TIBET – Poi il piccolo Budda è fuggito

Lo chiamano così perché ha solo 15 anni. Più giustamente, è conosciuto come «Karmapa». L’abbiamo incontrato in Tibet in ottobre, ma all’inizio di gennaio
è fuggito in India.
Non ancora chiare le ragioni che l’hanno spinto a tale gesto. Il ragazzo, numero tre della gerarchia buddista tibetana dopo il Dalai Lama
e il Panchem Lama,
ha detto: «I buddisti devono avere la libertà di praticare la loro religione».
Un problema
per la Cina.

L’ultimo raccolto

Da Lhasa, capitale del Tibet, ci avviamo verso il monastero buddista di Tsurpu, che dista circa 80 chilometri in direzione ovest. La strada che si inoltra nella valle è una pista sterrata, che diventa subito assai sconnessa; in alcuni punti il fondo è così accidentato da richiedere all’auto uno sforzo particolare per avanzare.
È la fine di ottobre. Nella notte una leggera nevicata ha imbiancato le cime delle montagne. Il tempo è incerto; le nuvole si rincorrono e, spesso, ricoprono il sole. La temperatura è decisamente fresca.
Risalendo la valle, ci fermiamo ad osservare alcune casette, costruite a cavallo del torrente dalle acque limpide. Si vedono anche mulini, azionati dall’acqua corrente, che servono a macinare l’orzo prodotto nella valle. Raggiungiamo un villaggio che, per gli standard di vita locali, non appare particolarmente povero: infatti presenta case dignitose, mentre la campagna è intensamente coltivata.
È il momento della raccolta dell’orzo. Le donne hanno il compito di tagliare le pianticelle e formare i covoni, che poi gli uomini portano a casa impiegando, generalmente, yak e muli come animali da soma. Una curiosità: le donne operano indossando vestiti che non sembrano da lavoro; esibiscono giornielli, specialmente collane ed orecchini. Le sposate indossano anche sgargianti grembiuli, formati dalla giunzione di strisce variopinte, tessute in casa su stretti telai.
La scena è corale e bucolica. È anche un momento di festa, perché rappresenta l’ultimo raccolto agricolo dell’anno, prima della inattività invernale.
il numero tre
Proseguiamo fino a raggiungere una stazione di polizia, posta circa ad un chilometro dal monastero. La caserma è dotata anche di un’enorme antenna satellitare; serve per ricevere ordini dal comando centrale, oltre a tenerlo informato sulla situazione locale.
L’attenzione della polizia cinese al monastero di Tsurpu è particolare, in quanto vi risiede il Karmapa. Egli è un «incarnato» e rappresenta quindi un alto grado nella gerarchia buddista del Tibet: è terzo nella graduatoria, inferiore solamente al Dalai Lama e al Panchem Lama.
Secondo la tradizione tibetana, l’esistenza del Karmapa era stata prevista sia dal Budda Sakyamuni sia da Padmasambhava, che fu il missionario indiano ad introdurre il buddismo nel paese, sovrapponendolo alla religione bon allora esistente.
Il Karmapa è una personificazione della misericordia e si è incarnato per 17 generazioni, a partire dal XV secolo. Le storie delle varie incarnazioni mostrano i Karmapa come persone ascetiche, dedicate agli studi, ma capaci pure di creare espressioni artistiche, specialmente poetiche.
Il Karmapa in Tibet esprime la continuità della dottrina del Vajrayana (il veicolo di diamante), una scuola originata dal filone principale del Mahajana, che rappresenta il buddismo tibetano…
Raggiungiamo il monastero a 4.400 metri di altitudine. Gli edifici furono, a suo tempo, distrutti dai comunisti cinesi. Solo i padiglioni costruiti molto in alto, su rocce a strapiombo, furono risparmiati, essendo irraggiungibili.
Questi padiglioni servivano (e servono) per ritiri spirituali. I monaci vi si chiudono in meditazione per periodi anche lunghi; durante tali segregazioni pregano per «il bene di tutti gli esseri viventi» e sono serviti da altri colleghi che, periodicamente, portano loro il necessario per la sopravvivenza.
Gli attuali edifici principali del monastero sono stati ricostruiti. Una comunità di religiosi è tuttora operante nel grande complesso.
Sembra impassibile
Siamo ricevuti con molta cordialità dai monaci; non ci pongono limiti per fotografare o riprendere con le videocamere… ricordandoci però di lasciare una piccola offerta. Così partecipiamo alle loro preghiere, anche cantate, che si succedono per un paio di ore, spesso accompagnate dal suono di strumenti a percussioni: conchiglie soffiate come trombe e altri strumenti a fiato, simili a grandi oboi.
Successivamente i monaci, seduti in fila a gambe incrociate sui propri scranni, ricevono dai giovani novizi una tazza, in cui viene versato del te. Bevuto il te, nella stessa tazza si versa una determinata dose di farina di tsampa (orzo macinato e abbrustolito), si aggiunge altro te in modo da formare una «polentina» e ciascun religioso consuma il tutto. È il pasto di mezzogiorno, indubbiamente frugale.
Al termine, tutti i monaci e novizi si alzano ed escono dal tempio: passeggiano e chiacchierano fra loro, e anche con noi.
Prima di essere ricevuti dal Karmapa, trascorre una mezz’ora. Nel frattempo si radunano altri pellegrini tibetani, anch’essi in attesa dell’udienza. Tutti siamo dotati, come minimo, di una sciarpa bianca da lasciare in dono al Karmapa, secondo l’usanza da rispettare quando si incontrano monaci di alto grado.
Finalmente inizia la processione di avvicinamento al Karmapa. Però ad un certo punto, già all’interno dell’edificio, alcuni monaci atletici dall’aria decisa ci sottopongono ad accurata perquisizione. Evidentemente la diffidenza verso i cinesi e la paura di attentati rendono necessarie queste precauzioni.
Dopo aver attraversato altre sale, siamo di fronte al «piccolo Budda», che siede su un tronetto in posizione elevata. Ci appare veramente un ragazzo, ma dall’aspetto serio e dall’espressione matura. Osserva ciascuno dei presenti con uno sguardo profondo, ma anche impassibile: riceve la sciarpa e impone le mani sul capo di tutti in segno di benedizione.
Poi usciamo frettolosamente, sospinti dalla folla e dal servizio d’ordine che cerca di sveltire al massimo la cerimonia. E ci ritroviamo sul cortile del monastero tra radi fiocchi di neve gelata.
Risaliamo sulla nostra vettura per rientrare a Lhasa.
L’imbarazzo della Cina
Abbiamo pensato spesso a quel ragazzo, che svolge un ruolo di capo spirituale gravoso e, apparentemente, al di sopra delle possibilità della sua età. In realtà la capacità del Karmapa di gestirsi, sorretto dai consiglieri, è stata tale da permettergli di rendere tollerabili i rapporti con le autorità cinesi e di… organizzare la sua fuga dal Tibet. È avvenuta nel gennaio scorso.
Ugyen Trinley Dorje (questo il nome del Karmapa), dopo un viaggio di circa 1.500 chilometri attraverso i passi himalayani, nonostante la stagione invernale, è apparso a Dharamsala (India), dove risiede il Dalai Lama. Probabilmente il viaggio è stato compiuto in prevalenza a piedi, utilizzando in qualche tratto un camion.
Dal suo giungere in India, il Karmapa non è mai apparso in pubblico, ma ha delegato alcuni monaci a dichiarare che il suo viaggio ha come fine solo quello di ritrovare sacre reliquie.
La fuga clamorosa sta scottando l’orgoglio del governo cinese, che si è visto beffato, nonostante le precauzioni assunte. Quel ragazzo se n’è andato «senza il permesso del regime di Pechino».
Nel contempo la Cina sta facendo forti pressioni sull’India, perché non conceda lo stato di asilo politico al fuggitivo, mentre l’India stessa sta cercando una soluzione politica. Ma di una restituzione del Karmapa non se ne parla.
Sia in Tibet che in Cina è stretto il controllo sulle comunità religiose. Ne fa le spese soprattutto la chiesa cattolica «clandestina», fedele alla Santa Sede che rifiuta, tra l’altro, di riconoscere l’ultimo vescovo nominato dal governo cinese.
Pechino, in ogni caso, deve affrontare la crescente «fame» di religiosità che si sta diffondendo nel grande paese. Ma, per il momento, ricorre ancora alla repressione.

Giorgio Motta




Non di solo preti – 14 maggio 2000 giornata mondiale delle vocazioni

Non è esaltante il numero di sacerdoti,
anche perché quelli in attività
sono tutt’altro che giovani.
Ancora più preoccupante la situazione
delle vocazioni missionarie,
specie per alcuni istituti.
Il calo delle «vocazioni speciali»
è «un segno dei tempi»
per far largo a quelle «comuni»,
cioè dei laici?
Che, però, non vogliono fare
solo i sacrestani.

PER UN’ANTICA SIMPATIA

Forse è opportuno un avvertimento. Parlando di vocazione, non bisogna intendere solo quella «speciale»: al sacerdozio, alla vita consacrata dei religiosi e religiose o alle missioni.
La parola «vocazione» ha tanti sinonimi, la cui molteplicità ha il pregio di dilatae il concetto. Al posto di «vocazione», possiamo usare chiamata, convocazione, elezione, scelta fondamentale, servizio, missione, via, cammino, attitudine, inclinazione, passione, estro, illuminazione, sintonia, apertura…
Ad esempio: Giuseppe Allamano fondò i missionari della Consolata anche per «una specie di attrattiva per l’Africa, un’antica simpatia che non so spiegare»… Si racconta che in casa di Gioacchino Rossini, se cadeva un piatto e la madre imprecava, il figlio fin da ragazzo tendeva l’orecchio e, con la musica nel sangue, canterellava «re, la, sol…». E la Scrittura raccomanda di «non spegnere lo Spirito».
Si potrebbe affermare che la vita stessa è vocazione, in senso assoluto: ognuno ha il diritto di nascere e realizzarsi pienamente come persona. Non esiste, infatti, mistero più grande e sacro della genesi dell’io e della consapevolezza della propria unicità. J. H. Newman scrisse: «In qualche modo sono tanto necessario io al mio posto quanto un arcangelo al suo».
Nella bibbia è Dio che chiama. Ciascuno è chiamato per nome (Is 43, 1), e sta all’uomo rispondere come sa e può (Rom 9, 12). Ne deriva che la vocazione non è un monumento fisso, ma un rischio: si trasforma in storia, con parecchie avventure. Quasi tutti i fondatori di istituzioni religiose, umanitarie e scientifiche hanno dovuto, strada facendo, modificare i loro piani e rifare continuamente il punto, «guardando le stelle».
Di più. Esiste anche una chiamata universale: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati (1 Tim 2, 4), come c’è una vocazione universale alla santità o a migliorarci.
Nella chiesa poi ogni persona ha la sua vocazione o funzione da svolgere, che va riconosciuta e valorizzata per quanto umile possa essere. I documenti del Concilio ecumenico Vaticano II parlano chiaro al riguardo (Lumen gentium, 11).
Anche nelle religioni non cristiane il concetto di vocazione è presente. Muhammad è un profeta trascinato da Dio; Budda significa l’illuminato; così Zarathustra, profeta e riformatore.
L’INVERNO DELLE VOCAZIONI
È diventato un luogo comune distinguere il fenomeno della vocazione in due tipi di esperienza: ci sono le vocazioni speciali o particolari e le altre… Per la chiesa cattolica, dal Concilio ad oggi, la diminuzione delle «vocazioni speciali» costituisce una grande preoccupazione.
Si tratta dei chiamati ai ministeri ordinati (legati al sacramento dell’ordine), in particolare dei preti, dei religiosi e religiose, dei missionari (uomini e donne). È invalso l’uso di qualificare questi soggetti come «persone entrate in vocazione», come se entrassero in una «corrente marina» che, solcando l’oceano dell’umanità, è destinata ad influire sul clima di intere regioni.
Un tempo tutto procedeva a gonfie vele. Ai giorni nostri le acque sono estese, ma poco profonde, e la navigazione in grande stile quasi impossibile. Decenni fa i sacerdoti erano persino troppi. Oggi invece… Il papa stesso, rivolgendosi ai vescovi francesi, ha parlato di «inverno delle vocazioni» (13 gennaio 1992).
Però è doveroso fare in modo che la preoccupazione della chiesa per la crisi delle vocazioni sacerdotali non fagociti le altre vocazioni. Il Concilio anche su questo punto è chiarissimo: tutti i battezzati sono chiamati ad operare per «la vitalità della chiesa».
Ad aggravare la situazione ci sono pure l’invecchiamento e il calo della perseveranza.
Però è necessario fare anche un esame di coscienza. L’Allamano a coloro che gli impedirono nel 1891 di dar vita all’Istituto missionario (poi fondato nel 1901), adducendo come motivo la scarsità del clero (il che era falso) disse: «Se a Torino vi fosse un terzo o anche la metà in meno dei sacerdoti esistenti, ma lavorassero di più, si andrebbe avanti lo stesso» (9 marzo 1917).
DIO CHIAMA PER NOME
I tentativi per risalire la china del calo di vocazioni sacerdotali sono immani. Nel 1992 Giovanni Paolo II scrisse la poderosa esortazione apostolica Pastores dabo vobis, in cui alla crisi delle vocazioni speciali contrappone un «abbandono fiducioso nello Spirito Santo». Nel frattempo in questi anni si sono celebrate Gioate per le vocazioni e si è anche pregato molto.
Nonostante tutto, la pastorale vocazionale si presenta stanca, ripetitiva, disordinata e quasi fallimentare. Le diagnosi continuano ad essere approfondite e precise. Troppe in ogni caso le incertezze in una società e in una chiesa in rapida evoluzione. Difficile fare il punto.
Il bisogno forse maggiormente sentito è quello della chiarezza, che non c’è o non c’è a sufficienza. Da tale mancanza deriva il disorientamento, soprattutto quando si tratta di fare scelte decisive. Dagli studiosi emerge un debole e cauto suggerimento, ma che forse merita di essere preso in considerazione.
Oltre alle iniziative «comunitarie» attraverso gruppi, slogan, campi di lavoro, marce e pellegrinaggi (che pure sono necessari per sensibilizzare i giovani), è necessario accostare i giovani e ogni altra persona a livello più individuale, per accompagnarli spiritualmente e più dall’interno.
Perché Dio chiama per nome e non in massa.
INOLTRE…
Inoltre c’è pure chi nella preoccupante diminuzione quantitativa e a volte qualitativa del clero, scorge un aspetto positivo. Non sono molti, ma ci sono.
La diminuzione non potrebbe essere interpretata come un «segno dei tempi» o un invito a considerare se non ci sia qualcosa da modificare nella struttura della chiesa? E non si allude all’ordinazione delle donne o all’abolizione del celibato.
Per esempio: Carlo Castagnetti, direttore del Centro nazionale vocazioni e direttore della rivista Vocazioni, scrive: «Il Signore vuole che si prenda coscienza della vocazione generale di tutti i battezzati al sacerdozio comune, e che si facciano avanti nella chiesa e non considerarsi degli spettatori passivi».
La chiesa cattolica, in polemica con i protestanti, ha sempre messo un po’ la sordina sul «sacerdozio comune» che spetta a tutti i battezzati (1 Pt 2, 9). Il Concilio ne ha parlato. E sarebbe sufficiente prendere in mano alcuni documenti ecumenici di cattolici e protestanti per rendersi conto di come il «sacerdozio comune» sia stato approfondito. Ciò non toglie che esista pure «un ministero sacerdotale speciale». Anche per i protestanti non tutti i fedeli sono pastori, come fra gli ebrei non tutti sono rabbini.
È stupefacente che, a 35 anni dal Concilio, un parroco torinese abbia scritto la lettera aperta «Pastori o padroni?», per denunciare come «i laici siano considerati dei bambini incapaci, che devono solo eseguire gli ordini dettati dal prete» (La Voce del Popolo, 5 marzo 2000).
Sarebbe anche interessante percorrere la storia del movimento cattolico femminile, per rendersi conto che cosa ha significato per una donna essere attiva nella chiesa senza sposarsi o entrare in convento.
È sviluppatissimo poi in molte nazioni il volontariato, a volte molto impegnato, che per essere come si deve importa una vera vocazione, oltre a doti particolari e una carica spirituale.

Igino Tubaldo




BURUNDI – Severin si sveglia ll’alba

A spiegare la divisione etnica si rischia sempre
di cadere in facili
schematizzazioni:
gli hutu-agricoltori contro i tutsi-allevatori, i primi in maggioranza
ma senza potere,
i secondi privilegiati
dai colonizzatori.
Ma la divisione è reale
e si riproduce anche
nella chiesa locale.
Dicono molti burundesi: «Noi siamo figli
della nostra terra,
prima siamo hutu e tutsi
e poi cristiani».
Per capire di più,
abbiamo seguito Severin, di professione catechista, lungo le strade
del piccolo e martoriato paese africano.

Come ogni mattino Severin Ndikundana si sveglia all’alba. Alle cinque il sole sta già sorgendo sulle colline del Burundi e i contadini, da sempre, scandiscono il ritmo delle loro giornate sulle ore di luce. Severin saluta la moglie e i figli e parte, a piedi, percorrendo le scorciatornie che lo porteranno dopo una decina di chilometri, dalla sua collina, nei pressi di Gishora, alla seconda città del Burundi: Gitega.
Severin è uno dei catechisti dell’antica parrocchia di Rukundo (amore, in kirundi), che, trovandosi ai margini della città, copre un vasto territorio circostante. I fedeli sono i contadini dell’interno più che la gente di Gitega.
È catechista dal 1980, mostra orgoglioso il tesserino della diocesi sul quale sono riportati i suoi dati e il giorno di inizio del servizio. Perché sei diventato catechista? «Per vocazione» risponde con molta semplicità. Magro, con il volto scavato, osserva con due occhi intelligenti. Difficile definire la sua età, ma in un paese dove la speranza di vita è di 43 anni, lui è sicuramente considerato un anziano. Quindi, in Africa, un saggio.
«Diventare catechisti è una vocazione. Bisogna, però, frequentare dei movimenti cattolici da giovani per stimolarla».
Severin insegna religione in una scuola elementare, segue i catecumeni per prepararli al battesimo, impartisce una formazione di due mesi a chi si è allontanato dai sacramenti e vuole riconvertirsi. Come altri catechisti è coinvolto in attività di alfabetizzazione: insegna a leggere, scrivere e contare agli adulti che non hanno potuto frequentare la scuola.
A Rukundo ci sono 28 catechisti «ufficiali», che svolgono questa attività come lavoro, in cambio di un piccolo salario. Altri 121 sono gli aiuto-catechisti volontari. I primi si incontrano ogni venerdì mattina per seguire la formazione, aggioarsi e scambiarsi impressioni.
LA CHIESA, SPECCHIO DELLA SOCIETÀ
Il paese sta attraversando una crisi che si trascina dal 21 ottobre 1993, all’indomani dell’assassinio del neopresidente (il primo democraticamente eletto) Melchior Ndadaye. Le elezioni avevano segnato una svolta portando al potere un partito a maggioranza hutu. Più di sei anni di guerra civile, causata dalla lotta intea per il potere e influenzata dall’instabile situazione geopolitica regionale dei Grandi Laghi. Un conflitto con evidenti connotazioni etniche, che ha causato, oltre ad alcune centinaia di migliaia di morti e più di un milione di sfollati e rifugiati, la catastrofe economica del piccolo paese centrafricano.
«La chiesa del Burundi è lo specchio della società» si sente spesso dire, e la società burundese è attraversata, oltre che dalle divisioni economiche e di potere, anche dalla problematica etnica. «La questione etnica non è compresa dall’opinione pubblica straniera» spiega un missionario esperto in comunicazioni sociali, che chiede di mantenere l’anonimato (perché in Burundi nessuno parla e chi accetta di farlo non vuole essere citato). «Viene spesso assimilata alla divisione in partiti politici e catalogata in categorie chiuse, mentre ha assunto un significato molto più… sentimentale». Bisogna esaminare le componenti culturali e storiche, ci spiega. Le culture di base degli allevatori (tutsi) e degli agricoltori (hutu) non delimitavano una divisione così netta tra le due etnie.
L’imposizione di una struttura estea (quella coloniale) che si appoggiava di più a un gruppo (i tutsi), foendogli educazione e dandogli peso economico e infine politico, è stato uno shock culturale e ha enfatizzato il problema. Così da un complesso tessuto socio-politico, composto da clan, lignaggi e discendenze regali, il colonialismo ha realizzato una tremenda semplificazione storica banalizzando la divisione in due gruppi precisi: hutu e tutsi.
La mancanza di una cultura della condivisione del potere ha fatto il resto.
CLERO INDIGENO E CLERO COLONIALE

Per un altro religioso, burundese, si può parlare di un vero cristianesimo coloniale: «Nel catechismo veniva insegnato che, incontrando per strada il parroco e il capo villaggio, il curato doveva essere salutato prima».
Con l’indipendenza (1962) si è costituito un clero «indigeno», che ha subito puntato a rimpiazzare i missionari e ad ottenere una posizione politica, mentre restava un clero «coloniale», che cercava di resistere. Si creò questa ambiguità in seno alla stessa chiesa; ambiguità che oggi ereditano religiosi, preti e vescovi.
«Gli avvenimenti del ’72 (massacri a sfondo etnico) consacrano la divisione in tre chiese – sostiene il nostro interlocutore -; oltre a quella coloniale (missionaria, ndr.), il clero indigeno si posiziona sui due gruppi etnici e di colpo la chiesa ha l’immagine del paese traducendone esattamente gli stessi conflitti sociali». È Bagaza (1976-’87) che rompe il meccanismo togliendo potere alla chiesa, ma con Buyoya (presidente dal 1987 al 1993 e poi dal ’96 a oggi) si ritorna a un matrimonio ambiguo tra chiesa e stato.
SPIRITUALITÀ ANCESTRALE
Una società che, secondo un missionario belga, «dal ’62 si bagna nella violenza, e così anche i cristiani. Una vera strategia politica». Il religioso vede una chiesa di massa, «sacramentale», nella quale cioè si da molta importanza ai sacramenti nella loro esteriorità, ma che ha poco impatto sulla trasformazione della società. Basta guardare le statistiche dei battesimi e l’assidua frequentazione delle messe.
«Non c’è corrispondenza tra la fede che deve determinare comportamenti di misericordia, di tolleranza, e le azioni del cristiano». C’è poi ancora molta sovrapposizione con il magico, le credenze tradizionali.
Anche il padre burundese è d’accordo: «La chiesa non è mai stata una parte integrante della nostra cultura, ma sempre qualcosa di esterno. Non c’è mai stato niente che ci abbia fatto identificare in essa». Questa è una caratteristica comune a tutta l’Africa, dove l’evangelizzazione si è innestata su una cultura che aveva già una spiritualità profonda. Spiritualià il più delle volte negata e proibita (come nel caso del Burundi). Il cristiano africano mantiene questa ambiguità, in cui spesso i valori ancestrali, come quelli di appartenenza, sono più profondi di quelli del vangelo. «Noi siamo figli della nostra terra, prima siamo hutu e tutsi e poi cristiani» si dice in Burundi.
C’È CHIESA E CHIESA
Il capannone scuro della parrocchia di Rukundo è ancora trabordante di persone alla terza messa domenicale. Vi saranno almeno un migliaio di fedeli, stipati su dei piccoli banchi costituiti da un asse inchiodato su due sostegni. In fondo, lontanissimo, su un’alta base di cemento, siede il sacerdote. Dietro di lui un ampio altare e, sul muro, un grosso tamburo in bassorilievo, simbolo del potere regale, che ospita il tabeacolo. La messa in kirundi (la lingua del popolo barundi) dura circa due ore. La maggior parte dei presenti vive sulle colline, anche a molti chilometri di distanza. Sono venuti in città per il mercato e la messa. Spesso sono scalzi o portano consumate ciabatte infradito. Le donne sono avvolte in sgargianti tessuti, hanno in testa il tipico foulard colorato e portano il figlioletto sulla schiena.
Diversa è l’atmosfera alla parrocchia del Buon Pastore, nel cuore del quartiere dei funzionari. Il locale è più piccolo, ma c’è meno gente e non si sta accalcati sugli ampi banchi con inginocchiatornio. C’è anche la messa in francese. Rare sono le donne in vestiti africani. Normalmente qui si sfoggia l’ultimo abito all’europea acquistato in capitale e l’elaborata acconciatura che obbliga le signore a intere giornate dal parrucchiere. Anche i bambini hanno le scarpe lucide. La messa dura solo un’ora. I volti sono diversi: sembra di essere in un altro paese. Ma anche qui dietro all’altare c’è un tabeacolo a forma di tamburo.
Cyprien lavora assieme a Severin alla parrocchia di Rukundo. Ha fatto un corso da catechista che dura quattro anni. Adesso svolge un anno di prova e alla fine dovrà presentare una sintesi delle attività di questo periodo, per diventare, si può dire, un catechista diplomato. «Mi piacerebbe cambiare il cuore dei fedeli – spiega -, fare in modo che aprano la loro mente e partecipino al loro sviluppo». Cyprien vorrebbe essere una guida per un reale miglioramento della vita dei cristiani. Una liberazione che passa attraverso il vangelo.
La suora che li accompagna (anch’essa burundese) è più esplicita: «Abbiamo la fede, ma non si manifesta dentro di noi. L’odio e l’ingiustizia regnano in noi, a partire dalle autorità, fino ai consacrati, e tutti i cristiani».
«Molta gente non dice la verità, ruba. Non è la carenza di cose; è il non saper vivere con quello che c’è». È una chiesa che deve convertirsi, e conclude: «Pregate perché ciò avvenga».
Cyprien ci racconta il compito più importante dei catechisti. «La domenica, nelle succursali (cappelle legate alla parrocchia, ndr) sulle colline, ci incontriamo con i cristiani e li aiutiamo in celebrazioni semplici, non eucaristiche». Fondamentali perché il sacerdote è costretto, dalla vastità del territorio parrocchiale, a visitare a tuo le comunità.
VESCOVI E PRETI LONTANI DAL POPOLO
La frattura tra il popolo e la gerarchia ecclesiastica è ancora grande. La gestione della diocesi è spesso autoritaria. «Il vescovo è un capo tribale, così i preti a livello più basso – spiega un missionario studioso di ecclesiologia -; esiste una netta separazione tra gli ecclesiastici e il popolo. I preti non vogliono perdere i loro privilegi, il loro potere». Secondo lui siamo di fronte a una chiesa pre-Concilio Vaticano II. I motivi sono anche storici, perché nel ’65 il Burundi veniva dilaniato da massacri post-indipendenza che portarono alla prima repubblica con il consolidamento del potere tutsi. Le tensioni politiche e sociali impedirono la penetrazione delle idee del Concilio.
Secondo il missionario esperto in comunicazione, invece, c’è una condivisione di responsabilità tra laici e clero. Il responsabile della commissione «giustizia e pace» della conferenza episcopale, l’addetto stampa della stessa e altre posizioni di responsabilità sono assunte da laici.
Severin e Cyprien raccontano di avere poco contatto con il loro vescovo: «Non è facile incontrarlo. Arriviamo a lui tramite la nostra responsabile. Da quando è stato nominato (marzo ’97, ndr) non è mai venuto a farci visita». Eppure alcuni vescovi burundesi sono sempre in viaggio. Passano due mesi in Burundi e uno in Europa. Lo stesso pontefice, secondo indiscrezioni, li avrebbe ripresi nell’ultima visita ad limina.
Andarlo a cercare? Troppo timore reverenziale. «L’ufficio pastorale della diocesi è come la presidenza (della repubblica, ndr) per noi. Ci andiamo solo se il parroco ci dà il permesso». In questo senso si capiscono le parole di un altro missionario: «I vescovi fanno i padroni della loro gente, non si mischiano e non soffrono con il popolo».
IL DRAMMA DEI «RAGGRUPPATI»
Nessun vescovo ha visitato, ufficialmente, uno dei cinquanta campi di raggruppamento, nei quali sono stati concentrati a forza, a partire da metà settembre, almeno 350 mila persone, sulle colline intorno alla capitale.
Atteggiamento che non è piaciuto a molti cristiani, questo «non mischiarsi nella miseria», necessario, specie per un pastore, perché siamo fatti di sentimenti, non solo di conoscenza intellettuale.
Un grido di denuncia è arrivato dall’arcivescovo di Gitega, mons. Ntamwana, al rientro da un incontro con i vescovi di Rwanda e Congo, in Kenya. Ma nelle dichiarazioni di fine anno nessun riferimento ai campi, dove la gente muore di stenti e sono violati i diritti umani più elementari. «Era chiaro che non ci sarebbe stato un atto congiunto. Da un lato, perché non sarebbero stati tutti d’accordo e, dall’altro, perché qui le denunce si fanno in modo silenzioso». Molte situazioni si risolvono sulla base di relazioni personali. Non bisogna quindi offendere la sensibilità di qualcuno e rovinare i rapporti, ma piuttosto cercare di agire con diplomazia (caratteristica questa molto sviluppata nei burundesi) sfruttando contatti diretti.
Ma non a tutti questi metodi vanno bene: mancano le critiche e le prese di posizione. «Sono rari gli interventi profetici, che puntino a sganciarsi dalla problematica etnica e diano voce ai senza voce – dice un missionario italiano -; non vogliono mettersi contro il presidente, cattolico e moderato». Il religioso burundese insiste: «Ci mancano profeti e testimoni. Si ha paura di dire la verità e assumerla. I missionari possono gridare un po’ di più. Ma devono stare attenti». I religiosi stranieri spesso parteggiano a fianco «della massa che soffre» (ovvero gli hutu, 85% della popolazione, quasi totalmente esclusi dal potere politico, economico e militare) e questo prende subito una connotazione etnica. Da qui le accuse da parte di preti, vescovi ed estremisti di appoggiare la ribellione (a maggioranza hutu).
Ancora una volta sono i catechisti che si espongono di più. Anche nei campi di raggruppamento, mettendo in pericolo la loro vita, continuano a portare la testimonianza del vangelo, ad aiutare la gente. «Questo fa sperare: al di là della debolezza dei preti, c’è una presenza popolare fatta di fede, che prova che la chiesa non sparirà» continua il missionario.
TEOLOGIA SENZA TESTIMONIANZE
In Burundi ci sono circa 1.300 religiosi, tra cui più di 1.000 suore. L’«Assemblea dei superiori maggiori» (Asuma) cornordina le 16 congregazioni di uomini e le 32 di donne. Nazionali e stranieri insieme. È qui che si legano maggiormente la chiesa missionaria e quella locale, pur partendo da basi culturali molto lontane. Le congregazioni burundesi sono state create dai vescovi, che le vogliono al loro servizio. «Cerchiamo di far passare il messaggio che, in quanto religiosi, siamo parte della chiesa, abbiamo le nostre opere, una nostra missione e un ruolo specifico», racconta un ex presidente dell’assemblea. Questo per ridurre la dipendenza gerarchica. «Pensate che nelle convenzioni che facciamo con i vescovi non possiamo usare la parola “partenariato”, perché presume un accordo tra parti uguali. È una teologia che stiamo formando, poco a poco». Ma molto resta il cammino da fare.
Allo stesso modo l’Asuma cerca di far aprire le congregazioni locali all’impegno verso il popolo: «Abbiamo cercato di motivarli nei confronti dei raggruppati. Problema che loro non sentivano come prioritario. Siamo riusciti a organizzare raccolte di fondi e distribuzioni di viveri con l’impegno diretto di religiosi e religiose». Purtroppo, spiega il padre, il vangelo sociale non è ancora compreso, molto spesso a causa della formazione nei seminari che non prevede i concetti di «servizio», «responsabilizzazione» e «partecipazione popolare».
Ad esempio c’è molta ignoranza sull’importanza, della giustizia nell’evangelizzazione.
Conferma, ancor più duro, il religioso burundese: «È una chiesa senza pensiero teologico, dove dominano i buoni parlatori e i buoni strateghi. Manca uno spazio di espressione sulla fede». Vede però uno spiraglio. «Esiste tuttavia una riflessione teologica che parte dalla base, fatta di testimonianze».
E I MISSIONARI?
Ha dunque ancora un senso la permanenza dei missionari in Burundi? «Sì. Perché la chiesa è missionaria per natura. Per l’apertura agli altri e per lo scambio», ci risponde qualcuno. «Per la varietà e l’universalità della chiesa. Perché la presenza di missionari, specie nei momenti più bui, ha dato fiducia. Abbiamo ancora bisogno di collaborare, non con posti di responsabilità, ma con una presenza efficace, con libertà di analisi e di suggerire», dice qualcun altro. «Sì, ma in modo diverso da oggi. Come poveri, contemplativi, per diffondere il messaggio di Cristo a tutti andando in profondità, per incarnarlo in questa cultura», sostiene chi rigetta il modello di clero «coloniale», ancor oggi presente.
È difficile descrivere la complessità della chiesa di un paese. Ci accontentiamo di una frase di Cyprien, catechista di Mugutu, parrocchia di Rukundo: «Vorrei che il nostro popolo uscisse dall’oscurità e partecipasse, lui stesso, al suo sviluppo. Per questo ha bisogno di guide».

Hubert Dubo




NAIROBI (KENYA) – «Polepole»… entra in episcopio

Anthony Ireri Mukobo,
primo missionario
della Consolata kenyano
e vescovo ausiliare
di Nairobi dal 18 marzo,
è entrato in servizio
in punta di piedi,
ossia «polepole».
Una vita semplice la sua,
ma con un’idea chiara della nuova responsabilità:
imprimere maggiore spirito missionario
alla chiesa del Kenya.

È la prima volta. Non mi era mai capitato di intervistare un nuovo vescovo africano. Temevo che il compito non mi sarebbe riuscito, sia per la mia mancanza di esperienza, sia per la naturale circospezione dell’interessato. Invece tutto è filato liscio, con soddisfazione per entrambi.
Seduti attorno ad un tavolo, monsignor Anthony Ireri Mukobo, missionario della Consolata, consacrato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Nairobi (Kenya) il 18 marzo scorso, mi ha raccontato la sua storia in modo semplice e cordiale.
È una storia che non ha nulla di straordinario, ma profondamente intessuta dell’eroismo del dovere quotidiano e della ricerca serena della volontà di Dio.
Ve la offro come il protagonista me l’ha raccontata.
Non cristiano
fino a 16 anni
Sono nato il 23 settembre 1949 in un piccolo villaggio chiamato Mufu, nei dintorni di Kyeni. Mio papà seguiva la religione tradizionale. È voluto diventare cattolico soltanto dopo la mia ordinazione sacerdotale. Io stesso ho avuto la grande gioia di battezzarlo, con il nome significativo di Paolo. Mia madre Maria, invece, era cattolica. È morta quando ero bambino. Ho due fratelli e due sorelle maggiori di me. Il papà è morto mentre mi trovavo missionario in Colombia.
Io non ero ancora cristiano quando frequentavo la scuola elementare a Kyeni e poi la Kangaru secondary school di Embu. È stato alla fine del ciclo scolastico che ho deciso di entrare nella chiesa cattolica: ho frequentato per due anni il catecumenato e, nel natale del 1965, padre Livio Tessari mi ha battezzato nella parrocchia di Kyeni.
Approfondendo la mia fede e vivendo con i missionari, sentivo sorgere in me il desiderio di diventare sacerdote, stupito com’ero dalla vita che conducevano queste persone venute da lontano. Avevano lasciato tutto e tutti per evangelizzare e rendere migliore la mia gente, sia a Kyeni sia nelle missioni vicine.
All’inizio non li conoscevo bene; ma mi impressionavano molto per dedizione, spirito di sacrificio e disponibilità giorno e notte. Oltre a padre Livio, ricordo con riconoscenza i padri Giuseppe Maggioni e Bruno Porcu. Quest’ultimo lavorava molto bene nella promozione spirituale e sociale tra la gente di Kyeni.
Verso il termine delle scuole secondarie ho manifestato il desiderio di diventare sacerdote al padre Angelo Dwera, incaricato per la pastorale vocazionale del seminario di Nyeri. Ma i parenti non erano molto contenti della mia decisione.
Intanto, però, la Provvidenza mi apriva un’altra strada facendomi incontrare padre Giuseppe Demarie. Questi, con pazienza e saggezza, mi spiegava le diversità tra il prete diocesano e il religioso-missionario. Mi raccomandava di chiedere luce al Signore nella preghiera.
Un kenyano
in Colombia
Finita la scuola, ho scelto di diventare anch’io come uno dei missionari che avevo conosciuto. Molti sacerdoti diocesani e studenti del seminario di Nyeri hanno cercato di dissuadermi, dicendo: «Un giorno te ne andrai e ci lascerai, mentre qui c’è tanto lavoro!». Ma la chiamata alla missione era più forte di me. Così ho fatto domanda di entrare tra i missionari della Consolata e sono stato accolto nel seminario di Langata (Nairobi). Era il 1972.
Eravamo in otto. Frequentavamo i corsi di filosofia nel vicino seminario diocesano di St. Thomas Aquinas. Al termine degli studi, nel 1974 entrai in noviziato. Ma ero rimasto solo. Gli altri avevano lasciato.
L’anno di noviziato è stato determinante per la mia vita. Avevo il maestro, padre Luigi Tempini, tutto per me: sotto la sua guida ho conosciuto lo «stile» dei missionari della Consolata, ho sciolto dubbi e difficoltà e sono entrato «ufficialmente» nella nuova famiglia.
Finiti gli studi di teologia ho esercitato per un anno il diaconato a Karima e il 5 gennaio 1980 sono stato ordinato prete a Nairobi da monsignor Njiru Silas, vescovo di Meru.
H o vissuto le prime esperienze di sacerdote nella parrocchia di Kyeni e Karima, dove ho lavorato per due anni. Poi sono stato inviato a Roma, per frequentare il pontificio istituto di spiritualità Teresianum.
Nel 1983, conseguita la licenza in spiritualità, sono partito per le missioni della Colombia. Gli inizi sono stati difficili: l’impatto con una nuova lingua e cultura è stato faticoso.
La gente non era abituata a vedere un sacerdote nero. Più di una volta ho raggiunto a cavallo varie comunità sconosciute per celebrare la messa, ma la gente continuava ad aspettare il sacerdote. Si accorgeva che ero io soltanto quando avevo indossato i paramenti…
Superate a poco a poco le difficoltà, si è creato un clima amichevole. Sono rimasto in Colombia sette anni, lavorando nel Caquetá (Puerto Rico), nel Cauca (El Tambo) e a Manizales come incaricato della pastorale vocazionale.
Richiamato in Kenya, sono stato destinato al seminario filosofico di Langata, addetto alla formazione dei seminaristi (1991-93). Poi sono nuovamente ritornato al lavoro pastorale, prima come viceparroco a Timau e poi come parroco a Karima (1995).
Insegnavo anche missiologia e spiritualità nel seminario maggiore di Nyeri.
Per una chiesa africana
più missionaria
Tutto ciò fino a quando mi è arrivata la nomina a vescovo ausiliare di Nairobi.
Ora inizia una nuova fase della mia vita. L’arcidiocesi di Nairobi ha problemi immensi. Una grossa croce mi è caduta sulle spalle. Ma, come ogni altra incombenza precedente, è una croce che viene dal Signore: Egli mi darà anche la forza per portarla. Spero di trovarmi bene e di aiutare con tutte le energie l’arcivescovo, monsignor R. Ndingi.
Cosa farò adesso? Prima di tutto, sarà necessario sedersi attorno ad un tavolo con l’arcivescovo, l’altro vescovo ausiliare, D. Kamau, e i diversi incaricati della pastorale, sacerdoti e laici, per pianificare il lavoro e camminare insieme.
Il fatto che io sia missionario della Consolata è molto positivo: i confratelli in Kenya non mi faranno sentire solo. Essi continueranno a essere la mia famiglia.
Penso, inoltre, d’impegnarmi per infondere lo spirito missionario nella chiesa locale, affinché alcuni sacerdoti e laici diventino evangelizzatori in altri paesi del mondo, come 99 anni fa i missionari della Consolata. Sono partiti da Torino per venire ad evangelizzare il Kenya…

G razie, monsignor Anthony, per la sua disponibilità. Auguri sinceri per il suo nuovo e non facile lavoro missionario.

Achille Da Ros




Toledo scalzerà Fujimori

Nonostante la poderosa campagna elettorale e i brogli, il presidente Fujimori non è riuscito a farsi eleggere al primo tuo. Ora per lui le cose si fanno più complicate. Alejandro Toledo, indio e professore di economia, a giugno potrebbe diventare il nuovo presidente del Perù. Una svolta, dopo 10 anni di fujimorismo.

Il nostro appuntamento con Alejandro Toledo era in un ristorante di Lima. Ne è uscita una conversazione di circa due ore incentrata sui problemi economici e sociali del Perù. Allora il suo partito («Perú Posible», di centro-sinistra) era accreditato di un 6-7% dell’elettorato. Di quella lunga intervista riportiamo di seguito alcuni brevi stralci.
Professor Toledo, lei insiste molto sulla sua appartenenza etnica, sul suo volto da indio. Lo fa per calcolo elettorale o c’è dell’altro?
«Io provengo da un grande impero, l’impero incaico. Non mi vergogno della mia razza. Al contrario, ne sono orgoglioso. Mai nella storia di questo paese è esistito un candidato presidenziale che provenga dalla razza da cui io provengo. Dopo 500 anni nei quali il Perù è stato governato dal 5% della popolazione, è arrivato il momento di metterci in piedi per risvegliare la nostra indignazione costruttiva. Ho la sana pazzia di tentare di essere il presidente di questo paese per molte ragioni. Una di queste è la mia razza».
Il Perù attuale è un paese democratico?
«No, certamente no. Il Perù di oggi è un paese democratico sequestrato da Fujimori e Cambio-90».
Cosa hanno avuto i suoi connazionali da questi 10 anni di fujimorismo?
«Nonostante alcuni risultati importanti, la gente sta in condizioni peggiori. Il livello salariale, il potere d’acquisto, i tassi di malnutrizione, mortalità infantile, abbandono scolastico, disoccupazione, tutti questi indicatori socio-economici sono peggiorati. Come economista, io dico che gli obiettivi finali della politica economica non sono l’inflazione zero o la benedizione del “Fondo monetario internazionale”. Per me i risultati economici si vedono nel miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Quando la gente ha più lavoro, più educazione, più accesso alla salute».
Tutto questo è molto bello. Ma come raggiungerlo? Con una politica keynesiana?
«No, no. Io non sono keynesiano. Sono propugnatore di una terza via. Oggi è possibile (questo lo insegno a scuola) gestire l’economia con responsabilità. Per esempio, attraverso una distribuzione diversa della spesa pubblica. Io non voglio continuare a comprare navi, tanks o aerei; voglio comprare più libri e più equipaggiamenti per le scuole e gli ospedali. I nostri paesi sono più fragili e vulnerabili perché fondano le loro economie soltanto sull’esportazione di materie prime. Occorre cambiare, puntando sulle imprese che si basano sulla conoscenza. Ma, per arrivare a questo, dobbiamo prima investire in nutrizione, salute ed educazione.
Per favore, devi registrare quello che ti dico ora. Io voglio essere il presidente dell’educazione. E sai perché? Perché io sono la testimonianza vivente degli effetti positivi che essa ha sulle persone. Senza l’istruzione io non sarei mai arrivato fin qui, nascendo dove sono nato».
Dov’è nato, professore?
«Nelle Ande, nella “Cordillera Blanca”, nella povertà più estrema. Io ho avuto fortuna, ma se sono emerso lo debbo all’educazione».
Paolo Moiola

Paolo Moiola




DOSSIER PERU’ – La teologia della liberazione

Monsignor Bambaren:

UN IMPEGNO PER I POVERI,
PER LE PROBLEMATICHE SOCIALI, PER LA DIGNITÀ UMANA

Monsignor Bambaren, qualcuno dice che la «teologia della liberazione» è morta?
«Morta? No, le idee non muoiono mai».

Nel 1998, abbiamo incontrato, qui a Lima, Gustavo Gutierrez (*), considerato il padre della teologia della liberazione. A suo modo di vedere, cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nelle sue idee?
«Nei primi anni Ottanta il papa fece una distinzione tra una teologia della liberazione buona che si deve appoggiare e un’altra che devia e va corretta. Io credo che ogni fenomeno vada collocato nel suo momento storico. Quando nasce la teologia della liberazione, in tutta l’America Latina ci sono fermenti rivoluzionari: Cuba, Cile, Bolivia, Perù, Colombia, Panama hanno movimenti o governi che cercano il cambiamento. È comprensibile che la situazione del momento possa aver esasperato la preoccupazione sociale dei cristiani. Anche attraverso gli sbagli la teologia della liberazione è andata maturando, superando quello che c’era di eccessivo».

Cosa va salvaguardato di quella teologia tanto dibattuta?
«In generale, possiamo dire che la teologia della liberazione ha portato a un maggiore impegno per i poveri, le problematiche sociali, la dignità della persona. Io voglio ribadire il concetto da cui sono partito: le idee non muoiono mai».

Monsignor Cipriani:

UN’IDEOLOGIA MARXISTA. PADRE GUTIERREZ
DOVREBBE SCUSARSI

Monsignor Cipriani, cosa pensa della «teologia della liberazione»?
«Io ho studiato a fondo la teologia della liberazione. E posso dire che non è una teologia. È un’ideologia, che ha una struttura filosofica al 90% marxista. È un coagulo di idee al servizio di un obiettivo. L’obiettivo non è la redenzione, ma la liberazione messianica ad opera di un movimento politico. E ciò viene fatto con citazioni del vangelo e tutta una manipolazione dei testi».

Dunque, lei non vi scorge nulla di positivo…
«Se dobbiamo trovarvi qualcosa da salvare, possiamo dire che essa è riuscita a mettere sul tavolo una maggiore preoccupazione per le enormi differenze sociali, enfatizzando le gravi ingiustizie di questo mondo».

Quindi, qualcosa di buono c’è stato…
«Ma il prezzo pagato è stato altissimo. Essa ha creato un’enorme confusione dottrinale all’interno di moltissime congregazioni, conventi, sacerdoti… Ha generato uno scontro molto forte con l’insegnamento della chiesa. E da questo, purtroppo, non si è ancora usciti».

Non si è ancora usciti?
«Esattamente. Perché la teologia della liberazione ha invertito la missione della chiesa. Con essa i sacramenti furono posti molto in secondo piano. Al primo posto vennero messi gli aspetti politici ed economici dei differenti paesi. Per queste cose la chiesa ha sempre avuto una pastorale molto ben strutturata e armonizzata. La teologia della liberazione, in molte delle sue parti, fu una critica frontale alla dottrina sociale della chiesa e alla sua opera. Purtroppo alcuni dei suoi sostenitori divennero guerriglieri, altri finirono con lo sposarsi, altri uscirono dalla chiesa».

E cosa ci può dire di Gustavo Gutierrez?
«L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scri-vere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».

Paolo Moiola




DOSSIER PERU’ – La chiesa tra potere e gente comune

A Lima abbiamo
incontrato le due massime autorità della chiesa
peruviana: monsignor
Juan Luis Cipriani,
arcivescovo della capitale
e primate del paese,
e monsignor Luis Bambaren, presidente della
Conferenza episcopale.

Incontro con l’arcivescovo di Lima

«MA QUESTO ERA UN INFERNO»

Vescovo di Ayacucho (la patria di «Sendero»), membro dell’«Opus Dei», amico di Fujimori, ex giocatore di pallacanestro, monsignor Juan Luis Cipriani divenne famoso durante la vicenda dell’ambasciata giapponese. Abilissimo affabulatore e con una forte connotazione da Savonarola, nel gennaio 1999 il prelato è stato nominato arcivescovo di Lima.
Nonostante i successi e la rapidissima carriera, anche monsignor Cipriani ha sbagliato qualche «tiro». Innanzitutto, per la prima volta nella storia della chiesa peruviana, l’arcivescovo di Lima non è stato eletto presidente della Conferenza episcopale. E poi monsignor Cipriani è riuscito rendersi inviso a quasi tutte le organizzazioni per i diritti umani, da lui accusate di essere ispirate soltanto dall’amore per i dollari.
Ecco quello che lui ci ha raccontato durante un lungo incontro.

Il 17 dicembre 1996 un commando del «Movimento rivoluzionario Tupac Amaru» (Mrta) assalta l’ambasciata giapponese di Lima prendendo in ostaggio centinaia di persone. Un mese dopo, il nome di Juan Luis Cipriani, vescovo di Ayacucho e membro dell’«Opus Dei», è conosciuto dai giornalisti di mezzo mondo.
Su proposta del Vaticano, il giovane prelato è infatti entrato nei negoziati tra i sequestratori e il governo peruviano. L’estenuante vicenda si conclude nel sangue il 22 aprile 1997. Sul terreno rimangono tutti i 14 guerriglieri dell’Mrta, due militari e un ostaggio, il giudice Carlos Giusti.
Ad operazione conclusa, monsignor Cipriani dice che non sapeva. Piange per le 17 vittime. Ci sono però anche voci dissonanti. Si fa notare che monsignor Cipriani non poteva non conoscere nei dettagli l’operazione militare e che, di conseguenza, le sue sono state lacrime di coccodrillo.
Monsignor Cipriani torna al lavoro nella diocesi di Ayacucho fino al gennaio 1999 quando viene nominato arcivescovo di Lima, in sostituzione di Augusto Vargas Alzamora. Il prelato non ottiene però le preferenze necessarie per essere eletto presidente della Conferenza episcopale, carica che va a monsignor Luis Bambaren, vescovo di Chimbote.

CERPA CARTOLINI, UN UOMO DIBATTUTO

Lei è stato vescovo di Ayacucho, la «patria» di Sendero Luminoso. Cosa ricorda di quell’epoca?
«Ricordo che vidi troppa gente morta, troppa violenza. E, badi bene, non era una violenza dei poveri contro i ricchi».
Potrebbe spiegare meglio quest’ultimo concetto?
«Sendero Luminoso fece una lotta non per gli ideali, ma per un’idea brutale di tipo maoista-polpottiano. Quando la gente prende la strada della violenza, si spoglia della dignità di persona. Ciò significa che l’immagine di Dio ne rimane cancellata. E questo non trova giustificazione né davanti alla povertà né davanti all’ingiustizia, perché la maggior povertà e ingiustizia si ha quando l’uomo si spoglia della propria dignità.
Il mio messaggio è stato sempre molto chiaro e fermo: si recupera la dignità di persona soltanto se ci si libera della violenza come modo di comportamento».
Rimaniamo su queste tematiche. Nella crisi dell’ambasciata giapponese (17 dicembre 1996 – 22 aprile 1997) lei ricoprì un ruolo di primo piano. Cosa ricorda o cosa vuole dire di quella vicenda?
«La mia non fu un’iniziativa personale. Fui chiamato dalla Santa Sede attraverso la nunziatura. Pensai subito che l’unico modo per uscire da quella situazione era una conversione interiore dei terroristi dell’Mrta. Quelle persone dovevano cioè riuscire a capire che la loro azione non poteva avere soluzione, se non c’era un cambio d’attitudine. Tuttavia, pur nella tragedia, io riuscii ad instaurare un rapporto d’amicizia con i terroristi».
Anche con il loro capo, Nestor Cerpa Cartolini?
«Direi che con lui ci fu un’amicizia speciale. Cerpa aveva la moglie incarcerata e condannata all’ergastolo e i figli in Francia con la sua mamma. Era quindi un uomo dibattuto tra la responsabilità di un padre davanti ai suoi figli e la solidarietà con la sua sposa. Credo che non fu lui il responsabile principale del fallimento, ma qualcuno dei suoi collaboratori».
Intende dire che le soluzioni ci sarebbero state?
«A mio parere, ai sequestratori si offrirono delle alternative accettabili: l’uscita pacifica verso Cuba, la collaborazione di organismi stranieri nel monitoraggio delle carceri peruviane, la possibilità di continuare il dialogo anche dopo aver lasciato l’ambasciata. Probabilmente la loro intransigenza fu alimentata anche dai mezzi di comunicazione. Fecero molto danno la vanità e la superbia di pensare che il risalto dato alla vicenda li aveva trasformati nei protagonisti di una sorta di messianismo. La copertura mondiale della vicenda, certamente comprensibile, fece perdere loro la testa. Non parlavano tanto seriamente con me come con i mezzi di comunicazione. Persero il senso della realtà, del tempo, dei loro limiti».
La crisi dell’ambasciata terminò con un atto di forza, l’assalto di un commando delle forze armate…
«Io non ebbi nulla a che vedere con l’operativo militare. Non ne ero nemmeno a conoscenza. D’altra parte, non posso nemmeno dare la colpa al governo e alle forze armate: c’era in gioco il bene di un folto gruppo di persone, detenute non da un giorno o due, ma da 4 mesi».
Tuttavia, ci furono ben 17 morti. Non le sembra che una simile conclusione sia stata un fallimento anche per voi?
«Fu molto duro accettare tutte quelle morti. Fu il trionfo del male sul bene, perché non si trovarono sufficienti risorse morali e personali per rendersi conto che il rispetto per la vita avrebbe potuto dar luogo a una soluzione diversa. Per tutto ciò io piansi».

MANCA LA FIBRA MORALE
Come vede lei il Perù di oggi da un punto di vista sociale ed economico? È veramente, come recita la pubblicità di Fujimori, un paese con futuro?
«Io non voglio entrare in una discussione politica domestica. Vorrei evidenziare un’altra questione, molto più profonda. Al Perù quello che manca, oggi più che mai, come in altre parti del mondo…».
… è il lavoro?
«È la fibra morale. La frustrazione di non avere un futuro porta all’alcornol, alla droga, al divorzio, alla violenza, alla corruzione, al disordine. Si pensa: “Perché mi debbo comportare bene, se non posso mangiare o portare avanti la mia famiglia?”. I laici daranno le risposte ai problemi economici, mentre la chiesa deve continuare a essere un ricettacolo di speranza e dignità. La risposta della chiesa a questa frustrazione deve essere un “supplemento di anima”. Quando l’uomo ha un supplemento di anima è capace di molte cose. Non compete né a me né ad alcun uomo di chiesa fare diagnosi sul Pil, i salari, i modi per generare impiego. Ripeto, il problema principale è morale: la famiglia è corrosa alle sue basi».
In tutto questo la globalizzazione c’entra qualcosa?
«La globalizzazione è veramente un problema tragico. I grandi stanno mangiando i piccoli, ma ad una velocità molto più alta che nella rivoluzione industriale. Proviamo a pensare un momento: se la rivoluzione industriale ha dato origine al marxismo, la globalizzazione a cosa ha dato origine? Al nichilismo, alla droga, al terrorismo.
La globalizzazione è un materialismo selvaggio con grandi profitti economici per alcuni e un maltrattamento brutale per la maggioranza del mondo.
Il mondo è dominato dall’egoismo dei paesi più potenti. Gli Stati Uniti emettono buoni del tesoro e succhiano tutti i risparmi del mondo, per continuare ad alimentare il loro benessere e mandare le loro navicelle nello spazio. L’Unione europea paga gli agricoltori per non seminare. Tutto ciò è lecito? È morale?».
Lei mi sembra piuttosto esperto in economia…
«Sono molto esperto in umanità. Mi fa soffrire molto la situazione dei poveri. Tutti hanno diritto ad avere una casa, una famiglia, educazione e salute. Quando la miseria impedisce di svilupparti liberamente, questo è inumano».
In questa situazione di capitalismo selvaggio (che anche lei riconosce), come si può attuare l’opzione preferenziale per i poveri?
«Se avessi la risposta, sarei un genio. Ma mi lasci spiegare una cosa. Nessuno ha scelto dove nascere e in che condizioni nascere. C’è chi viene al mondo in un ambiente con più mezzi economici e più cultura. C’è invece chi questa fortuna non l’ha.
Poiché Dio ha fatto nascere alcuni uomini in luoghi più fortunati, questi hanno un debito con chi è nato in posti più umili, dove manca l’accesso all’educazione o altri vantaggi. Questo non è un problema né di governo né di leggi. È un problema di umanità.
Il giubileo affronta anche la questione del debito estero. Questo è un problema economico o un problema morale?
«È prima di tutto un problema morale. Nel debito ci sono corruzione, ingiustizia, abusi, usura, furti. Questi non sono problemi economici o sociali, si chiamano peccati. E in quanto tali soltanto Dio può perdonarli. Se a un ladro o un corrotto si condonano gli sbagli, questi possono tornare a rubare facendo danni al loro paese. Dunque, non credo che il condono sia la scelta migliore. Si potrebbe pensare a dei garanti che obblighino a utilizzare i soldi risparmiati in progetti prioritari, per esempio nei campi dell’educazione e della salute».
Nelle chiese e sui giornali, in televisione e negli incontri pubblici, in ogni occasione lei diventa un fustigatore veemente dei comportamenti individuali, in particolare di quelli sessuali… Come mai insiste molto su queste tematiche?
«Se all’uomo e alla donna è tolta la condizione del rispetto reciproco, allora il sesso si trasforma in una merce da sfruttare. In questo paese c’è una infinita mancanza di rispetto per la donna, che è la più maltrattata. Occorrerebbe investire più denaro nell’educazione familiare e meno per chiusure di tube, aborti e ogni tipo di succedaneo. Io continuamente too a ripetere: vogliamo un bordello ben organizzato o una società di persone responsabili?».
Sulla questione del controllo delle nascite c’è stata un’aspra contrapposizione tra governo e chiesa peruviana. Che può dire al riguardo?
«Prima di tutto nessuno ha ancora dimostrato che la terra non ha sufficienti risorse per sfamare l’umanità e sufficiente spazio per ospitarla. A parte questo, io mi chiedo: il maschio è un essere umano o un animale? La politica del controllo delle nascite dimostra che non abbiamo forza di volontà, non crediamo nei sacramenti, non rispettiamo le nostre spose, non crediamo nei valori. Le metodologie per il controllo delle nascite, indicate dalla chiesa, sono molto difficili perché sono uno stile di vita matrimoniale e familiare. Non sono semplicemente un metodo che si limita a dire “oggi sì, domani no”, capisce?».
A volte la gente si lamenta per il suo linguaggio…
«Io mi sforzo e mi sforzerò di essere più moderato e blando nel mio modo di esprimermi. Il fatto è che sento di scontrarmi con un nemico, in parte col demonio. Sento che la coscienza si sveglia soltanto quando ascolta una parola ferma e forte.

Le posso comunque assicurare che l’affetto della gente nei miei confronti è grande. Lo vedo quando ogni settimana visito le parrocchie. Le persone si avvicinano perché io le tocchi e dicono: “Sarà duro, ma questa persona ci difende e dice la verità”. Per questo mi apprezzano. Il loro è un affetto che ogni volta mi sorprende».

FUJIMORI? UN GRANDE LAVORATORE
Nonostante i contrasti sulle tematiche della pianificazione familiare, si dice che lei sia molto amico di Fujimori…
«Evidentemente lo conosco dai tempi di Ayacucho. Allora ci trovammo d’accordo sul problema del terrorismo. Fujimori considerava la pace il primo obbligo dello stato. E anch’io, da arcivescovo, vedevo la pace come un valore essenziale per poter evangelizzare. Fujimori ha avuto, per lo meno con me, la capacità di dialogare, anche se abbiamo avuto serie divergenze, ad esempio sulla politica demografica».
Qual è la sua opinione sui 10 anni di governo fujimorista?
«Fujimori è un uomo che ha lavorato moltissimo. In Perù si è ottenuto un maggior clima di pace e una gestione più onesta dell’economia. Il costo è stato altissimo, ma chi aveva un’altra formula? Non tocca a me giudicare il suo governo. A conti fatti, però, io credo che il saldo sia positivo. Questo era un inferno».

DIRITTI UMANI. E L’ABORTO?
Lei ha avuto una forte polemica con le organizzazioni per i diritti umani. Sinceramente, secondo lei, questi sono rispettati in Perù?
«Quando io parlo di diritti umani, intendo i diritti di una persona che è stata creata a immagine e somiglianza di Dio e che, pertanto, merita tutto il rispetto riservato a ognuno di noi. I diritti umani sono un problema attuale, ma sono stati ridotti a diritti politici, normalmente con riferimento ai terroristi. Che dire del diritto all’educazione religiosa, a un vincolo stabile nel matrimonio, al lavoro, alla libertà d’espressione, alla sicurezza cittadina, all’intimità, alla dignità? Questi diritti non li difende nessuno. Quando lei parla di diritti umani, si riferisce soltanto a diritti politici?».
Nel termine diritti umani io includo, come lei giustamente ha sottolineato, una serie di diritti: al lavoro, alla libertà di espressione, a muoversi, a credere. Sì, intendo questo: una serie di diritti inglobati nell’essere persona…
«Ebbene, in questa visione ampia dei diritti umani, io direi che nel Perù c’è, ragionevolmente, una politica di diritti umani che permette di abitare il paese. Sono un po’ stanco di coloro che ci chiedono di parlare di diritti umani semplicemente per fare danno a un paese che cerca di alzare la testa».
Come il Perù?
«Certo, come il Perù».
Dunque, i diritti umani sono legati anche a questioni inteazionali….
«Chi difende i diritti umani, quando i paesi più potenti (come possono essere gli Stati Uniti) pretendono di interferire con la loro presenza nei paesi più poveri, per i propri interessi e usando una pressione economica e militare? Chi difende i diritti umani, quando un paese come l’Iraq è devastato da cima a fondo? Chi difende i diritti umani dalle multinazionali? E non è tutto qui. C’è una condanna forte e definitiva dell’aborto da parte di istituzioni mondiali come le Nazioni Unite, Amnesty Inteational o la Commissione interamericana per i diritti umani? Io non l’ho sentita».
Contro l’aborto?
«Si stupisce? Io non vedo peggior assassinio di una creatura non nata. Si tratta di milioni di assassinati. Chi li difende?».

ROMA… PUO’ ATTENDERE
Lei pensa che un giorno o l’altro andrà a Roma? Al Vaticano, intendo…
«Credo con franchezza che mi piacerebbe restare in Perù per tutta la vita. Ho un enorme amore per il papa e la Santa Sede, ma credo che il mio paese abbia bisogno di me qui. Spero che sia così».

Paolo Moiola




Le multinazionali all’assalto del mondo

«Chiquita», la multinazionale statunitense delle banane,
è riuscita a mettere in crisi l’Unione europea. I sostenitori di un sistema
fatto a misura di multinazionali affermano:
meno vincoli statali significa più libertà e di conseguenza più benessere per tutti. Ma questo proclama neoliberista crolla davanti ai fatti:
disoccupazione crescente nei paesi industrializzati, condizioni lavorative
indegne nei paesi poveri. E tutto mentre i mercati finanziari sono drogati
dalla speculazione e il cancro del debito avvelena il mondo.

C hi comanda oggi nel mondo? La risposta è chiara: comandano le multinazionali.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionali tutte le imprese che detengono la proprietà di altre società dislocate all’estero. Per cui basta che una azienda ne possegga un’altra al di là dei confini nazionali ed è classificata come multinazionale. Le multinazionali censite nel mondo sono oltre 40 mila; forse oggi sono diventate 50 o 60 mila. Il loro numero va crescendo. La quantità di imprese che esse controllano si aggira intorno a 400 mila.
Ma, detto questo, si rischia di essere portati fuori strada, perché le multinazionali che contano davvero non arrivano a 600; qualcuno dice addirittura che non giungono a 200. Si stima che 500 multinazionali siano responsabili del 25% del prodotto lordo mondiale; quindi il potere economico si sta concentrando sempre di più nelle mani di poche strutture.
Va data anche un’altra definizione di multinazionale, legata alle dimensioni: le multinazionali sono enormi; sono così grandi che nessuna nazione contiene un numero di consumatori sufficienti ad assorbire i loro prodotti.
Si pensi a Coca Cola, Nike, Reabock, Philips Morris, Nestlé e tante altre. Ebbene, per tutte queste imprese, i confini di casa loro sono troppo stretti. Di qui la necessità di espandersi a livello mondiale, di qui la globalizzazione.
INTERESSI COMMERCIALI E LIBERTÀ DI PROFITTO
La globalizzazione è nata perché le imprese affermatesi sono multinazionali. Noi non siamo dentro ad una globalizzazione qualsiasi, ma ad una globalizzazione che ha connotati precisi, per servire interessi precisi.
Il primo interesse è commerciale: la commercializzazione dei prodotti in ogni angolo del mondo; la libertà di collocare le merci ovunque, sia a New York che a Kathmandù, a Hong Kong come in qualsiasi altro paese.
La seconda libertà che le multinazionali rivendicano è di poter trasformare ogni risorsa naturale in merce. Che si tratti di legname tropicale, minerali, petrolio o qualsiasi altra risorsa con un ruolo fondamentale per i meccanismi vitali del pianeta, ebbene le imprese multinazionali rivendicano il diritto di trasformare le risorse in merce. Vale a dire di sfruttarle, di poterle esaurire pur di ottenere dei profitti.
La terza libertà, rivendicata dalle imprese a livello mondiale, è di usare qualsiasi tecnologia, non ultima quella che scardina i meccanismi intimi della vita. Ecco allora le biotecnologie, gli organismi geneticamente modificati, la clonazione dell’essere umano.
Per ottenere questo, le imprese hanno bisogno che gli stati si mettano d’accordo su trattati precisi che garantiscano il liberismo.
PER UN MONDO SENZA OSTACOLI
Esistono alcuni organismi importanti (come l’Organizzazione mondiale del commercio), che si muovono secondo due logiche di fondo.
In primis affermano che il commercio è al di sopra di tutto. Quindi si comincia ad affermare l’egemonia del commercio sopra ogni valore sociale e ambientale. Questa è la nuova dottrina che si sta tentando in tutti i modi di affermare all’inizio del terzo millennio.
La seconda strategia è quella di fare in modo che gli stati perdano sempre di più potere.
Le multinazionali hanno bisogno di un mondo senza ostacoli. Hanno bisogno che gli stati non solo perdano la possibilità di legiferare, in modo da sottoporre gli interessi collettivi a quelli commerciali, ma addirittura che gli stati cancellino le leggi che antepongono gli interessi sociali a quelli commerciali.
Di qui l’importanza di un meccanismo giudicante nell’Organizzazione mondiale del commercio. Esso interviene qualora gli stati membri pensino che altri stiano ledendo gli interessi di una loro multinazionale. Ci sono esempi concreti.
Recentemente l’Unione europea è stata portata in giudizio dal governo degli Stati Uniti a causa di una regolamentazione nel settore delle banane. La regolamentazione europea non ledeva gli interessi degli Stati Uniti (giacché essi non sono un esportatore di banane), bensì quelli della Chiquita, che è una multinazionale di origine statunitense.
L’Unione europea è stata trascinata in giudizio e condannata. Essa si è trovata di fronte a due scelte: o mantenere la sua regolamentazione e accettare di essere sottoposta a ritorsioni commerciali equivalenti al danno inflitto a Chiquita, oppure cancellare la regolamentazione e fae un’altra.
Ovviamente l’Unione europea ha scelto la seconda strada.
LA GLOBALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Con la globalizzazione commerciale, si è sviluppata anche una globalizzazione produttiva: il mondo intero, cioè, si sta trasformando in un unico villaggio produttivo. Questo perché le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta.
Esse hanno scoperto che il mondo è vasto da un punto di vista geografico e demografico (siamo oltre 6 miliardi di individui), ma il numero di persone con la possibilità di comprare, all’interno del mercato mondiale, è piccolo.
In altre parole, i consumatori che hanno soldi sufficienti, per comprare ciò che il sistema produttivo (altamente tecnologico) mette sul mercato, sono molto scarsi. Il loro numero non va oltre il 30-35% della popolazione mondiale. Insomma, il numero degli «eletti» è molto piccolo. Tutti gli altri sono stati esclusi a causa di cinque secoli di colonialismo, che hanno creato una massa di poveri enorme.
Non dobbiamo dimenticare che un miliardo e mezzo di persone vive in povertà assoluta: sono quelle che vivono con meno di un dollaro al giorno. I poveri assoluti sono coloro che campano nella precarietà massima, che dormono di notte sui marciapiedi e si alzano al mattino con la loro famiglia senza sapere se mangeranno un piatto di minestra durante il giorno; non sanno se troveranno il lavoro che gli permetterà di guadagnare quel famoso dollaro al giorno. Non riescono ad offrire ai loro figli la possibilità di andare a scuola, tanto meno di comprare una medicina o di entrare in un ospedale. Non riusciranno mai a garantire a se stessi neanche l’acqua potabile.
È veramente uno scandalo enorme, che grida contro di noi e il nostro sistema economico.
Ebbene tutto questo si sta ritorcendo contro. In un mondo squilibrato, con grandi sacche di povertà, i nodi sono venuti al pettine.
PER LA DIMINUZIONE DEI COSTI
In un mercato con pochi acquirenti e tanti venditori, si scatena una concorrenza feroce tra le imprese, per strapparsi i clienti a vicenda.
Osserviamo i mercanti che vanno alla fiera del mattino. Essi pensano di essere in pochi a mettere la propria bancarella in una piazza, dove passeranno tanti clienti facoltosi; invece scoprono che le bancarelle sono molte e che la gente è tanta, ma la maggior parte è stracciona e non ha la possibilità di comprare.
Allora… con un megafono enorme si cerca di richiamare l’attenzione dei passanti. Ecco la pubblicità che incalza e assume tante forme.
Non è solo pubblicità quella in televisione o sui giornali. La pubblicità è sempre più strisciante e subdola, con numerose sponsorizzazioni: non solo sportive, ma anche sociali. Sono tantissime le società che cercano di associare al loro marchio anche entità che si contraddistinguono per la propria finalità sociale. Perfino l’Unicef si fa sponsorizzare dalle imprese!
E le imprese non fanno nulla gratuitamente. Esse non conoscono il verbo «regalare». Le imprese danno quando sanno che il ritorno è il doppio o triplo.
E, siccome sanno di essere in una società dove la sensibilità dei consumatori per alcuni problemi va crescendo, accettano volentieri di associare il loro nome a quello di enti caritatevoli. Questo perché gli farà avere un ritorno di immagine, che riuscirà ad aumentare le loro vendite.
Dopo la pubblicità, la seconda strategia per vendere è legata ai prezzi. Basta che un prodotto costi una lira di meno per attirare subito i consumatori. Poi si fanno altre valutazioni; però quella del prezzo è fondamentale.
Poiché la concorrenza è feroce, i prezzi diminuiscono: questa è una delle vie per accaparrarsi i clienti. Ma se i prezzi diminuiscono, diminuiscono pure i ricavi e i profitti. Allora bisogna trovare altre strategie che facciano sì che i guadagni rimangano stazionari o, addirittura, aumentino.
A tale scopo, le imprese si sono impegnate a diminuire «altri» costi di produzione: come al solito, ciò che ha attirato la loro attenzione è stato il mondo del lavoro. Le strategie per diminuire i costi del lavoro sono tante. Una fra tutte: la sostituzione dell’uomo con la macchina. La disoccupazione odiea è sostanzialmente tecnologica.
Si è instaurata anche un’altra strategia, soprattutto nei settori che ricorrono ancora alla manovalanza. Essa consiste nel trasferire la produzione in quelle parti del mondo dove la gente, a causa di una povertà secolare, accetta di lavorare per un tozzo di pane.
È cominciato il trasferimento della produzione in paesi come la Corea del sud, Taiwan. Poi, quando tali paesi hanno raggiunto un certo standard di vita, sono state chiuse le fabbriche là, per trasferire la produzione in Indonesia, Thailandia… E, quando anche in queste nazioni, i lavoratori reclameranno migliori condizioni di lavoro, là pure si chiuderanno le fabbriche per trasferirsi in altre parti del mondo.
Già oggi si vedono nuovi paesi di approdo, come il Vietnam e la Cina. Anche l’Africa comincia a richiamare questo tipo di produzioni. Il processo di trasferimento della produzione è continuo.
Nelle loro fabbriche di scarpe, tessili e giocattoli le condizioni di lavoro sono facilmente immaginabili: i salari sono tanto infami che non riescono neanche a garantire il soddisfacimento dei bisogni primari. In Indonesia i salari delle ragazze che lavorano nelle fabbriche di scarpe coprono a mala pena il 70% del loro fabbisogno di base.
Ci sono poi orari di lavoro lunghissimi, per tentare di guadagnare qualche spicciolo in più. Le libertà sindacali sono inesistenti e, dulcis in fundo, si diffonde il lavoro minorile, che è un compenso a situazioni in cui gli adulti non guadagnano abbastanza. In alcuni casi il lavoro minorile si trasforma in schiavitù, come ad esempio nella produzione di tappeti in India o Nepal.
La globalizzazione produttiva sta portando le condizioni di lavoro sempre di più verso il basso. Lo si vede chiaramente in Asia e America centrale. Ma anche i nostri paesi sono trascinati in questo abisso.
L’ACCORDO SUGLI INVESTIMENTI
L’esigenza di produrre in ogni parte del mondo ha spinto le multinazionali ad ottenere una regolamentazione che, ancora una volta, riconoscesse loro tutti i diritti e nessun dovere: diritti di entrare in ogni paese e di uscie, quando ne sentivano il bisogno, senza alcun obbligo nei confronti della collettività o del governo; addirittura il diritto di un trattamento migliore di quello garantito alle imprese nazionali.
Questi diritti facevano parte del famigerato «accordo sugli investimenti», che per fortuna non è passato. Si è tentato il colpo in segreto a Parigi, all’interno dell’Ocse, affinché l’economia sia gestita sempre di più in maniera liberista. Dopo cinque anni, finalmente, qualcuno ha avvistato i pericoli; e, pur facendo parte della delegazione ufficiale, ha tirato fuori la notizia e l’ha data in pasto ad alcune organizzazioni non governative.
Il clamore suscitato è stato tale che il governo francese si è ritirato, facendo crollare tutta la costruzione.
Nell’accordo c’era una clausola, legata agli espropri, che diceva: le multinazionali, che investono in un paese estero, hanno il diritto di essere rimborsate ogni qual volta vengano espropriate di attività, terre o fabbriche; non solo, hanno diritto di essere risarcite anche nel caso in cui uno stato emani una legge che, in qualche modo, comprometta le possibilità dell’impresa di vendite future.
Che cosa significa? Se una fabbrica produce una sostanza chimica dannosa e viene promulgata una legge che la proibisce, la fabbrica può fare i conti di quanto avrebbe guadagnato nei prossimi dieci anni e spedire il conto allo stato!
Non sono cose campate per aria, perché nel Nord America, all’interno dell’accordo del Nafta (stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico), questa clausola esiste già. Il Canada è già stato portato in giudizio per un fatto del genere. Siccome intravvedeva la possibilità di essere condannato, è arrivato a patti con l’impresa che l’aveva citato in giudizio e ha pagato 13 milioni di dollari pur di chiudere il caso.
Siamo di fronte ad una situazione in cui tutto il potere è delle imprese, e le nazioni (vale a dire la gente) hanno soltanto doveri: doveri persino di risarcire le multinazionali anche del loro mancato guadagno.
IL DEBITO
Accanto alla globalizzazione produttiva e commerciale, c’è la globalizzazione finanziaria, incominciata 30 anni fa con il fenomeno del debito dei paesi poveri.
Esso nacque perché le banche inteazionali si trovavano con una grande quantità di denaro, derivante soprattutto dai guadagni degli emiri arabi con il rincaro del petrolio. Le banche non sapevano che fare dei petrodollari, perché Europa, Stati Uniti e l’intero mondo industrializzato stavano attraversando un periodo di recessione.
Le banche, non sapendo dove collocare il denaro (esse guadagnano solo se collocano i depositi che ricevono), hanno cominciato a offrire soldi a condizioni agevolate ai governanti del Sud del mondo, prospettandogli la possibilità di usarlo per i loro sogni. Purtroppo non erano sogni che miglioravano le condizioni di vita della gente; anzi, quasi sempre erano sogni volti a rafforzare il potere personale e gli eserciti dei dittatori sparsi nel mondo.
Poi una quantità di soldi è stata sprecata per realizzare «cattedrali nel deserto», progetti che non avrebbero prodotto niente, ma che servivano esclusivamente per fornire appalti alle imprese del Nord. E queste ricompensano i governanti con laute bustarelle, alimentando una paurosa corruzione.
Il debito scellerato non è stato contratto per consentire alla gente di vivere meglio, per fare investimenti produttivi e sociali, ma per rafforzare posizioni di potere.
Intanto, finita la fase dei tassi agevolati, gli interessi sui prestiti hanno incominciato a salire. Il debito è cresciuto a dismisura. I paesi, non riuscendo a pagare le rate, sono stati costretti a chiedere altri prestiti e il debito è aumentato come una valanga. Oggi siamo arrivati a circa 2.500 miliardi di dollari di debito complessivo.
Ogni anno i paesi del Sud versano alle casse del Nord qualcosa circa 290 miliardi di dollari: sono sudore della gente, sono materie prime che passano gratuitamente dal Sud verso il Nord, anno dopo anno.
Se si vuole guadagnare da un paese, basta indebitarlo. Il debito è un meccanismo scientifico, studiato a tavolino, proprio per avere un travaso di risorse dal Sud verso il Nord.
IL RICATTO DELLE ISTITUZIONI
La scelleratezza è diventata via via più immane. Le istituzioni inteazionali concedevano nuovi prestiti ai paesi indebitati, ponendo condizioni ben precise: «Noi ti diamo un ennesimo prestito, a patto che tu ristrutturi l’economia nazionale esclusivamente per ripagare il debito».
La logica che sta sotto è semplice. Cosa chiede una persona a un suo debitore? Di lavorare tanto e tirare la cinghia, in modo che egli avanzi una quantità sufficiente di risorse per restituire il debito. È questa la logica che applica il Fondo monetario internazionale.
Non c’è niente di complicato quando si parla di «aggiustamento strutturale» dell’economia per favorire il pagamento del debito. In base a questa logica, i paesi del Sud sono spronati a fare sempre di più man bassa delle loro risorse, a sfruttare maggiormente il lavoro dei loro popoli, a orientare la loro economia verso l’esportazione. Infatti solo così si procurano i dollari per restituire il debito.
Il meccanismo infeale implica, nel contempo, una drastica riduzione dei bilanci pubblici: meno fondi per il pubblico significa più soldi per ripagare il debito. Ecco, allora, che vengono tagliati i sussidi a sanità, istruzione, alimentazione: insomma tutte le spese sociali.
Sicuramente, però, i risparmi non vengono fatti sulle spese destinate agli armamenti, che (guarda caso) si comprano da noi.
Questa è la logica dell’«aggiustamento strutturale». Oggi la gente del Sud del mondo sta morendo, intrappolata nel sistema diabolico descritto.
LA SPECULAZIONE FA MALE AI LAVORATORI
Nell’ambito della globalizzazione finanziaria trova sempre di più spazio la speculazione sui cambi delle valute e sul valore dei titoli.
La finanza sta andando in questa direzione per due ragioni. In primo luogo, perché i tassi di interessi sono diminuiti considerevolmente e, di conseguenza, non c’è più stimolo a depositare il denaro in banca o acquistare titoli di stato.
L’altra ragione è che si stanno rafforzando nuove istituzioni finanziarie, ancora una volta legate alle scelte liberiste dei governi. Quanto più lo stato rinuncia al suo compito in ambito sociale, tanto più esso viene assorbito da istituzioni private che, naturalmente, hanno bisogno di guadagnare. Si tratta, in particolare, di società che gestiscono i fondi pensione e delle assicurazioni.
Poiché le istituzioni private devono mostrare ai loro clienti che sanno far fruttare i soldi, mettono in atto strategie che puntano al profitto immediato. Un miliardo e mezzo di dollari transita ogni giorno da un computer all’altro per tentare di guadagnare sulle variazioni delle valute straniere e sul valore dei titoli azionari!
Due anni fa, in Thailandia, la borsa crollò del 10-15% dall’oggi al domani, mettendo in moto un processo di recessione che provocò il licenziamento di migliaia di persone. Occorre essere più consapevoli del fatto che l’economia finanziaria si ripercuote su quella reale. Dunque, sulla vita quotidiana della gente comune.

Francesco Gesualdi




ISRAELE – Un’oasi di pace per la pace

Bruno Hussar, ingegnere ed esperto nel costruire ponti,s’accorge che in Israele i collegamenti più importantiriguardano i popoli e le religioni.
Sogna e realizza l’«oasi di pace». In silenzio.

M itròvitza, città simbolo degli ostacoli ad una pacificazione fra serbi e albanesi del Kosovo: pacificazione che pare difficile se non impossibile. Un fiume divide le due comunità in lotta. Un ponte, che dovrebbe unire le sponde, è in realtà luogo di scontro fra le due entità etniche, con le truppe del Kfor che fanno da… «terzo» fra i due litiganti.
Nella parte nord di Mitròvitza (il settore serbo) scoppia un grosso incendio, uno dei tanti. I vigili del fuoco serbi sono in seria difficoltà. I colleghi albanesi del settore sud partono per dare una mano. Passato il ponte, sono fatti oggetto di insulti e sassaiole da parte dei serbi. Nulla di strano, purtroppo! Siamo abituati a simili racconti balcanici.
IL SOGNO DI ISAIA
Dai Balcani (e capiremo presto il perché) spostiamoci in Israele.
Il Medio Oriente è un’altra zona «calda», geograficamente più lontana, ma forse più vicina a noi sul piano della cultura e dei sentimenti rispetto ai territori aldilà dell’Adriatico.
Chi in Israele percorre la superstrada Tel Aviv – Gerusalemme, là dove la pianura costiera comincia a corrugarsi per diventare montagna, incontra un’area che racchiude in pochi chilometri quadrati alcune testimonianze di un passato plurimillenario:
– il biblico Tel Gèzer, traccia dell’antichissima città cananea portata in dote dalla figlia del Faraone allo sposo Salomone, figlio di Davide;
– le colonne e l’abside della grande basilica costantiniana di Emmaus Nicopoli, distrutta nel V secolo da un’incursione samaritana;
– le rovine della fortezza di Toròn, simbolo dell’orgoglio dei crociati in Outremer;
– l’abbazia di Latrùn, teatro con il vicino fortino inglese di terribili scontri nella guerra del 1948-49 fra la haganah (1) ebraica e le agguerrite truppe transgiordane.
Oggi l’abbazia è ritornata al silenzio, alla preghiera e al lavoro di una comunità trappista che ne aveva cura anche in passato. E, proprio sui terreni dell’abbazia, in cima ad un’altura, sorge un villaggio. È costituito da una manciata di case bianche ed è simile ai kibbùtz e moshàv (2) che costellano la pianura e le colline d’intorno.
Il villaggio ricorda al visitatore che un sogno può realizzarsi e che la pace è possibile. Si chiama Nevè shalom/Wahat as-salam, ossia «oasi di pace», rispettivamente in lingua ebraica e araba. Non lontano, nel secolo VIII a. C., il profeta Isaia sognò il giorno in cui «il popolo abiterà in una dimora di pace» (Is 32, 18).
È stato pure il sogno di Bruno Hussar, nato nel 1913 in Egitto e morto in Israele tre anni orsono.
Figlio di genitori ebrei, cittadino austrungarico prima, poi italiano, francese e infine israeliano, Bruno è un ingegnere. Vissuto nell’agnosticismo fino all’adolescenza e chiamato alla fede cattolica in età ormai adulta, alla vita religiosa e al sacerdozio, lui, ebreo inconscio, riscopre la propria ebraicità quando è frate domenicano e prete in terra di Israele tra i suoi fratelli.
La volontà di riconciliazione fra nemici gli fa creare Nevè shalom/ Wahat as-salam. Oggi nel villaggio abitano e lavorano insieme, da 30 anni, famiglie di ebrei, musulmani e cristiani.
La «pace possibile» è fra ebrei ed arabi, impegnati in un conflitto sanguinoso, ancorché dalle radici recenti. È però anche, in senso generale, la pace fra uomo e uomo in tutte le situazioni di conflitto armato o ideologico, anche là dove le radici del male affondano nei secoli, come nell’Irlanda del Nord e in quella che fino a ieri si chiamava Jugoslavia.
A SCUOLA DI PACE
La comunità di Nevè shalom/ Wahat as-salam «vive in pace» nella diversità dei propri membri, che condividono giornie, dolori, feste e preoccupazioni; essa inoltre lavora per la pace con un’apposita «scuola», in funzione da anni all’interno del villaggio. È una iniziativa che promuove la conoscenza approfondita fra gli studenti (ebrei ed arabi) delle ultime classi delle superiori di Israele, incontri di insegnanti e docenti universitari locali.
Ora la scuola ha allargato la propria attività ai territori dell’Autonomia palestinese. Si contano 280 presenze agli incontri tra giovani israeliani e palestinesi, organizzati in collaborazione con centri culturali e promotori di pace; 80 incontri con gli studenti dei territori palestinesi.
Fuori dell’ambiente scolastico, nel 1999 si è tenuto anche un corso per donne arabe ed ebree, organizzato con la Scuola di servizi sociali dell’università di Tel Aviv, con ben 90 presenze. Circa 700 adulti (giornalisti, funzionari, universitari) delle due etnie hanno partecipato a corsi e seminari.
L’esperienza ed attività di Nevè shalom/Wahat as-salam si sono estese negli anni ad altre aree di conflitto: ad esempio, nell’Irlanda del Nord e in Bosnia.
Al presente la comunità è chiamata ad operare (possiamo immaginare con quali difficoltà) proprio in Kosovo, a Mitròvitza. L’invito è giunto dal sindaco, proprio in conseguenza dell’episodio dei vigili del fuoco presi a sassate. Occorre stabilire, mediante tecniche di contatto già collaudate in Israele, un dialogo fra le due etnie lacerate dal risentimento e dalla paura.
UN INGEGNERE SPECIALE
Nevè shalom/Wahat as-salam è l’ultima e più nota realizzazione di padre Bruno. Oggi la comunità è avviata ad una crescita notevole. Lo scopo è di raggiungere i 160 nuclei familiari e le candidature di ebrei ed arabi non mancano.
Di recente nubi minacciose hanno oscurato l’orizzonte del villaggio: da un lato, i monaci di Latrùn avevano ricevuto disposizioni superiori di alienare una parte dei terreni dell’abbazia, compresi quelli affittati a Nevè shalom/Wahat as-salam; dall’altro, si stava attuando il progetto di costruire nelle immediate vicinanze due grandi insediamenti ebraici, che avrebbero alterato (se non demolito) la peculiarità della comunità.
La Provvidenza, per intercessione del «fratello Bruno», sulla cui assistenza i membri della comunità non hanno dubbi, ha fatto sì che le cose andassero diversamente. L’abbazia ha donato al villaggio buona parte dei terreni che occupa e… i progetti d’insediamento sono tramontati.
Nel corso della sua vita in Israele, padre Bruno ha portato avanti, per quasi mezzo secolo, la vocazione di costruttore di ponti fra le religioni, le culture e i cuori. «Sono ingegnere – diceva – e come tale ho imparato a costruire ponti. Ora sono chiamato a lanciare ponti fra gli uomini».
Durante il Concilio ecumenico Vaticano II, aveva promosso il dialogo fra cristiani ed ebrei e l’abbattimento del muro millenario costituito dalla «teologia del disprezzo», mentre alle Nazioni Unite aveva difeso i diritti del popolo d’Israele.
Padre Bruno non ha mai tentato di convertire musulmani o ebrei. Invece, per iniziativa del frate, la comunità giudeo-cristiana in Israele, che con mille difficoltà porta avanti un’ardua convivenza fra il proprio ebraismo e la fede cristiana, conta oggi centri di ritrovo in diverse città del paese, assistenza religiosa, nonché una sua liturgia in ebraico. Sono poche centinaia di fedeli: vivono il loro credo in semiclandestinità.
Ma sono un segno dei tempi nuovi, un seme per la riappropriazione, da parte del popolo ebraico (nel rispetto della propria cultura e religione) della persona e dell’insegnamento di Gesù di Nazaret. E, forse, preludono a qualcosa di più grande, se è nei disegni di Dio.
UN INVITO NEL 2000
Nevè shalom/Wahat as-salam è tutt’altro che un idillio. Le difficoltà fra ebrei, cristiani e musulmani permangono, come pure le tensioni fra le etnie. I ragazzi ebrei sono chiamati alle armi e si sentono impegnati a rispondere alla leva, anche se con dei dubbi. I coetanei arabi, compagni di gioco, studio e lavoro, li vedono allontanarsi con preoccupazione e, da parte loro, subiscono il richiamo dell’appartenenza al loro popolo, diviso fra Israele e territori dell’Autonomia palestinese. Sono tensioni forti, che non si dissolvono da sole, ma vengono risolte giorno per giorno nell’amore reciproco e nel dialogo sincero.
Il piccolo cimitero di Nevè shalom/Wahat as-salam accoglie già due tombe: quella di padre Bruno e di Tom Kitain, 23 anni, un figlio del villaggio, morto in un incidente aereo durante il servizio militare. Per contro, sbocciano nuove vite nelle famiglie arabe ed ebraiche, a mantenere viva la fede e la speranza.
Per il duemila la comunità propone a tutti di salire all’«oasi di pace» per incontrare le «pietre viventi». Lo spirito dell’invito è provocatorio, perché «Gesù di Nazaret non appartiene a nessuno: ebreo nel senso pieno del termine, egli riunisce i cristiani e appare a più riprese nel corano. Il suo messaggio è unico: l’amore fraterno e il servizio dell’altro, la pace fra tutti gli uomini di buona volontà» (Lettera dalla Collina, 15, 1999).
È il richiamo non solo a udire il racconto delle «pietre viventi», ma anche a porsi in ascolto del proprio silenzio, cioè dumìah.
Dumìah (termine ebraico che significa silenzio) è l’unico edificio sacro del villaggio, voluto da Bruno Hussar e dai membri della comunità; è un emisfero bianco, spoglio, modesto di dimensione, punto di preghiera silenziosa e meditazione per ebrei, cristiani, musulmani e agnostici.
Nevè shalom/Wahat as-salam, anomalo kibbùtz nato come utopia e vissuto come miracolo, opera per la pace, che non è solo silenzio di armi, ma fratellanza di cuori, somma di ogni benedizione che solo la parola shalom/salam riesce a contenere: tocca le nazioni, ma parte dallo slancio di tutti, nutrito di profondo silenzio interiore. Dumìah appunto.
1) Haganah: esercito ebraico, formatosi durante il Mandato britannico, precursore dell’odiea Forza di difesa di Israele (IDF).
2) Kibbùtz e moshàv: insediamenti di gruppi israeliani a forma di cornoperativa; nel kibbùtz i beni sono in comune.

Guido Angela




MOZAMBICO – E il mare si è ripreso il sale

Quasi un milione le persone colpite da inondazioni. Piogge torrenziali e dighe aperte nei paesi confinanti le cause del disastro. Ingenti i danni materiali.
Incalcolabile il numero delle vittime. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria.
E c’è il colera. Travolta anche la missione
di Mambone, dove opera padre Marchiol,
la persona più ricercata dai giornalisti italiani durante l’alluvione. Ora che i giornalisti
se ne sono andati, con i senza-tetto
sono rimasti i missionari e volontari.

Un parto sull’albero

Maputo, capitale del Mozambico. La stagione delle piogge arriva puntuale. Ma, quest’anno, si capisce subito che sta succedendo qualcosa di speciale.
Le prime voci arrivano dal Sudafrica. Enormi pianure si stanno allagando; l’acqua sembra decisa a travolgere tutto con una forza inaudita. Di più: i meternorologi preannunciano l’arrivo di un ciclone; e il ciclone arriva.
In Europa nessuno sa ancora che cosa si stia abbattendo sul Mozambico. Da Maputo arrivano i primi messaggi di allarme: sono telefonate, notizie confuse. Si sa che nella capitale quasi tutto è allagato, l’elettricità è andata in tilt per giorni, il traffico è paralizzato e la popolazione cerca di cavarsela come può. Però nessuno si rende ben conto di quello che sta accadendo.
Un pomeriggio incomincia a soffiare un vento impetuoso: le case in muratura sembrano non resistere, i vetri tremano e qualcuno si rompe, si sente il rumore delle piante che vengono sradicate e tutti cominciano ad avere paura. Il vento tremendo del ciclone dura un’intera notte, con pioggia battente. Poi il vento si placa, ma la pioggia non molla neppure per un momento.
Nella capitale si incomincia a vivere con l’acqua ovunque, cercando di fare un primo bilancio dei danni. Ed è solo a questo punto che si inizia a pensare a quello che deve essere accaduto fuori di Maputo, nelle campagne e pianure del paese attraversate dai grandi fiumi Incomati, Limpopo, Save.
È davvero un disastro. I tre grandi corsi d’acqua sono usciti dagli argini e hanno invaso le terre per chilometri. Acqua e fango non hanno risparmiato nulla: hanno travolto capanne, interi villaggi. Mandrie di bestiame e, soprattutto, tantissime persone non ce l’hanno fatta a fuggire. Il ciclone ha sorpreso molti nel sonno e l’acqua si è rovesciata violenta senza lasciare alcun scampo. Ora tutti sanno che si è consumata una tragedia.
Il governo decide di chiedere aiuto alla comunità internazionale. Il primo a rispondere è il vicino Sudafrica: con sette elicotteri i soldati sudafricani sorvolano le zone dell’inondazione e si rendono conto in fretta che li attende un lavoro immenso.
Le pianure attraversate dall’Incomati, dal Limpopo e dal Save non ci sono più. Sotto gli occhi dei militari si estendono enormi paludi: galleggiano avanzi di capanne, carcasse di animali, oggetti di ogni tipo e persino mine, residuo della recente guerra civile.
Su qualche altura, non raggiunta dall’acqua, sono radunati gruppi di persone che chiamano e chiedono aiuto. Alcuni cercano scampo su un tetto, altri tra le fronde di un albero.
Ed è proprio su un albero, in attesa di soccorsi, che nasce una bimba: si chiama Rosita Pedro, è figlia di Sofia, una donna di 23 anni. Rosita, la bimba nata tra le foglie e i rami di una grande pianta, è destinata a diventare un simbolo di speranza nel dramma che la circonda.
«Arrivano i nostri…»
Dalla notte della grande paura sono ormai passate due settimane. Solo adesso il resto del mondo decide di ascoltare il grido di aiuto del Mozambico. Sono trascorsi 15 giorni, durante i quali i più deboli non sono sopravvissuti e molti hanno perso tutto, forse anche la speranza.
Tra mille esitazioni e tentennamenti, alla fine la comunità internazionale decide di scendere in campo per dare una mano alla gente del Mozambico. Però in loco, accanto alla popolazione, erano già all’opera i missionari e pochissime organizzazioni umanitarie, per combattere contro la forza del ciclone.
Dunque, la grande macchina degli aiuti si mette in moto. Arrivano 700 uomini dagli Stati Uniti, elicotteri delle Forze speciali britanniche, aerei cargo e soldati tedeschi, velivoli portoghesi e spagnoli. Ci sono tutti, compresi gli italiani. Gli addetti del Programma mondiale per l’alimentazione, la Croce Rossa e i Medici senza frontiere c’erano già. Ora anche i missionari, che vivono nelle regioni del disastro, si sentono un po’ meno soli.
Gli elicotteri dei soccorsi compiono tui massacranti; volano 10-12 ore al giorno in una disperata lotta contro il tempo, cercando di recuperare le ore e i giorni perduti in precedenza. Per molti piloti e i loro assistenti è il primo impatto con l’Africa. Per qualcuno è uno shock.
Le operazioni sono tutte per mettere in salvo la popolazione. Poi, poco per volta, incomincia la distribuzione di cibo fra i senza casa, raccolti in campi allestiti un po’ ovunque. La gente nel frattempo si raduna sulle terre più alte, quelle meno inondate, e lì le organizzazioni umanitarie attendono alla distribuzione di aiuti.
L’EMERGENZA A MAMBONE
Il ciclone arriva a Mambone violento, senza preavviso, come nel resto del Mozambico. Dopo una notte passata ad ascoltare la furia del vento che sembra voler spazzare via ogni cosa, padre Amadio Marchiol, fratel Pietro Bertoni e le suore pallottine credono che sia tutto finito, che sia tornata la calma. Invece il peggio deve ancora venire.
La mattina seguente, la pioggia continua ad aumentare. Ad un certo punto l’acqua comincia ad invadere tutto: non è più solo pioggia; sono le acque del fiume Save che, rotti gli argini, invadono l’intera pianura.
Sotto la pioggia battente giungono alla missione decine di persone, poi centinaia. Tutti raccontano la stessa storia: l’acqua ha travolto le loro case, i loro animali, le loro cose, tutto. Sono scappati verso le terre più alte, sono arrivati alla missione in cerca di un rifugio, un riparo.
Nel giro di poche ore Mambone si trasforma in un campo di accoglienza. La chiesa diventa dormitorio, dove i missionari della Consolata e le suore pallottine fanno riposare le donne, i vecchi e bambini. Ma non c’è cibo a sufficienza per tutti e, fuori, continua maledettamente a piovere.
Padre Marchiol usa il suo telefono satellitare per lanciare grida di aiuto. Chiama l’Italia, chiama i confratelli a Maputo. Ora le persone da sfamare sono migliaia. Non c’è tempo da perdere. Sopraggiungono a dare una mano preziosa tre missionarie della Consolata: Josenilde, Jane, Salome.
In attesa di aiuti alimentari, le scorte di cibo vengono razionate: un pugno di riso per famiglia, qualche biscotto per i bambini. Le ore passano lente, interminabili. Smettesse almeno di piovere! Trascorrono giorni interi. Finalmente la prima schiarita!
Quando spunta il sole, giungono anche gli elicotteri che trasportano riso, pappe per i neonati e medicinali. È l’indispensabile per superare l’emergenza.
Intanto la gente che ha lasciato i villaggi è sempre alla missione, con padre Marchiol e gli altri missionari, e racconta. Ognuno manifesta la sua immensa paura; qualcuno si interroga sul destino di quelli che ha perso di vista. Altri invece sono travolti dalla tragedia.
C’è una madre che si è vista strappare dalla corrente limacciosa i suoi tre figli. Continua a fissare il vuoto. Nulla è in grado di consolarla. I missionari l’avvicinano, tentano di parlarle; lei sembra non udire, come se la sua mente fosse rimasta altrove.
Ma né padre Amadio, né fratel Pietro, né le missionarie possono fermarsi. Il lavoro da fare è moltissimo. Tanta la gente da aiutare. Ora bisogna ricominciare da zero.
Il ciclone ha cancellato il frutto di anni di lavoro, distruggendo la salina che i missionari avevano costruito e che dava lavoro a una cinquantina di persone. Nei capannoni giacevano 2 mila tonnellate di sale… ora ritornate in mare. E con il sale se n’è andata anche la possibilità di aiutare chi veramente ha bisogno. Per i missionari e la popolazione il sale era diventato la principale fonte di reddito.
Due mesi dopo
Dopo circa due mesi dalla grande alluvione, la strada per raggiungere Mambone è stata riaperta. Ora gli aiuti possono arrivare regolarmente via terra. In quasi tutto il Mozambico sono stati ripristinati i collegamenti principali e la «ricostruzione» è faticosamente cominciata.
Una sola è la vera grande paura dei mozambicani e di chi lavora con loro: finire nel dimenticatornio, scomparire dalle pagine dei giornali. Se questo accadesse, allora il ciclone avrebbe vinto davvero.

(*) Monica Maggioni, giornalista Rai – Tg 1 , ha visitato il Mozambico durante l’alluvione.

C’E’ PURE CHI PESCA NEL TORBIDO

I l 23 febbraio scorso, mentre l’aereo si stava preparando ad atterrare, dai finestrini vedevo intere zone allagate. Era difficile distinguere dove finiva la terraferma e dove incominciava il mare: solo il tetto delle abitazioni e le fronde degli alberi (che sembravano cespugli) mi lasciavano intuire che ero alla periferia di Maputo.
Quello che ho visto dall’aereo era solo una piccola parte della tragedia che ha sconvolto il Mozambico nel febbraio-marzo scorso. Piogge torrenziali e, soprattutto, lo straripamento di fiumi hanno determinato allagamenti di interi villaggi.
Ma le responsabilità del disastro non sono solo atmosferiche; bisogna chiamare in causa anche il Sudafrica e lo Zimbabwe, paesi confinanti, che hanno aperto le dighe dei loro fiumi, le cui acque si sono riversate in massa in Mozambico.
Inoltre sul paese, già colpito dall’inondazione (la più grande negli ultimi 50 anni), si è abbattuto anche il ciclone «Eline», proveniente dall’Oceano Indiano. Così distruzioni si sono aggiunte a distruzioni.

L a principale strada asfaltata «AN 1», che collega Maputo al nord del paese, era allagata e interrotta in più parti. Il Mozambico, geograficamente lungo e stretto, era tagliato in due. I collegamenti si potevano effettuare solo per via aerea.
La cittadina di Xaixai, alla foce del fiume Limpopo, è stata una delle più colpite; nel centro abitato l’acqua in un’ora è salita di 1 metro e, in poco tempo, ha raggiunto il primo piano degli edifici. La cattedrale e la casa del vescovo sono state le prime ad essere allagate.
La gente non ha fatto in tempo a salvare le proprie cose. Già possono dirsi fortunati coloro che sono riusciti a salire sugli alberi e trovare rifugio dalla furia impietosa delle acque limacciose. Tante, purtroppo, le vittime. Sarà difficile conoscere il numero esatto di coloro che hanno perso la vita. Molti resteranno per sempre sepolti nel fango.
Drammatica è anche la situazione nei villaggi lungo il fiume Limpopo.

L’uragano ha travolto anche Mambone, dove lavora padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata. È un pioniere. È in Mozambico da 47 anni; neppure il sanguinoso conflitto fra Renamo e Frelimo lo aveva indotto a lasciare il paese. In questo momento di emergenza ha preso in mano la situazione e, con fratel Pietro Bertoni e tre missionarie pallottine, sta prestando i primi aiuti alle popolazioni di Mambone e delle zone limitrofe.
Ogni giorno occorre provvedere ai rifugiati che approdano alla missione in numero crescente. Mentre scrivo sono oltre 7 mila.
Nei dintorni di Mambone un numero imprecisato di persone ha trovato rifugio su alcune isole: si tratta di collinette non raggiunte dall’acqua. Anche qui la gente attende soccorso; finora è sopravvissuta con il poco granoturco che è riuscita a salvare.
La gente, divisa in piccoli gruppi, cucina su bidoni tagliati a metà e trasformati così in pentole capienti. I missionari hanno disinfettato l’acqua con pastiglie di amuchina, scongiurando per ora il pericolo di epidemie.
Da Maputo, intanto, padre Manuel Tavares è in contatto giornaliero con i missionari di Mambone e cerca di inviare aiuti in collaborazione con i confratelli di Beira, la comunità di sant’Egidio e la Caritas.
Da Beira si sta organizzando il trasporto di generi di prima necessità e di medicinali. Ma si incappa nell’apparato burocratico, che è sempre senz’anima e, in questa situazione di emergenza, appare addirittura spietato. Ed è triste… La nave, che sarebbe già dovuta partire da giorni, è ancora ferma nel porto di Beira, e non se ne conosce il motivo.

L’emergenza provocata dall’inondazione non termina solo con il salvataggio di persone e l’invio di aiuti. Infatti non si possono ignorare i danni provocati dalla piena: raccolti agricoli perduti, edifici distrutti o danneggiati, strade interrotte e, soprattutto, uno stato di precarietà per la salute delle persone. L’acqua stagnante ha quadruplicato i casi di malaria e lo spettro del colera è alle porte.
A Maputo come a Beira, è difficile reperire fagioli; pare che siano scomparsi dal mercato. Qualcuno sospetta (non a torto) che giacciano in qualche magazzino, in attesa che il loro prezzo salga.
È l’altra faccia della medaglia. Anche nelle tragedie c’è sempre qualcuno che cerca di trarre profitto, pescando nel torbido.
Che dire poi dei sacchi di riso, esposti fuori di un negozio indiano alla periferia di Maputo, con la scritta a caratteri cubitali «dono del popolo italiano al Mozambico»?
Di fronte a questo fatto curioso, qualcuno ha chiesto delle spiegazioni. Ecco la risposta: «È tutto legale. La gente non può vivere solo di riso, ma ha bisogno di una dieta equilibrata e differenziata. Allora è giusto che si sottragga un po’ di riso alla distribuzione».
Una barzelletta, un insulto, un furto?
Caterina Fassio, missionaria laica di Vercelli

Monica Maggioni