi neri e da vasti settori popolari impoveriti… mentre l’Amazzonia, polmone del mondo, è inquinata. Eppure il Brasile è l’ottava potenza del mondo!
Coniugare sviluppo economico e valori umani è un’impresa particolarmente difficile; ma, a mio avviso, è una delle ragioni fondamentali per le quali è necessario impegnarsi nell’attività politica.

In Brasile (ma anche in Colombia, Perù, Messico…), da circa 40 anni risuona il ritornello «i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Allora «c’è del marcio», e non solo nella «Danimarca di Amleto». Quale marcio?

Il marcio dell’ingiustizia sociale. La distanza tra le nazioni più ricche e quelle più povere era di circa 3 a 1 nel 1820, di 11 a 1 nel 1913, di 35 a 1 nel 1950, di 44 a 1 nel 1973 e di 72 a 1 nel 1992. Ecco la «forbice» di cui parlavo.
Aggiungo che circa 550 milioni di donne, oltre la metà della popolazione rurale del mondo, vivono sotto la soglia di povertà. La donna povera è più soggetta a violenze da parte degli uomini, partorisce figli ammalati o indeboliti, ai quali non riesce a fornire il nutrimento necessario. Ogni anno muoiono nel mondo 13 milioni di bambini sotto i cinque anni, a causa di malnutrizione o di malattie legate alla povertà. Almeno 5 milioni di bambini sotto i cinque anni, pari al 36% del totale in questa fascia d’età, sono gravemente malnutriti. La povertà costringe sino a 160 milioni di giovani al lavoro minorile e circa 2 milioni a prostituirsi.
Contro questo «marcio» bisogna combattere con la massima determinazione.

Signor presidente, so che lei ha incontrato alcuni missionari. Chi è per lei il missionario oggi?

Un uomo che lotta contro l’ingiustizia sociale, con gli strumenti della fede, della pace e del rigore morale.

Il dramma dell’africa è la sua ricchezza

L o squilibrio tra i paesi meno sviluppati e le nostre nazioni si traduce, oltre che in disperazione umana, in massicci movimenti migratori che provocano nei paesi ricchi ondate razziste, difficilmente controllabili. È necessario che i nostri paesi rafforzino il loro impegno, a livello nazionale e internazionale, per garantire a tutti la libertà dal bisogno, alcune condizioni minime di vita e il diritto allo sviluppo…

I governi delle nazioni industrializzate compiano un passo ulteriore nella strategia di promozione dello sviluppo dei paesi poveri, che vada oltre la cancellazione del debito estero. Il diritto allo sviluppo dei paesi poveri deve costituire per quelli ricchi un preciso dovere a non adottare politiche economiche ingiustamente dannose per questi paesi.
Un forte richiamo a questo dovere degli stati ci viene oggi rivolto con particolare urgenza dai missionari, da quegli uomini e donne quotidianamente impegnati sul terreno, spesso a rischio della propria vita, in aiuto dei più deboli. Anche alla luce delle loro importanti segnalazioni, ritengo che i governi dei paesi ricchi debbano agire in due direzioni principali:
– abbattere le barriere al commercio internazionale e fare in modo che anche i paesi poveri possano avvalersi dei benefici della globalizzazione; questi paesi non avranno, infatti, un vero sviluppo se non riusciranno ad entrare liberamente con i loro prodotti nei nostri mercati, come avviene per i nostri prodotti nei loro mercati;
– contrastare la politica neocolonialista adottata da alcune grandi industrie occidentali verso i paesi poveri, dell’Africa in particolare, che sta creando nuove e pericolose forme di sfruttamento e dipendenza.
Faccio due esempi.
1/ Il Nord del mondo sarebbe oggi debitore verso i paesi poveri, donatori di materia prima, di oltre 300 milioni di dollari per diritti di sfruttamento non pagati, relativi a sementi per coltivazioni agricole. Alcune sementi, geneticamente modificate, non riproducibili e imposte sul mercato da varie industrie, minacciano seriamente ogni strategia di sicurezza alimentare di un paese povero, impedendo la diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’alimentazione umana. Siamo così arrivati al paradosso che il dramma del continente africano non è tanto la sua povertà, quanto la sua enorme ricchezza!
2/ La sicurezza alimentare dei paesi poveri e il loro diritto alla sopravvivenza sono oggi seriamente minacciati dalla penuria d’acqua e dalla sua iniqua distribuzione nel mondo. Il diritto all’acqua costituisce uno dei diritti maggiormente invocati da questi popoli, a fronte dei dati che vedono meno di 10 paesi (tra cui, in testa, Brasile, Russia, Cina, Canada, Indonesia e Stati Uniti) dividersi il 60% delle risorse idriche del pianeta. Per alcuni paesi le previsioni sono particolarmente allarmanti. Nei prossimi 10 anni le risorse pro capite si ridurranno del 30% in Egitto, del 40% in Nigeria e del 50% in Kenya.
L’allarme tuttavia non riguarda solo queste nazioni, ma l’intero pianeta…

L a ricorrenza del Giubileo rappresenta un grande evento spirituale per la comunità cristiana nel mondo. La portata di tale evento non può, tuttavia, essere circoscritta alla sola comunità dei credenti.
Il suo profondo significato etico, tradizionalmente ispirato (oltre che a valori religiosi) anche a quelli sociali di equità, uguaglianza e pace, fa sì che il Giubileo rappresenti anche per la comunità laica e per quella politica, in particolare, un’occasione importante di riflessione sui problemi relativi alla giustizia sociale e alla tutela dei diritti dell’uomo.
Il primato dei diritti umani rende assoggettabili a responsabilità gli stati e le persone che, in ragione dell’esercizio di pubblici poteri, si rendono responsabili delle violazioni di tali diritti. È ormai possibile fare in modo che, accanto ai diritti universali degli uomini, corrispondano anche i doveri universali degli stati.
Credo che l’Italia debba porsi tra i suoi obiettivi prioritari l’adozione di una Carta dei doveri universali degli stati che integri la tradizionale frontiera dei diritti umani. Lavorare per questa Carta può costituire uno degli impegni più nobili di ogni paese civile, libero e democratico.
Luciano Violante
(dall’intervento all’inaugurazione
dell’«Expo missio 2000», Roma 9 giugno)

Francesco Beardi

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