“Ero forestiero e mi avete ospitato”

I «mediatori interculturali» del Trentino

Albania, Croazia, Serbia, Macedonia, Tunisia, Marocco, Egitto, Siria, Iran, Cina, Brasile, Colombia, Libano, Polonia. Per un intero anno, in una scuola del piccolo Trentino si sono ritrovate persone provenienti da tutti questi paesi. L’obiettivo era concreto e meritorio: formare dei «mediatori interculturali» che sappiano affrontare i problemi della società multietnica e multiculturale. Un tipo di società che in Italia, come già nel resto del mondo occidentale, è divenuta realtà quotidiana.
Ecco come descrive l’esperienza la nostra collaboratrice serba.

Finalmente possiamo dare una buona notizia in tema di immigrazione: la provincia di Trento ha costruito un «ponte» nuovo. Un bellissimo ponte, ma non di pietra o di ferro: un ponte fatto di persone. Persone molto diverse fra di loro: diverso colore della pelle, diversa nazionalità, diversa religione, diversa mentalità e abitudini, diverso carattere. Ognuno con la propria storia. Queste persone, come elementi di una nuova costruzione, si sono ritrovate per uno scopo comune: mettere la propria esperienza di «forestiero» al servizio degli altri.
Gli stranieri in Italia sono una realtà dei nostri tempi. Ora abbiamo due possibilità: che la loro presenza sia fonte di arricchimento (materiale, culturale e spirituale) per il nostro paese, oppure fonte di conflitti, soprattutto futuri.
Tutto dipende dalle nostre scelte. Dai semi che gettiamo oggi cresceranno frutti per i nostri figli. La provincia di Trento ha gettato seme buono. Ha introdotto nella nostra società la figura del «mediatore interculturale», una figura nuova che personifica la speranza in un futuro migliore.
A dispetto del pessimismo sempre più diffuso, la presenza del «mediatore interculturale» nella nostra società ci dà una possibilità in più: quella di sfruttare le nostre diversità per incrementare la qualità del nostro paese.

Chi è il «mediatore interculturale»? È una persona con un livello culturale superiore o universitario proveniente da un paese di forte emigrazione. È una persona che vive da molti anni in Italia e parla bene l’idioma. Conosce la cultura italiana, la mentalità della gente ed ha legami affettivi solidi con il paese che l’ha accolto.
Dall’altra parte, il mediatore porta con se molte conoscenze sul paese dal quale proviene. Queste conoscenze possono rendersi utili per risolvere in modo positivo e costruttivo i problemi che si presenteranno in una società multinazionale e multiculturale come anche l’Italia è diventata.
La provincia di Trento ha organizzato un corso per «mediatori interculturali» allo scopo di inserirli nel mondo della scuola. Il loro lavoro dovrà rivolgersi indistintamente ai bambini italiani e a quelli stranieri al fine di facilitare la classe nel passaggio dal gruppo multiculturale al gruppo interculturale. Tratto fondamentale del suo lavoro è la collaborazione con gli insegnanti.
Gli obiettivi del lavoro del mediatore dovrebbero essere plurimi. In primo luogo, facilitare l’interazione del gruppo classe, prestando particolare attenzione allo studente straniero per incoraggiarlo e sostenerlo nell’intrecciare relazioni con coetanei e insegnanti e per favorire l’inserimento nel nuovo sistema scolastico.
Il mediatore agevolerà la comunicazione tra scuola e famiglia. Collaborerà inoltre con gli insegnanti per creare condizioni e occasioni di scambio interculturale all’interno del gruppo classe e della scuola, facilitando la comunicazione, il gioco comune e le forme di aiuto reciproco nell’apprendimento dei contenuti.
Uno dei punti qualificanti del loro intervento dovrebbe consistere nel valorizzare tutte le culture presenti in classe, stimolando il gruppo a cogliere diversità e affinità.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta (era l’8 dicembre del 1999), ci guardavamo incuriositi. Credo che nessuno di noi si era mai trovato prima in un gruppo così variopinto.
Ricordo che i nostri «tutors», Leila e Gabriel, ci hanno insegnato un gioco di presentazione molto interessante, che ha subito stuzzicato la curiosità della classe.
Metà di noi ha posto in un contenitore un bigliettino con il proprio nome. Ognuno degli altri ha poi pescato uno di questi biglietti. Si sono così formate una quindicina di coppie che, in disparte, si sono conosciute. Alla fine, ogni persona ha presentato al gruppo il proprio compagno o compagna. Con contentezza abbiamo imparato i nomi gli uni degli altri e la provenienza di ognuno. Quel primo incontro per me è forse stato il più bello e interessante.
Da dicembre a maggio ci siamo incontrati il sabato e la domenica, nonché in alcuni pomeriggi durante la settimana. È stato molto impegnativo, ma anche estremamente interessante!
Durante il corso abbiamo studiato come funziona la scuola italiana; ci hanno dato nozioni generali di storia contemporanea e dei fenomeni migratori; abbiamo conosciuto alcuni programmi e progetti di tipo interculturale.
In altre occasioni, abbiamo fatto lezione noi studenti. Ognuno ha cercato di presentare la propria cultura e i sistemi scolastici dei paesi d’origine. Una particolare importanza è stata data all’ascolto, cercando di sviluppare tale capacità in ognuno di noi. Abbiamo cercato di approfondire i rapporti con persone di altre culture d’immigrazione presenti in questo paese e di sviluppare la capacità di relativizzare il punto di vista.
Il prossimo anno scolastico noi tutti saremo sparsi nelle scuole trentine per svolgere i nostri compiti di mediatori. Saremo noi a facilitare l’inserimento dei bambini stranieri nelle scuole trentine e a insegnare ai ragazzi una disciplina nuova, l’intercultura, indispensabile per la formazione corretta dei nostri figli che vivranno in una società fortemente multietnica e multiculturale.

Snezana Petrovic




“Uno starniero non è mai felice”

Un architetto e una prostituta, entrambi «stranieri», ma con risultati apparentemente opposti: il primo inserito nella società, la seconda ai margini. Sono i protagonisti del romanzo di Younis Tawfik, uno scrittore iracheno che da anni vive a Torino, città multietnica con molti problemi.

Straniero come estraneo, diverso, sradicato: come immigrato. Una persona dotata di un corpo dai tratti che talvolta differiscono da quelli a cui siamo abituati, ma anche di un’anima, a volte piena di rabbia o di malinconia. Straniero come portatore di una cultura «altra», non sempre e necessariamente stridente con la nostra. Immigrato, ma non sempre criminale, indesiderato occupante del territorio italiano, bensì lavoratore disposto a svolgere quelle mansioni pesanti, pericolose e spesso malpagate, che noi scartiamo ormai da qualche decennio.
Straniero, come il titolo del bellissimo libro dello scrittore iracheno, ma naturalizzato torinese, Younis Tawfik (La straniera, Bompiani Editore, lire 20.000), che in circa 200 pagine racconta, con disarmante drammaticità, due spaccati di vita: quella del protagonista, un architetto mediorientale, dalla carriera ben riuscita e inserito nella società torinese, e quella di Amina, una sfortunata ragazza marocchina piena di sogni e speranze, finita sul marciapiede. I due personaggi si incontrano una notte, ed iniziano a narrare, in prima persona e in alternanza, la propria storia, soffermandosi sui ricordi dell’infanzia, della famiglia e della patria lontana.
L’amore presto s’insinua tra i due, tormentato e conflittuale come le loro stesse esistenze, e li porta verso un tragico destino.

Younis Tawfik, come è nata in te l’idea di questo romanzo?
«Dal mio incontro casuale, in una birreria di Torino, con una prostituta marocchina. Mi trovavo in compagnia di amici, così l’ho invitata al nostro tavolo e lei, spontaneamente, mi ha raccontato la sua storia, che è in parte simile a quella da me narrata nel libro. Sentendola parlare, infatti, decisi di mettermi a scrivere. Passarono tre anni, e un amico mi parlò di una ragazza marocchina che lavorava in una macelleria, morta di tumore al cervello. Volevano raccogliere dei soldi per mandare il corpo in patria. Ecco, allora, che decisi di inserire e fondere con la storia di Amina, la prostituta, quella di Mina, la macellaia, che, con la sua tragica fine, sarebbe divenuta strumento di riscatto e redenzione per l’altra».
Il protagonista, l’architetto, rispecchia il prototipo dell’immigrato colto, di successo, che ad un certo punto entra in crisi. Ce ne puoi parlare?
«Lui rappresenta l’immigrato che vive in Italia da tanti anni e che si sente completamente inserito nella società, o almeno così crede: è colto, educato, sposato e separato, con un buon lavoro. Ha fatto di tutto per farsi accettare da una società benestante e borghese come quella torinese. Ad un certo punto, però, incontra Amina, la prostituta, una ragazza ai margini: improvvisamente, la sua memoria sopita, il suo senso d’identità perduto si risvegliano.
Ora riesce a provare nuovamente sensazioni, emozioni, che aveva rimosso. Capisce che non era poi così “integrato”, e che l’integrazione stessa non significa annullare, dimenticare le proprie radici. Con e grazie ad Amina inizia il percorso a ritroso del recupero della memoria: lei rappresenta la Shahrazade delle Mille e una notte, quel raccontare storie l’una nell’altra, che l’aiutano a mantenersi in vita e a far vivere. Attraverso di lei il protagonista riscopre colori, profumi, desideri, ambienti che gli appartenevano, ma che aveva dimenticato. Questa donna, tuttavia, diviene anche la terra traditrice, la prostituta (la madre terra che lo ha costretto ad andarsene via). Quando la perde, scopre il vuoto, capisce di essere un immigrato, quello straniero che aveva dimenticato di essere».
Il romanzo si inserisce bene all’interno dello stile narrativo arabo: prosa e poesia mescolate insieme, trama ad incastro (per intenderci, il racconto nel racconto), uso abbondante della memoria. Tuttavia, è un’opera italiana, scritta nella nostra lingua, che contiene descrizioni e situazioni a noi familiari. Insomma, gli stranieri che tu descrivi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Possiamo dunque parlare già di letteratura araba in lingua italiana, come avviene, ad esempio, per quella araba in lingua francese o inglese?
«Direi di sì. Ho usato la lingua italiana come strumento di espressione: strumento che, più volte, mi è stato stretto, e che mi rendeva prigioniero di un vocabolo in cui non riuscivo pienamente a comunicare ciò che desideravo. Tuttavia volevo dimostrare che, in Italia, gli intellettuali arabi possono considerarsi allo stesso livello di quelli anglofoni o francofoni, anche perché ritengo che, quella italiana, sia una bellissima lingua, che ben s’adatta a raccontare storie nello stile narrativo arabo».
Perché hai deciso di raccontare agli italiani una storia di immigrazione?
«Il mio obiettivo era quello di fornire uno strumento per capire la psicologia degli immigrati, gente dotata di un corpo, una mente e un cuore, che ride, soffre, piange o si dispera. Per me è una grande soddisfazione sentir dire da un italiano: “Finalmente sono riuscito a guardare uno straniero per quello che è: una persona come tutte le altre, con il proprio bagaglio di sogni e speranze, di tragedie quotidiane, ecc. Prima li consideravo poco più di ombre, senza identità, senza peso, senza emozioni”. Già, essi sono anime in “trasferta”, spesso loro malgrado, costrette dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni a lasciare la propria famiglia, la propria terra, e a vivere all’estero una vita difficile, a volte drammatica e densa di solitudine e malinconia».
Quale messaggio vorresti comunicare agli italiani?
«Vorrei poter dire loro che non tutti gli immigrati sono criminali o gente che ruba il lavoro, perché, nella maggior parte dei casi, svolgono quelle mansioni che nessuno vuole più fare. Gli immigrati costituiscono una ricchezza per l’Italia. Se viene data loro la possibilità, sono in grado di contribuire alla nascita di una società multietnica: si tratta di un processo mondiale che, in era di globalizzazione, è divenuto ormai irreversibile.
Fino alla fine degli anni ’60 erano gli italiani ad emigrare nel nord Europa o in America, ora sono loro ad accogliere gli stranieri. Tuttavia, le leggi sull’immigrazione non giocano a favore degli immigrati, e, nello stesso tempo, non aiutano lo stato a combattere la criminalità. Quest’ultima sanatoria è servita solo per schedarli, e i permessi di soggiorno tardano ad arrivare, creando grossi problemi a chi un lavoro l’aveva trovato o potrebbe trovarlo.
Hanno espulso ingiustamente onesti padri di famiglia, che mantenevano figli e genitori al loro paese, oppure hanno diviso famiglie rimpatriando i genitori e mandando in affidamento i figli presso famiglie italiane; da un altro canto, però, non riescono a liberarsi dei grandi spacciatori, dei delinquenti o di chi si arricchisce con il racket della prostituzione.
Paradossalmente, spacciatori, ladri e prostitute hanno i soldi necessari per ottenere il permesso di soggiorno, altri onesti lavoratori no. Quante prostitute sono state regolarizzate perché hanno pagato ditte italiane o famiglie che hanno dichiarato fittiziamente di averle assunte come operaie o come colf?».
Perché hai scelto la parola «straniera» come titolo del tuo romanzo?
«Perché l’altra, “extracomunitaria”, comunemente usata, è spregiativa e discriminatoria. “Straniero” indica l’estraneità, il disagio provocato dal vivere in un certo ambiente. Ed è quello che io ho descritto: il disagio di esistere, l’essere un po’ estranei in patria e stranieri in Italia».

Angela Lano




TANZANIA – Cotolette e “contorno”

La vita missionaria non balza, in genere, agli onori delle cronache,ma è fatta di tanti gesti: giornalieri, pazienti, concreti.
Per costruire comunità cristiane e aiutare la gente a vivere… un po’ meglio.

L a mia parrocchia di Ng’ingula (diocesi di Iringa) sorge a 2 mila metri di altitudine tra nebbia, freddo e pioggia. Quando non piove (e succede raramente), è un posto splendido, impreziosito da grandi colline e verdi vallate. La terra è fertile: si coltivano granoturco, fagioli, patate, piselli e un po’ di frumento. Quanto a frutta, maturano bene pere e pesche.
Un grave problema è rappresentato dai trasporti. Per fare gli 85 chilometri che ci separano dalla città di Iringa, si impiegano due-tre ore di auto, perché la strada è dissestata e scorre tutta sulla cresta delle colline.
In precedenza ho lavorato a Matembwe, una missione con numerose attività: c’erano 20 operai, una falegnameria, una segheria e un’officina meccanica, una stalla e un’estesa campagna da coltivare. Lì facevo anche l’amministratore.
A Ng’ingula ci sono gli stessi operai, ma non tutto quel lavoro. E, mentre a Matembwe riuscivo a pagarli con le entrate dalle varie attività, qui è un grosso problema retribuire tutte le persone che vi operano.
fattorie… missionarie
In Tanzania le fattorie si sono sviluppate per venire incontro alle necessità concrete della gente. Oggi non ce n’è più bisogno come in passato. Si tratta, allora, di rivedere le attività, preparando persone capaci di gestirle da sole.
Ma non è facile. A volte si richiede la cessazione di alcuni lavori o la riduzione del personale. E questo è malvisto dalla gente. La stessa chiesa africana considera ancora necessarie le attività materiali, per aiutare la popolazione. Quindi non è favorevole alla loro eliminazione. Ma tutto ciò «lega le mani».
A Ng’ingula funzionano una piccola officina e una scuola di falegnameria con sette-otto allievi che iniziano il corso ogni anno; sotto la guida di due istruttori e un catechista, imparano il mestiere. Funzionano pure il mulino (che non offre guadagni: serve solo ad aiutare la gente) e un piccolo dispensario, che manteniamo fornito di medicine.
Abbiamo anche un piccolo allevamento di maiali: macellandone due-tre al mese, offriamo per pochi denari un po’ di carne alla popolazione.
Partendo dalla «base»
Non vorrei dare l’impressione che il lavoro missionario sia fatto solo di macchine e animali domestici.
Ng’ingula conta, soprattutto, nove chiese-cappelle, di cui sette al centro di veri e propri centri abitati. In ognuna operano almeno due o tre catechisti, il Consiglio dei laici (debitamente eletto), il gruppo dei giovani e quello delle donne cristiane.
I catechisti preparano ai sacramenti, presiedono i funerali, insegnano religione nella scuola, celebrano la parola di Dio la domenica, quando il sacerdote non può essere presente. Sono anche un po’ retribuiti: la ricompensa si aggira sulle 7 mila lire al mese (mentre un operaio ne guadagna 62 mila). Ma non si tratta di un vero salario. La diocesi copre un terzo della somma e il resto spetta la parrocchia. «Fare il catechista è una vocazione», non un mestiere. Noi missionari cerchiamo di inculcare questo pensiero in chi vi si impegna. Il denaro ricevuto è solo un segno, un piccolo aiuto.
Significativo è il compito degli animatori: essi sono i «capi» o delle Comunità di base o del Consiglio dei laici. Il Consiglio è guidato da cinque animatori (presidente, vice, segretario…): suo compito è di cornordinare le attività dei cristiani a livello parrocchiale.
Le Comunità di base sono una sessantina in tutta la parrocchia. A differenza dell’America Latina dove sono sorte… dalla base, qui sono state introdotte dal vescovo e raggruppano generalmente i cristiani del vicinato o del rione. Si ritrovano una volta la settimana (o ogni 15 giorni), al mattino presto, per pregare prima di andare a lavorare nei campi. Dopo la preghiera, spesso, parlano dei problemi concreti e decidono cosa fare per risolverli.
Le Comunità di base sono abbastanza autonome: sanno gestirsi anche senza la presenza del sacerdote. Questo dimostra che c’è un fondo religioso valido. Il lavoro principale consiste nel preparare i leaders, curandone l’aspetto religioso, culturale e, soprattutto, umano.
Le comunità di base rappresentano una opzione della chiesa del Tanzania e di tutta l’Africa orientale, decisa una quindicina di anni fa dalle Conferenze episcopali. Essa si basa sulla valorizzazione del senso africano della famiglia: ujamaa, tradotto, nel passato, anche in scelta politica. La presenza e il funzionamento di queste comunità costituiscono una parte qualificante del programma pastorale delle diocesi, oggetto di verifica annuale e di iniziative varie per mantenerle vive e attive.
per vincere la paura
La partecipazione alla vita comunitaria è il segno visibile della maturità cristiana dei fedeli. Spesso si richiede ai genitori la frequenza come condizione per battezzare i figli. In tale senso, la comunità diventa la palestra di formazione di chi desidera ricevere il battesimo o gli altri sacramenti.
Sono parecchi coloro che non hanno ancora ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana. A Ng’ingula è attivo un buon catecumenato, della durata di due anni, dove ragazzi e giovani si preparano al battesimo. Circa la didattica, molto è lasciato alla libertà… dell’iniziativa personale, giacché scarseggiano i sussidi (anche se qualche diocesi ha stampato catechismi e manuali).
Da parte mia, mi baso sulla cultura del luogo, sui racconti e proverbi, per trasmettere una catechesi inculturata. Ho organizzato una ventina di incontri formativi.
La popolazione dell’etnia hehe è ancora attratta dalla religiosità tradizionale, dove l’aspetto magico incide in modo rilevante.
Ritengo che uno dei compiti più importanti dell’annuncio cristiano sia quello di liberare la persona dalla paura della magia, della stregoneria e di tutto che concee questo fenomeno complesso e oscuro.
La chiesa è frequentata soprattutto da donne e giovani. Ma, in una cultura dove chi decide sono gli uomini, è importante la loro presenza, altrimenti la comunità cristiana rischia di non «avere peso» e, specialmente, di non incidere sulla società.
Faticare insieme
Ng’ingula è abbastanza fuori mano. Pertanto l’influsso del «moderno» è limitato. Qualche giovane, che ha frequentato la città, si fa vedere con scarpe da tennis o jeans all’ultimo grido. Ma si tratta di pochi casi. Tuttora, nel paese, le prospettive di vita sono molto povere; non c’è altro se non il lavoro dei campi. Però i giovani sognano di andarsene in città, per un qualsiasi lavoretto.
Se la stagione delle piogge è buona, la terra garantisce un raccolto sufficiente per vivere e vendere un po’ di prodotti. Resta, però, il problema del trasporto delle merci in città. Il camion della missione viene impiegato anche per questo genere di servizi.
Quanti ragazzi frequentano il liceo? Molto pochi. C’è una scuola superiore privata a circa 30 chilometri da Ng’ingula. Ma le famiglie non hanno la possibilità di pagare la retta. C’è il progetto di cercare «adozioni a distanza», per aiutare gli studenti. Di per sé il governo è arrivato con la scuola un po’ dappertutto; quindi non si tratta di creare nuove strutture… Le difficoltà riguardano i trasporti, le tasse scolastiche e il livello d’insegnamento.
La strada è sempre un disastro a causa delle piogge. L’autobus, ad esempio, non arriva fino alla parrocchia, ma si ferma 20 chilometri prima. La gente, quindi, ha difficoltà a muoversi. Problematico, soprattutto, è il trasporto degli ammalati all’ospedale, servizio per il quale ci si rivolge immancabilmente alla missione.
Padre Salvador Del Molino (mio compagno di missione, oggi in Etiopia) ha svolto un ottimo lavoro di rettifica e sistemazione della strada. Ora si tratta di mantenerla.
In Tanzania esiste la tradizione del maendeleo (progresso): ossia offrire una giornata di lavoro per la comunità. Così, nell’omilia domenicale, insisto perché la gente partecipi e si dia da fare per aggiustare le sue strade. Io stesso mi metto a lavorare con loro. Al di là di tante prediche, è il faticare insieme che fa crescere il senso di comunione e solidarietà fra i cristiani di Ng’ingula.

Remo Villa




MOZAMBICO – A riflettori spenti

Passata l’emergenza causata dalle inondazioni che hanno devastato il Mozambico,
le telecamere straniere
si sono ritirate, ma la tragedia del popolo mozambicano continua. La gente vuole ritornare a vivere e ricostruire il paese; ma ha bisogno
di aiuto e solidarietà.

I dati ufficiali parlano di oltre 2 milioni di sfollati e 650 morti, travolti dalle alluvioni. Passati i giorni di emergenza, 400 mila continuano a vivere nei centri di accoglienza. A Chihaquelane, villaggio a 170 chilometri a nord di Maputo, tra Chókwé e la statale n.1, c’è uno dei maggiori centri di raccolta: circa 80 mila persone, stipate in tende e ripari improvvisati. Ciò che hanno perso può essere considerato poca cosa, ma era tutto quello che possedevano per vivere.
DRAMMA (MALE) ANNUNCIATO
La radio aveva annunciato che Chókwé sarebbe stata raggiunta da un’onda di piena il lunedì 14 febbraio. «Il servizio metereologico era alquanto vago – racconta padre Sebastiano, parroco di Chókwé -. Diceva che saremmo stati raggiunti da una seconda piena, senza alcuna informazione sulla quantità d’acqua, né sulla velocità con cui ci avrebbe raggiunti. Nell’inondazione avvenuta tre giorni prima le acque erano salite molto adagio, permettendo una fuga graduale».
Alle prime ore di domenica 13 febbraio un’onda di enormi proporzioni sommerse in pochi minuti tutta la città. Le autorità locali si erano già ritirate e gli abitanti rimasero disorientati, ingannati dalla disinformazione e dall’esperienza anteriore.
Alcune persone prestarono i primi soccorsi con le proprie barchette. «Ciò che è capitato può essere definito criminale. La prima settimana non abbiamo avuto nessun aiuto» si sfoga suor Anna Rosa, responsabile dell’ospedale di Chókwé e rimasta sul posto fino a quando un elicottero non ebbe portato in salvo gli ultimi pazienti.
Secondo la giornalista della Bbc, Maria de Lourdes, il Sudafrica è stato il primo ad accorrere in aiuto con gli elicotteri, perché sapeva esattamente la quantità dell’acqua trasportata dai fiumi mozambicani. «I sudafricani avevano tutto l’interesse nel mobilitare i giornalisti di altri paesi, per sensibilizzare il mondo e non dover portare da soli l’impegno di affrontare la catastrofe del paese confinante. I giornalisti mozambicani, invece, dotati di scarsi mezzi, poterono mettersi in moto quando ormai le immagini della tragedia avevano fatto il giro del mondo».
Le piogge torrenziali avevano contribuito a ingrossare il fiume Limpopo; ma la rapidità con cui le città di Chókwé e Xaixai vennero sommerse fu provocata dall’apertura delle dighe in territorio sudafricano. Ma di questo non si è parlato, per non danneggiare le buone relazioni tra Sudafrica e Mozambico. Invece la disgrazia sarebbe stata certamente minore, se le informazioni fossero state più precise e tempestive.
RISCHIO EPIDEMIE
Per iniziativa e col finanziamento della cooperazione spagnola, la forza aerea iberica ha allestito a Chihaquelane un ospedale da campo. Ogni giorno vi sono ricoverati 50 persone colpite da malaria, tubercolosi, anemia, denutrizione, infezioni e traumi vari. Di esse solo una decina recuperano la salute e ritornano all’accampamento. Le altre sono trasferite in elicottero agli ospedali di Chicumbane e Maputo.
Quando la forza aerea lascerà il paese, l’équipe medica spagnola continuerà a prendersi cura dell’unità sanitaria, insieme a infermieri e dottori mozambicani. L’arrivo di «medici senza frontiere», Croce Rossa e dottori sudafricani ha permesso la creazione di altri tre centri di soccorso, che danno assistenza giornaliera a centinaia di persone.
I decessi, principalmente di bambini, raggiungono una media di otto casi al giorno. La Caritas nazionale ha organizzato sul posto un centro per l’alimentazione di bimbi denutriti. Suore, infermiere e volontari sono venuti da Maputo a tui, per lavorare in tale programma di alimentazione. Ne usufruiscono circa 120 bambini al giorno. I casi più gravi vengono portati nell’ospedale da campo. Il centro accoglie anche bambini smarriti: 64 di essi non sanno più nulla della propria famiglia.
Il grande magazzino del centro profughi provvede anche alla gente rimasta nei sobborghi, distribuendo viveri, coperte, sapone, vestiti e scarpe a quanti hanno perso tutto nelle acque dell’inondazione.
Il problema maggiore del centro profughi e della città è la scarsità di acqua potabile e di servizi igienici. La mancanza di igiene può far scoppiare da un momento all’altro un’epidemia di colera. L’acqua potabile, trattata con cloro, è foita mediante alcune autobotti; ma l’attesa per avere cinque litri del prezioso liquido può durare ore e ore. Molte donne attingono dagli stagni più vicini.
Gli ingegneri della Oxfam stanno scavando pozzi artesiani; la Croce Rossa si interessa per la costruzione di nuovi servizi igienici nei vari quartieri della città, poiché quelli esistenti sono pochi o fuori uso.
VOGLIA DI RICOMINCIARE
L’acqua va lentamente ritirandosi e prosciugandosi, ma Chókwé rimane una città fantasma, con un fetore insopportabile. Alcune persone si avventurano nel fango, per ricominciare la vita con ciò che riescono a recuperare. Pezzi di mobilia e altre cianfrusaglie sono messe ad asciugano sopra i tetti. Le botteghe cominciano a esporre le loro mercanzie in mezzo all’umidità, quasi per invitare la gente a ritornare alle proprie case.
Quattro suore vincenziane, con l’aiuto di alcuni operai, hanno iniziato a ripulire l’ospedale e vi hanno portato 95 letti. Sulle pareti si vedono i segni lasciati dalle acque limacciose. Per terra mobili e strumenti di lavoro, documenti e archivi, si mescolano al fango puzzolente. Un falegname cerca di mettere in sesto porte e finestre tutte sgangherate.
Suor Maria Elisa continua a raccontare: «Quando abbiamo sentito il rombo delle acque e visto la rapidità con la quale si alzavano, abbiamo trasportato i 60 pazienti al primo piano. Non c’è stato concesso il tempo di salvare nulla, eccetto i ricoverati».
Una giovane mamma, con sulle spalle tre gemelle gravemente denutrite, batte alla porta del convento per chiedere aiuto. Ha attraversato un terreno ancora inondato con l’acqua fino al collo, lasciando indietro il marito e altri figli. La famiglia si è salvata restando per tre giorni su un albero e legando i figli ai rami, perché non cadessero nell’acqua.
Pur nelle misere condizioni in cui è stato ridotto, l’ospedale di Chókwé comincia a funzionare, prestando assistenza ad ammalati e affamati. Nel centro profughi di Chihaquelane molti desiderano ritornare quanto prima ai loro villaggi. Ma le autorità locali non sollecitano tale ritorno prima che venga effettuata la disinfestazione di tutto il territorio e della valle del Limpopo.
Sarmento Miocha aveva 10 ettari di riso nel villaggio di Inconhane e non vede l’ora di ritornare al suo campo. «La mia vita è là, nella terra che ho lasciato coperta di acqua. Sono stato a vedere ciò che è rimasto; ma l’aria tossica e insopportabile non mi permette di starvi».
Come Sarmento, tutta la gente sa che nei prossimi mesi dovrà affrontare grandi difficoltà per sopravvivere e spera negli aiuti, almeno fino a quando sarà possibile riprendere a coltivare la terra.
Intanto bisogna preparare la gente al ritorno ai propri villaggi. Per quanti disagi debbano affrontare, nei campi profughi sono tutti bene assistiti; ma non si vuole creare atteggiamenti di passività e dipendenza. Le assistenti sociali stanno lavorando in questa direzione, preoccupandosi della salute mentale degli sfollati. Molti bambini, traumatizzati dalle inondazioni e dallo sradicamento dall’ambiente naturale, rifiutano di parlare e prendere cibo.
Soprattutto bisogna dire chiaramente a tutti che nei loro villaggi non troveranno più niente; che dovranno incominciare da zero; che i riflettori delle telecamere sono spenti: d’ora in poi, dovranno contare sulle proprie forze.

Jaime Carlos Paitas




COLOMBIA – Non staremo a guardare

INDIOS COOMBIANI A CONVEGNO

La Maria – Sulla collina, proprio a fianco della Panamericana, sventolano due enormi bandiere: quella della Colombia e quella rosso-verde del «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Cric), il principale organizzatore del convegno a «La Maria». Un convegno a cui è stato dato un bel titolo: Del silencio a la palabra, Dal silenzio alla parola.
Sulla stradina che funge da entrata è schierato un cordone di guardie indie, riconoscibili da una fascia legata al braccio. Sono armate soltanto di un bastone, lungo 40-50 centimetri. Perquisiscono tutti, perché non debbono entrare coltelli e, men che meno, armi. Compito titanico, se verrà rispettata la previsione di 10-15 mila persone al giorno.
Ci incamminiamo per i sentirneri del resguardo che ospita il convegno; fino a poco tempo fa, le terre de «La Maria» erano un latifondo. Incontriamo subito un folto gruppo di guambianos, tra i pochi indigeni ad aver conservato il loro originario modo di vestire (che, tra l’altro, prevede anche per gli uomini una sorta di gonna). Nei campi ci sono moltissime tende, quasi tutte piuttosto approssimative, coperte alla meglio con teloni di plastica. Ogni villaggio ha preso possesso di un piccolo lotto di terreno, dove ha piantato le proprie tende e sistemato i pentoloni per cucinare. Anche perché il convegno degli indigeni colombiani durerà 3 giorni.
Dopo il giro di perlustrazione, ci dirigiamo verso il luogo dove si terrà l’assemblea vera e propria. È un’ampia tettornia sotto la quale sono stati sistemati il palco e le sedie per gli invitati più importanti, protetti da un servizio d’ordine efficiente e discreto. Si inizia con il canto di due inni, quello della Colombia e quello del Cauca. Quest’ultimo parte così: «Io che sono figlio del Cauca…».
La corrente elettrica va e viene, ma per il resto l’organizzazione regge l’impatto di un pubblico, numerosissimo, ma composto, che ascolta con attenzione e partecipazione. Sul palco si alternano i dirigenti delle varie organizzazioni indigene colombiane, ma anche politici e rappresentanti dei sindacati e delle università. Sono tre le parole che ricorrono in tutti gli interventi: pace, giustizia, partecipazione. E la gente applaude, convinta.
Tra gli invitati spicca un gruppetto con delle magliette bianche, che sul retro portano una scritta in caratteri blu: «I familiari degli agenti di polizia e dei soldati detenuti dalle Farc sono presenti». Nelle mani dell’organizzazione ci sarebbero almeno 400 persone, ostaggi dei guerriglieri.

Lo raggiungiamo mentre scende dal palco. Marco Tulio Chirimuscay è il presidente del Cric. «Con questo raduno delle varie associazioni indigene – ci dice un po’ impettito, orgoglioso di avere tanti occhi addosso – vogliamo far arrivare agli organismi competenti la nostra proposta di pace per una convivenza civile di tutti i colombiani. Siamo soddisfatti per la vasta partecipazione. Ciò dimostra, ancora una volta, la preoccupazione e l’interesse di tutti che finalmente si arrivi ad un’intesa sul tema della pace».
I rappresentanti della guerriglia, pur invitati, non si sono fatti vedere al convegno de La Maria. Chiediamo a Chirimuscay come mai i rapporti tra indios e Farc siano tesi. «La guerriglia infrange i diritti delle comunità indigene, occupando i resguardos, condizionando l’autonomia, interferendo nell’organizzazione di base. Senza dimenticare di quando i guerriglieri portano via i nostri giovani per arruolarli a forza nelle loro fila».
Gli indios contestano anche il governo di Bogotà… «Noi non condividiamo la politica economica del governo colombiano. La scelta neoliberista ha generato un gran numero di cittadini senza lavoro e senza futuro. E poiché lo stato non garantisce nessuna prospettiva economica e nessuna sicurezza, crescono a dismisura la delinquenza comune, la guerriglia, i paramilitari e il narcotraffico».
A proposito di coca, marijuana ed amapola, che ne pensano i dirigenti indigeni? «Noi non giustifichiamo le coltivazioni illecite – risponde il presidente del Cric senza mutare il tono della voce -. Siamo coscienti che è un grave problema per la società. In ogni caso, esse vanno contro la cultura, etica e morale delle nostre comunità indigene. Quando dei nostri fratelli si dedicano alle coltivazioni illecite, lo fanno per pura sopravvivenza. Insomma, è una questione di povertà e niente di più».
Chirimuscay, cosa avete voluto dimostrare con questo raduno? «C’è una convinzione generalizzata in base alla quale in Colombia non ci sarebbe nessuna organizzazione sociale al di fuori di quelle riconosciute dalla politica ufficiale. Invece, e voi lo potete vedere qui a La Maria, esistono organismi di base che da tempo si battono per una soluzione non violenta di questa guerra. Quello che mi dispiace evidenziare è l’atteggiamento distaccato del governo da queste voci della società civile. Escludere la gente dal processo di pace significa perdere un’opportunità incalcolabile».
Dall’ottobre 1999 sono in corso dialoghi tra il governo Pastrana e le Farc. Poi ci sono le iniziative della società civile e le vostre. Tutto il quadro politico è in movimento. Si arriverà un giorno a pacificare la Colombia? «Sarà un processo lento, sofferto e complicato».

Comincia a imbrunire. Mentre sul palco parlano gli ultimi oratori, tutt’intorno, sotto le tende, è un fervore di attività. I più impegnati sono coloro che debbono preparare la cena. Le donne controllano i grossi pentoloni scuri in cui ribolle la zuppa, gli uomini rigirano sul fuoco gli spiedini di carne. Oggi si mangia bene, perché per gli indios colombiani è una giornata di festa.
Pa.Mo.

Paolo Moiola




COLOMBIA – Quando volano missili e pallottole

La guerriglia attacca i municipi dove sono presenti distaccamenti
di polizia. Tra l’esercito
e le Farc è in corso una
guerra di logoramento che
sembra non avere mai fine.
Ma la gente, per la quale tutti dicono di combattere,
è stanca e lo fa sapere.
Come a Caldono, piccolo centro agricolo vicino
a Santander de Quilichao, dove gli abitanti hanno appeso delle bandiere bianche davanti
alle porte delle loro case. Non in segno di resa,
ma per chiedere finalmente un po’ di pace.

La stazione di polizia è come un castello medioevale di brutta fattura. La costruzione, tozza e squadrata, si trova nella parte alta del paese, sovrastando le piccole case circostanti. Al posto dei merli e del mitico fossato ci sono delle maglie metalliche che avvolgono le entrate e la terrazza, posta sul tetto. Un estraneo che veda una siffatta costruzione non può che rimanere perplesso. Almeno finché non conosce la storia.
La stazione è un «castello assediato». Gli assalitori sono i guerriglieri delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Negli ultimi due anni ci sono stati 4 attacchi. «L’ultimo è durato 15 ore ed ha fatto molti danni, ma come potete vedere ha lasciato intatto il bunker della polizia». A parlare è padre Orlando Hoyos, missionario della Consolata. Assieme a padre José Jesus Ossa, è responsabile della parrocchia di Caldono.
Con lui percorriamo le vie, apparentemente tranquillissime, di questo piccolo paese del Cauca, non distante da Santander de Quilichao. Ma chiunque si accorgerebbe che è una calma apparente. Basta guardare la filiale della Caja Agraria, la locale cassa rurale, con i muri crivellati di colpi d’arma da fuoco.
Molte delle case costruite sotto o a fianco della caserma sono ridotte in macerie, quasi avessero subìto un bombardamento. «In effetti è così – ci spiega padre Orlando -. Queste sono le conseguenze della caduta delle cosiddette pipas de gas, lanciate dai guerriglieri». Con questo nome vengono indicati dei cilindri ripieni di gas che le Farc usano come missili rudimentali e a buon mercato. «Purtroppo, le pipas non possono essere guidate sul bersaglio. Le traiettorie che esse assumono sono imprevedibili».
Nel corso dell’ultimo attacco ne sono state lanciate ben 22. Alcune di esse sono cadute su una scuola gestita dalle suore laurite. Avrebbero potuto fare una strage. Invece, è morta «soltanto» una suora, a causa di una scheggia vagante. Ora la scuola è fuori uso perché tutto il tetto è crollato. Finalmente diventa chiaro il significato di quelle maglie metalliche, poste attorno alla stazione della polizia. Servono per «respingere» le pipas dirette sul bersaglio.
Poco distante dall’istituto religioso, sopra la finestra di una casa è stato appeso uno striscione di stoffa dipinto a mano. Accanto ad una piccola colomba bianca, una grande scritta dice: Caldono unido por la paz, Caldono unito per la pace. Ma questo non è l’unico segno contro una guerra che si trascina ormai da troppi anni. Davanti alle abitazioni sventolano infatti delle bandierine bianche, quale esplicita richiesta di pace.
Come sempre, tutti dicono di combattere per il «bene» del popolo, che in effetti se la passa proprio male. «La gente – ci spiega padre Orlando – conduce un’esistenza di assoluta precarietà. Vive alla giornata. Mangia quello che coltiva. Ma ha poca terra e molti figli… Alcuni campesinos producono caffè e sisal (una fibra tessile usata per fare sacchi, stuoie, corde). Però i prezzi sono sempre molto bassi e il poco denaro che ricavano lo hanno già impegnato con i commercianti».
Il centro di Caldono è abitato in prevalenza da meticci e bianchi. La maggioranza della popolazione è india nasa, ma vive nelle campagne circostanti. «Adesso – racconta il missionario – anche lì sta arrivando la luce e l’acqua. Le famiglie indigene credono che sia un bene, ma in realtà è proprio l’opposto. I servizi costano e gli indios soldi non ne hanno».
Anche in Colombia i principi neoliberisti hanno attecchito. Chiediamo come le famiglie povere (che sono la grande maggioranza) affrontino bisogni primari quali la salute e l’educazione. «Tra gli indigeni – spiega padre Orlando – molti bambini non vanno a scuola. È vero che l’educazione pubblica costa ancora poco, ma ci sono le spese per l’uniforme, i quadei, le penne. Questa cosa li blocca e così, quando va bene, sono costretti a fare i tui tra i bambini. Per esempio, due anni per ciascuno. In pratica, un paio di figli vanno a scuola, gli altri ad aiutare nei campi o in casa. E possono avere anche soltanto 5 o 6 anni…».
Né la situazione è migliore nel campo della salute. «Sì, purtroppo anche questa rappresenta un grave problema. A volte gli indios debbono lasciare morire i figli, anche se le malattie sono curabili. A Caldono c’è una specie di ospedale, che però non ha degenza e non fa interventi chirurgici. Gli indigeni hanno diritto all’assistenza gratuita. Poi, comunque, vengono prescritte loro delle medicine, che non possono acquistare non avendo i soldi per pagarle. Quando c’è qualcosa di serio, vengono invitati ad andare all’ospedale di Cali. Ma ben pochi, nonostante la vicinanza, possono permettersi di andare in città e allora, pur malati, se ne tornano a casa…».
Intanto, presi dalla conversazione, abbiamo camminato fino all’entrata di Caldono. Qui è stato costruito un capannone industriale con tanto di piscine ed impianti chimici. Un gigantesco cartellone spiega: «Industria pilota per la trasformazione dell’agave. Progetto colombo-italiano». Non facciamo in tempo a provare un moto di simpatia e gratitudine verso l’Italia, che padre Orlando fredda ogni entusiasmo: «La fabbrica è chiusa da anni. Anzi, a dire il vero, non ha mai aperto».
Nel frattempo il mercato dell’agave (dalle cui foglie spinose si ricava il sisal) è crollato. Ma la fabbrica-fantasma è rimasta, a futura memoria, monumento allo spreco, alla corruzione e a un certo tipo di cooperazione internazionale che fa arrossire dalla vergogna.

La piazza di Caldono sta a metà tra la parte alta e quella bassa del paese. È una piazza rettangolare che al centro ospita un piccolo parco con alberi d’alto fusto. Su essa si affacciano tutte le istituzioni ufficiali. Ci sono il municipio, l’ufficio dei produttori di caffè, la compagnia dei telefoni. E c’è la chiesa dai colori pastello con a fianco la casa parrocchiale.
Sul lato della piazza tutto sembra in ordine. Ma, girato l’angolo, i danni prodotti dalle pipas de gas sono ben visibili. Il muro della casa parrocchiale è deformato, porte e finestre sono state distrutte, il tetto è crollato.
«No, non ce l’avevano con noi. Volevano colpire la caserma della polizia. Guardate com’è vicina -spiega padre Orlando facendo un cenno con la mano -. Saranno poche decine di metri… Di solito, i guerriglieri rispettano chi lavora con la gente comune. Magari non condividono una parte delle nostre idee, ma tollerano la presenza della chiesa e di noi sacerdoti».
Entriamo nella casa parrocchiale. Questa accoglie i visitatori con un bel patio verde, sulle cui pareti sono state disegnate scene evangeliche viste con gli occhi degli indigeni. Ma anche all’interno i danni del bombardamento sono ben visibili. Un’intera ala dell’edificio è inservibile perché pericolante. Anche la camera del nostro accompagnatore è andata distrutta. «Ma io non c’ero» scherza padre Orlando.
Poi ci conduce a vedere la sua nuova stanza, posta al pianoterra, sul lato della piazza. Qui è sicuro?, chiediamo. Insomma… Tempo fa una pallottola ha bucato la porta di legno e si è conficcata nel muro. «Ma non possiamo abbandonare questa gente al suo destino. Bisogna accompagnarla. È nostro dovere stare con loro». Ci sarà una nuova azione delle Farc contro il «castello» della polizia? «Questa è una certezza – risponde con tono pacato padre Orlando -. Non si conosce mai il giorno dell’attacco, tuttavia prima che esso avvenga nel paese iniziano a girare “voci”. E allora ci si prepara…».
(Terza puntata – Continua)

Paolo Moiola




Il fratello del nonno

Spettabile redazione,
intendo abbonarmi a Missioni Consolata. Il fratello del nonno materno fu un vostro missionario in Kenya ed Etiopia negli anni ’30. Si chiamava padre Giuseppe Dogliani e venne fucilato dai tedeschi in Val Casotto (CN) nel marzo del 1944, dopo essere stato cappellano degli alpini in Russia.

Probabilmente la nostra rivista era già presente nella famiglia del missionario in Kenya ed Etiopia. Poi la «corrente» si è interrotta… Come ci piacerebbe, signor Emilio, che altre persone seguissero il suo esempio! Missioni Consolata è «la rivista missionaria della famiglia», anche perché passa di padre in figlio, da nonno a nipote.
Una tradizione da conservare.

Emilio Cappa




A proposito di Neyerere

Caro direttore,
ho scritto a padre Giulio Belotti per fargli i complimenti del suo importante articolo su Nyerere, che lei ha pubblicato. Le giro la simpatica risposta del missionario in Tanzania.

«Carissimo Carlo – ha risposto padre Giulio Belotti -, grazie per il tuo scritto laudativo. Non ricordo il tuo nome. Che vuoi! Sono vecchio, ho già varcato i 76 anni.
Vivo a Mgongo, a 10 chilometri da Iringa, nella Faraja House (casa della consolazione), un centro che raccoglie ragazzi di strada e in difficoltà.
L’articolo su Nyerere non è del tutto mio: fa parte di uno scritto più impegnativo che avevo scritto tempo fa; allora ero un po’ arrabbiato, perché la rivista Mondo e Missione, pur con carità cristiana, aveva stroncato Nyerere e la sua politica. Naturalmente il mio scritto era troppo lungo e non poté essere pubblicato. Ma, alla morte dell’ex presidente del Tanzania, è venuto in taglio e se ne sono serviti nella redazione di Missioni Consolata, lasciando il mio nome. Bontà loro…».

Carlo Bagioli




Cristo e gli altri

Caro direttore,
mi ha molto interessato il suo articolo «Il Dio dei desideri», apparso su Missioni Consolata di febbraio. In modo particolare mi ha colpito il riquadro «Gesù Cristo, grande maestro o unico Salvatore?». In esso si accenna alla distinzione tra una preparazione remota al messaggio cristiano (in cui entrano, ad esempio le religioni asiatiche) e una preparazione prossima (che riguarda soprattutto l’ebraismo).
Gradirei qualche indicazione bibliografica per approfondire il tema.

L’abbonato ha colto un problema complesso: quello della salvezza nelle religioni non cristiane e del loro rapporto con Gesù Cristo. I libri per approfondire il tema non mancano; ma non sono di non facile lettura… Ricordiamo tre articoli della nostra rivista: «È tutt’altro che un affare privato», «Che sarà di loro sull’altra sponda?», «Davvero come Lui non c’è nessuno» (Missioni Consolata, ottobre 999).

Vittorio Montis




Il “caso” Haider

Cari missionari,
ho visitato su internet la pagina (home page) del Partito liberale austriaco (FPO) di Jorg Haider.
Ci sono collegamenti (links) i cui titoli sono tutto un programma; ad esempio: «I crociati del nostro tempo». Non mancano svastiche naziste.
La sezione «Bambini» inizia così: «Ho 11 anni ed ero solito frequentare la scuola pubblica. È una vergogna vedere quante menti bianche si sono sciupate. Ma ora frequento una scuola privata, dove non sono picchiato più da ganghe di non bianchi. Inoltre sto ritrovando l’orgoglio in me stesso, nella mia famiglia e nel mio popolo».
La sezione «Canti dalla patria» presenta titoli, quali: Ancora un negro, Cerca la corda (per impiccarlo), Alcuni negri non muoiono mai, Cae alla griglia, Sporca cagna femminista, Soluzione finale, Olocausto 2000, Orgoglio bianco, Azione anticomunista, Sei milioni di menzogne (sei milioni di ebrei uccisi), Vattene a casa, Parla il Führer, Viva il partito nazional-socialista della Germania, Vittoria e salute…
Ce n’è quanto basta per terrorizzare qualsiasi persona civile. È opportuno divulgare questi dati, perché nessuno domani dica: «Io non sapevo».
Sabrina Ferri
(via e-mail)

Questo messaggio è scaturito da una giusta rivolta di fronte al «caso Haider». Il personaggio è noto per xenofobia e filonazismo. Ma il suo partito è entrato a far parte dell’attuale governo della vicina Austria.

Sabrina Ferri