MOZAMBICO – A riflettori spenti

Passata l’emergenza causata dalle inondazioni che hanno devastato il Mozambico,
le telecamere straniere
si sono ritirate, ma la tragedia del popolo mozambicano continua. La gente vuole ritornare a vivere e ricostruire il paese; ma ha bisogno
di aiuto e solidarietà.

I dati ufficiali parlano di oltre 2 milioni di sfollati e 650 morti, travolti dalle alluvioni. Passati i giorni di emergenza, 400 mila continuano a vivere nei centri di accoglienza. A Chihaquelane, villaggio a 170 chilometri a nord di Maputo, tra Chókwé e la statale n.1, c’è uno dei maggiori centri di raccolta: circa 80 mila persone, stipate in tende e ripari improvvisati. Ciò che hanno perso può essere considerato poca cosa, ma era tutto quello che possedevano per vivere.
DRAMMA (MALE) ANNUNCIATO
La radio aveva annunciato che Chókwé sarebbe stata raggiunta da un’onda di piena il lunedì 14 febbraio. «Il servizio metereologico era alquanto vago – racconta padre Sebastiano, parroco di Chókwé -. Diceva che saremmo stati raggiunti da una seconda piena, senza alcuna informazione sulla quantità d’acqua, né sulla velocità con cui ci avrebbe raggiunti. Nell’inondazione avvenuta tre giorni prima le acque erano salite molto adagio, permettendo una fuga graduale».
Alle prime ore di domenica 13 febbraio un’onda di enormi proporzioni sommerse in pochi minuti tutta la città. Le autorità locali si erano già ritirate e gli abitanti rimasero disorientati, ingannati dalla disinformazione e dall’esperienza anteriore.
Alcune persone prestarono i primi soccorsi con le proprie barchette. «Ciò che è capitato può essere definito criminale. La prima settimana non abbiamo avuto nessun aiuto» si sfoga suor Anna Rosa, responsabile dell’ospedale di Chókwé e rimasta sul posto fino a quando un elicottero non ebbe portato in salvo gli ultimi pazienti.
Secondo la giornalista della Bbc, Maria de Lourdes, il Sudafrica è stato il primo ad accorrere in aiuto con gli elicotteri, perché sapeva esattamente la quantità dell’acqua trasportata dai fiumi mozambicani. «I sudafricani avevano tutto l’interesse nel mobilitare i giornalisti di altri paesi, per sensibilizzare il mondo e non dover portare da soli l’impegno di affrontare la catastrofe del paese confinante. I giornalisti mozambicani, invece, dotati di scarsi mezzi, poterono mettersi in moto quando ormai le immagini della tragedia avevano fatto il giro del mondo».
Le piogge torrenziali avevano contribuito a ingrossare il fiume Limpopo; ma la rapidità con cui le città di Chókwé e Xaixai vennero sommerse fu provocata dall’apertura delle dighe in territorio sudafricano. Ma di questo non si è parlato, per non danneggiare le buone relazioni tra Sudafrica e Mozambico. Invece la disgrazia sarebbe stata certamente minore, se le informazioni fossero state più precise e tempestive.
RISCHIO EPIDEMIE
Per iniziativa e col finanziamento della cooperazione spagnola, la forza aerea iberica ha allestito a Chihaquelane un ospedale da campo. Ogni giorno vi sono ricoverati 50 persone colpite da malaria, tubercolosi, anemia, denutrizione, infezioni e traumi vari. Di esse solo una decina recuperano la salute e ritornano all’accampamento. Le altre sono trasferite in elicottero agli ospedali di Chicumbane e Maputo.
Quando la forza aerea lascerà il paese, l’équipe medica spagnola continuerà a prendersi cura dell’unità sanitaria, insieme a infermieri e dottori mozambicani. L’arrivo di «medici senza frontiere», Croce Rossa e dottori sudafricani ha permesso la creazione di altri tre centri di soccorso, che danno assistenza giornaliera a centinaia di persone.
I decessi, principalmente di bambini, raggiungono una media di otto casi al giorno. La Caritas nazionale ha organizzato sul posto un centro per l’alimentazione di bimbi denutriti. Suore, infermiere e volontari sono venuti da Maputo a tui, per lavorare in tale programma di alimentazione. Ne usufruiscono circa 120 bambini al giorno. I casi più gravi vengono portati nell’ospedale da campo. Il centro accoglie anche bambini smarriti: 64 di essi non sanno più nulla della propria famiglia.
Il grande magazzino del centro profughi provvede anche alla gente rimasta nei sobborghi, distribuendo viveri, coperte, sapone, vestiti e scarpe a quanti hanno perso tutto nelle acque dell’inondazione.
Il problema maggiore del centro profughi e della città è la scarsità di acqua potabile e di servizi igienici. La mancanza di igiene può far scoppiare da un momento all’altro un’epidemia di colera. L’acqua potabile, trattata con cloro, è foita mediante alcune autobotti; ma l’attesa per avere cinque litri del prezioso liquido può durare ore e ore. Molte donne attingono dagli stagni più vicini.
Gli ingegneri della Oxfam stanno scavando pozzi artesiani; la Croce Rossa si interessa per la costruzione di nuovi servizi igienici nei vari quartieri della città, poiché quelli esistenti sono pochi o fuori uso.
VOGLIA DI RICOMINCIARE
L’acqua va lentamente ritirandosi e prosciugandosi, ma Chókwé rimane una città fantasma, con un fetore insopportabile. Alcune persone si avventurano nel fango, per ricominciare la vita con ciò che riescono a recuperare. Pezzi di mobilia e altre cianfrusaglie sono messe ad asciugano sopra i tetti. Le botteghe cominciano a esporre le loro mercanzie in mezzo all’umidità, quasi per invitare la gente a ritornare alle proprie case.
Quattro suore vincenziane, con l’aiuto di alcuni operai, hanno iniziato a ripulire l’ospedale e vi hanno portato 95 letti. Sulle pareti si vedono i segni lasciati dalle acque limacciose. Per terra mobili e strumenti di lavoro, documenti e archivi, si mescolano al fango puzzolente. Un falegname cerca di mettere in sesto porte e finestre tutte sgangherate.
Suor Maria Elisa continua a raccontare: «Quando abbiamo sentito il rombo delle acque e visto la rapidità con la quale si alzavano, abbiamo trasportato i 60 pazienti al primo piano. Non c’è stato concesso il tempo di salvare nulla, eccetto i ricoverati».
Una giovane mamma, con sulle spalle tre gemelle gravemente denutrite, batte alla porta del convento per chiedere aiuto. Ha attraversato un terreno ancora inondato con l’acqua fino al collo, lasciando indietro il marito e altri figli. La famiglia si è salvata restando per tre giorni su un albero e legando i figli ai rami, perché non cadessero nell’acqua.
Pur nelle misere condizioni in cui è stato ridotto, l’ospedale di Chókwé comincia a funzionare, prestando assistenza ad ammalati e affamati. Nel centro profughi di Chihaquelane molti desiderano ritornare quanto prima ai loro villaggi. Ma le autorità locali non sollecitano tale ritorno prima che venga effettuata la disinfestazione di tutto il territorio e della valle del Limpopo.
Sarmento Miocha aveva 10 ettari di riso nel villaggio di Inconhane e non vede l’ora di ritornare al suo campo. «La mia vita è là, nella terra che ho lasciato coperta di acqua. Sono stato a vedere ciò che è rimasto; ma l’aria tossica e insopportabile non mi permette di starvi».
Come Sarmento, tutta la gente sa che nei prossimi mesi dovrà affrontare grandi difficoltà per sopravvivere e spera negli aiuti, almeno fino a quando sarà possibile riprendere a coltivare la terra.
Intanto bisogna preparare la gente al ritorno ai propri villaggi. Per quanti disagi debbano affrontare, nei campi profughi sono tutti bene assistiti; ma non si vuole creare atteggiamenti di passività e dipendenza. Le assistenti sociali stanno lavorando in questa direzione, preoccupandosi della salute mentale degli sfollati. Molti bambini, traumatizzati dalle inondazioni e dallo sradicamento dall’ambiente naturale, rifiutano di parlare e prendere cibo.
Soprattutto bisogna dire chiaramente a tutti che nei loro villaggi non troveranno più niente; che dovranno incominciare da zero; che i riflettori delle telecamere sono spenti: d’ora in poi, dovranno contare sulle proprie forze.

Jaime Carlos Paitas

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