Invecchiare bene o (forse) ringiovanire

Ogni popolo ha le sue ricette.
Si ricorre persino a riti antropofagi, come a semplici cucchiai di olio e miele.
O sorsate di «sakè» in coppe d’oro, funghi, polveri…

Lo scopo principale del navigatore ed esploratore spagnolo Ponce de León (1500), nel Mare dei Caraibi, era la ricerca di una favolosa «fonte della giovinezza».
I pellirosse navaho dell’Arizona adorano la divinità Estsanatlei, che vuol dire «donna che ringiovanisce se stessa». La setta dei tuka, nelle isole Viti, crede nella presenza di un’acqua sacra, capace di guarire e donare l’immortalità.
La corsa affannosa dell’umanità, per realizzare i sogni chimerici di Faust, non è ancora finita. Una carrellata fra le varie culture svela curiose e differenti interpretazioni della senilità, caratterizzata da processi di carattere morfologico, funzionale e psicologico.

Quando inizia la temuta decadenza del nostro corpo? Non è facile né possibile stabilire il limite tra età adulta e vecchiaia, come si fa per altri avvenimenti della nostra avventura umana.
Presso i popoli che non hanno registri anagrafici, non si è vecchi finché si può partecipare attivamente alla vita della comunità. Anche ad età avanzata, un anziano non è considerato vecchio se è in grado di provvedere a se stesso. Esperienza della vita, conoscenza dei diritti, dei doveri e delle cose sacre sono valori che fanno di un uomo un essere «attivo».
Presso alcuni popoli, anche la vecchiaia ha i suoi privilegi: rispetto della comunità e cure particolari fino al termine della vita, partecipazione alle decisioni nella vita sociale, considerazione che esenta gli anziani da restrizioni e tabù che gli altri membri devono rispettare.
I kpelle della Liberia considerano la vecchiaia una benedizione degli antenati, in virtù del bene compiuto in vita verso il mondo superiore. È convinzione che i vecchi abbiano rapporti facili con gli antenati: secondo alcuni gruppi della Nigeria, solo i vecchi li possono «annusare» per l’odore speciale che emanano quando, di notte, passeggiano tra le piante intorno al villaggio.
La considerazione che gli anziani presto diventeranno a loro volta antenati (e come tali potenti) li mette in una condizione di rispetto e privilegio nella tribù. In certe culture i vecchi acquistano posizioni di primo piano, non solo come depositari delle tradizioni, ma anche come intermediari del sacro, come dimostra la loro presenza nelle cerimonie di iniziazione.
Presso gli indios callahuaya della Bolivia, vecchi maghi e uomini-medicina rappresentano una vera aristocrazia, che esercita il controllo sociale sul gruppo; non vi sono elezioni di sorta; alla morte di un anziano, si provvede alla sua sostituzione con un altro vecchio.

O gni popolo ha «ricette magiche», elisir di lunga vita, che a volte possono creare raccapriccio. Si va dai banchetti antropofagici dei tupinamba’ (Brasile), in cui i vecchi erano i più avidi divoratori (perché credevano di assorbire, con la carne dei giovani guerrieri uccisi, anche la loro forza) alle polveri e scritture magiche più disparate.
Secondo la medicina araba tradizionale, il muschio, accompagnato dal «ketbatè» (formula magica), guarisce la sterilità delle donne giovani, rinforza la vista, dà un gagliardo vigore ai vecchi. Zenzero, chiodi di garofano, noce moscata, radice di galanga, olio e miele: due cucchiai mattino e sera e… la longevità è assicurata. Così si dice in Marocco.
In Giappone, nei templi scintornisti, si può intraprendere una cura contro l’invecchiamento bevendo un’acquavite ricavata dal riso fermentato (sakè); si attribuisce a tale bevanda la virtù di prolungare la vita, se sorseggiata da coppette magiche d’oro o similoro che si acquistano nel tempio.
Nell’Ayurveda (o Veda della longevità) della medicina indiana, il Rasajana-Tantra è dedicato alla «scienza del ringiovanimento». Secondo questa scienza medica, si può rallentare la senilità bevendo miele, latte, acqua fredda e burro, da soli o insieme, in ogni tempo della vita.
Esistono in commercio speciali preparati, a base di semi di embelia (ribes e robusta) e glycyrrhiza glabra: se presi con acqua fredda o miele, possono far diventare centenari; inoltre fanno crescere denti, unghie, capelli, rinforzano vista e udito. Anche l’oro polverizzato è un farmaco contro la vecchiaia: asparagus racemus, mescolato con oro polverizzato, permette all’uomo di «vivere come il suo re».
In Cina, nei negozi di souvenirs per turisti, si possono acquistare le statuette degli «otto immortali»; una di queste rappresenta il «dio della longevità», Shou Lou, circondato da altri simboli di lunga vita: funghi dell’immortalità, cipresso sempreverde, pipistrello, tartaruga ed altri ancora. Il fungo in questione è forse il poliporus lusidus, che cresce alla radice degli alberi. Tale fungo prodigioso, raffigurato anche in dipinti e sculture, ha spore considerate dai mistici taoisti cibo del genio e simbolo di tutto ciò che è grande e buono.

L’ oriente è ricco di metodi e ricerche per ringiovanire; ma nell’interminabile elenco di ricette e consigli emergono soprattutto tre farmaci, definiti «i principi fondamentali della geriatria tradizionale»: la kwao-kua del Siam, il gin-seng e il pantui, coa molli del daino maculato (cervus nippon).
Questi farmaci sono stati oggetto di approfondite ricerche farmacologiche, chimiche e cliniche: hanno messo in evidenza sconcertanti somiglianze tra i creduti effetti attribuiti dalla medicina tradizionale e le loro accertate possibilità svelate da indagini scientifiche.

Liliana Pizzoi




L’ONU di Fulci – Incontro con l’ambasciatore dell’ONU

Dopo 43 anni di diplomazia e 7 anni alle Nazioni Unite, l’ambasciatore italiano Francesco Paolo Fulci lascia.
«È una persona che ha sempre difeso gli interessi dell’Italia, dell’Europa e della pace», ha detto il presidente del consiglio Massimo D’Alema.
«Noi ringrazieremo sempre l’ambasciatore perché è un vero gladiatore», hanno commentato alcuni presenti la sera del 28 gennaio, ultimo giorno del suo mandato, in occasione della festa di saluto a Fulci. Qui, a nome di Missioni Consolata, ho avuto il piacere di intervistare l’ambasciatore.
Dottor Fulci, lei ha iniziato la carriera proprio a New York nel 1956, negli anni in cui Krusciov batteva la scarpa sul tavolo del Consiglio di sicurezza. La preoccupava di più il mondo di allora o sembrano più insidiosi gli anni a venire?
«Io sono ottimista per natura. Sono convinto che i problemi tendono a migliorare e soprattutto sono fiducioso per quanto riguarda il ruolo internazionale dell’Italia. Io penso che il nostro paese abbia oggi una marcia in più rispetto agli altri paesi grazie anche agli italiani all’estero. Gli italiani sono una forza straordinaria, a differenza di altri gruppi etnici che tendono a dimenticare la loro terra di origine. Questi italiani si vanno affermando sempre più nella loro patria di adozione, occupando posti di grande rilievo…».
Qual è la sfida internazionale più importante per l’Italia del 2000?
«Ho un sogno che coltivo da anni e che 7 anni fa, quando sono arrivato all’Onu, ho cominciato a perseguire. È quello di un’Europa veramente unita. Quando nel 1995 l’Italia aveva per la prima volta la presidenza dell’Unione europea e sedeva anche nel Consiglio di sicurezza, nella torre d’avorio dell’Onu, cominciai ad esporre anche la posizione dell’Europa. Né la Francia né l’Inghilterra (membri permanenti del Consiglio, ndr) potevano obiettare: la posizione da me espressa era stata prima concordata a Bruxelles tra i direttori politici dei paesi dell’Ue. Ricordo che dissi: “Questo è l’embrione dell’Europa nel Consiglio di sicurezza”. Ribatté subito l’ambasciatore britannico John Weston: “Il seggio europeo è una Fulcian heresy”. Adesso questa “eresia fulciana” comincia piano piano a farsi strada».
Ma come essere ottimisti sul seggio europeo nel Consiglio di sicurezza quando si vedono contrasti tra gli stessi paesi della Comunità? Si pensi, ad esempio, alle posizioni opposte di Francia e Inghilterra rispetto alle sanzioni Onu contro l’Iraq…
«Prima che lei entrasse nel mio ufficio, ho ricevuto due ambasciatori di paesi asiatici, ai quali ho chiesto il voto per l’Italia nelle prossime elezioni per il Consiglio di sicurezza. Un obiettivo fondamentale è rientrare nel Consiglio di sicurezza. L’Italia dovrebbe mettere questo seggio a disposizione dell’Unione europea e senza chiedere alcuna contropartita.
A quel punto potrebbe suggerire che il numero due della legazione italiana sia un rappresentante dell’Europa. Infatti la delegazione italiana che partecipa al Consiglio di sicurezza può essere diversa da quella presente all’Assemblea generale. Quindi l’Italia potrebbe notificare chi vuole come suo delegato. E quando si trattano questioni sulle quali l’Europa ha una posizione comune, allora l’ambasciatore italiano potrebbe cedere il suo posto al presidente di tuo dell’Ue, che parlerebbe quindi dal seggio italiano in nome dell’Europa. E si può fare un passo oltre.
Se Solana (“ministro degli esteri” dell’Ue, ndr) se la sentirà, potrà mandare anche un suo rappresentante a sedere nel seggio italiano. E quindi non sarebbe più il paese presidente di tuo dell’Ue, ma sarebbe l’Europa unita che comincerebbe a parlare con una voce. Io credo che quando noi ci siamo battuti per non far avere il seggio permanente alla Germania, abbiamo reso un enorme servizio all’Europa. Se avessimo perduto quella battaglia avremmo avuto una situazione non dissimile da quella precedente alla seconda guerra mondiale».
Ma la Germania lo ha capito?
«In Germania lo hanno capito gli uomini politici, ma purtroppo non i suoi diplomatici. I funzionari tedeschi sono più nazionalisti dei loro politici, che invece hanno capito che il seggio permanente è ormai una chimera. Orazio diceva Carpe diem, ma l’attimo, grazie anche al nostro lavoro, non lo hanno saputo cogliere. Comunque quello messo a disposizione dell’Italia non dovremmo chiamarlo ancora seggio europeo, ma una presenza permanente dell’Europa nel Consiglio. Perché dopo di noi, dovrebbero metterlo a disposizione la Spagna o la stessa Germania. Avverrebbe quindi de facto la presenza dell’Europa unita».
Cosa succederebbe al seggio permanente francese e inglese?
«La presenza dell’Ue sarà una specie di calamita che comincerà ad attirare i due paesi. Cominceranno a ripetere le posizioni che hanno già concordato in sede Ue. Ci saranno ancora posizioni diverse, ma, col tempo e la forza naturale delle decisioni prese in comune, anche Francia e Inghilterra graviteranno sempre più verso una presenza unica europea nel Consiglio. Se non si arriverà ad una politica estera e di sicurezza comune, l’Unione europea non si potrà mai dire compiuta».
Come vede l’atteggiamento futuro degli Stati Uniti di fronte ad un’Europa come soggetto nello scacchiere internazionale.
«C’è stato un momento che nel dipartimento di stato prevalevano gli uomini pro Germania: erano coloro che premevano affinché i tedeschi entrassero come membri permanenti nel Consiglio. L’attuale ambasciatore americano Holbrooke considera la Germania l’unico grande paese affidabile per gli Stati Uniti».
Holbrooke spinge ancora per i tedeschi?
«Sì, per un seggio dato alla Germania più che all’Europa ed è per questo che i diplomatici tedeschi non si arrendono. Però ci sono molti altri che non la pensano così».
Come la pensa il segretario di Stato?
«La Albright non mi è sembrata mai convinta di questo seggio alla Germania».
Per tradizione, le amministrazioni democratiche Usa sembrano meglio predisposte nei confronti dell’Onu di quelle repubblicane. Se George W. Bush vincesse le prossime elezioni, che accadrebbe?
«Bisogna fare più attenzione a quello che succede nel Congresso che non alla Casa Bianca. Nel 1919 Wilson aveva creato la Società delle nazioni, ma il Congresso scelse l’isolazionismo negando l’ingresso degli Stati Uniti.
Il risultato fu un enorme errore di calcolo. Hitler e Mussolini si convinsero infatti che si sarebbero potuti impadronire dell’Europa senza che l’America intervenisse. Ci volle poi un uomo dalla statura di Roosevelt per far capire agli americani dove si erano cacciati con l’isolazionismo del Congresso. Ecco, quindi, non solo il progetto di un’altra organizzazione internazionale (l’Onu), ma la volontà di volerla ospitare nel proprio territorio; senza dimenticare le truppe americane che restarono in Europa.
Questo ha consentito cinquant’anni di pace e la vittoria della guerra fredda dell’Occidente senza sparare un colpo. Ora è possibile che si vogliano ripetere gli errori del passato? Quando penso che il 40% dei congressmen americani si vanta di non possedere un passaporto, è veramente inquietante».
Lei ha anche rappresentato l’Italia alla Nato. Resta invariato il ruolo dell’Alleanza atlantica ora che si parla anche della creazione di un esercito europeo? In altre parole, la Nato servirà ancora all’Europa?
«Io credo che la Nato debba anzi essere rafforzata. Prima di tutto perché non possiamo essere sicuri del domani. Basta pensare a quello che diceva Yeltsin sulle armi nucleari russe. Insomma, l’unica sicurezza per l’Europa si fonda sulla forza della Nato. Poi le Nazioni Unite non sono assolutamente in grado di compiere operazioni di pace: non ne hanno la vocazione né le risorse. Allora all’Onu per imporre la pace non resta che rivolgersi alle organizzazioni regionali, come la Nato, oppure a coalizioni di “paesi volontari”, come è accaduto per l’Albania o Timor Est.
La Nato quindi resta fondamentale, ma altrettanto lo è l’Onu, perché deve legittimare queste operazioni che devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza».
Ma per il Kosovo la Nato ha saltato il Consiglio di sicurezza…
«Però poi sono dovuti tornare al “Palazzo di vetro” per raggiungere la pace. La legalità è qui.
Con l’articolo 25 della Carta delle Nazioni Unite i paesi membri si impegnano ad accettare le decisioni del Consiglio di sicurezza; con l’articolo 24 i membri conferiscono al Consiglio di sicurezza la responsabilità primaria della pace e della sicurezza internazionale».
Ad Helsinki l’Europa ha prefigurato l’allargamento ad Est. Ma dove finisce l’Europa?
«Agli Urali».
Quindi anche la Russia, per arrivare ad eliminare, un giorno, quella pericolosa paura dell’accerchiamento?
«Certo, l’Europa deve comprendere la Russia».
Oltre ad essere ambasciatore d’Italia, dal 1997 lei è stato presidente dell’Ecosoc, il Consiglio economico e sociale dell’Onu. Qual è, secondo lei, il male più diffuso nel pianeta?
«Senza dubbio, la povertà. I paesi in via di sviluppo hanno l’80 per cento della popolazione mondiale, ma meno del 20 per cento del prodotto globale lordo.
La prossima assemblea generale dell’Onu, che si aprirà nel settembre 2000, analizzerà la globalizzazione e studierà i modi per sradicare la miseria. Ciò detto, va ricordato che, prima di distribuirla equamente, la ricchezza va prodotta. Sradicare la miseria nel mondo è un programma ambizioso, ma possibile. Mi auguro che tutti i paesi interessati si impegnino per rendere l’economia più giusta».
Un’ultima domanda. Lei, ambasciatore, si è battuto molto contro la pena di morte. Eppure questa continua ad esistere. Pensa che verrà abolita oppure guadagnerà aderenti?
«Da tre anni l’Unione europea, insieme ad altri paesi, presenta la proposta di una moratoria sulla pena di morte. Si chiede la sospensione delle esecuzioni capitali in tutto il mondo. Purtroppo tale proposta è stata bocciata, ostacolata soprattutto da parte dei paesi del blocco asiatico e in parte africano.
Tra i 180 stati membri delle Nazioni Unite il numero delle nazioni abolizioniste, compresi i 15 stati europei, è 72. Il numero magico per la votazione è 90. Ogni anno la lista degli stati favorevoli alla sospensione delle esecuzioni aumenta: l’anno scorso erano 52; quest’anno altri 20 stati hanno cambiato opinione.
Con l’aumento delle probabilità di vittoria dei paesi abolizionisti, sono anche cresciute le pressioni dei paesi contrari alla moratoria, i quali cercano di persuadere gli incerti ad opporsi alla proposta.
Dispiace dire che questa opera di lobby sia sostenuta dagli Stati Uniti, i quali si trovano su posizioni intransigenti, cioè contro la moratoria, e in compagnia di stati noti per violare i diritti umani e sociali, quali Iran, Cina popolare, Cuba, Libia, Egitto, Arabia, Singapore, Uganda, Vietnam e altri. E questo è un puro controsenso, una chiara contraddizione, anzi due.
La prima è che gli Usa sono favorevoli alla tutela dei diritti umani e hanno sostenuto con forza gli interventi in quegli stati che si sono resi colpevoli di pesanti violazioni.
Ancora più forte è la contraddizione in cui gli Usa sono caduti firmando la proposta che, nella creazione del “Tribunale penale internazionale”, esclude che i colpevoli possano essere condannati a morte, non importa di quanti orribili delitti si siano macchiati. Nonostante ciò, gli Stati Uniti sono sempre silenziosamente a fianco di chi rifiuta la moratoria, pronti a battersi per mantenere la pena di morte» (vedi riquadro Stati Uniti).

Al Barozzi




SUDAN – Sangue e petrolio sui monti Nuba

Il paese più vasto dell’Africa,
spaccato fra genti arabizzate e musulmane nel nord
ed etnie autoctone e cristiane nel sud. Ed è guerra fra i due «schieramenti»:
fra il regime di Khartoum e l’esercito popolare di liberazione,
fra il presidente al-Bashir e il colonnello Garang.
Con l’aggravante della fame e il blocco degli aiuti alimentari ai morenti,
con la razzia di schiavi e il genocidio del popolo nuba.
Impera la «legge islamica», detestata dal sud. E zampilla pure il petrolio.
Allora l’occidente apre gli occhi. A favore di chi?

Nell’aprile 1995 un gruppo di associazioni e organi di stampa italiani (Pax Christi, Acli, Amani, Arci, Caritas, Cesvi, Cuore Amico, Mani Tese, Nigrizia) lanciò la Campagna «Sudan, un popolo senza diritti», raccogliendo circa 50 mila firme per avviarla.
In questi ultimi anni la Campagna ha cercato, con una informazione corretta sulla «guerra dimenticata» del Sudan, di sensibilizzare l’opinione pubblica e di attuare una pressione politica sul governo italiano. A tale scopo ha organizzato incontri sul paese e ha promosso iniziative di solidarietà verso la popolazione, provata dalla guerra, dei Monti Nuba.
Nel forum «Sudan, un popolo senza diritti» (Milano, settembre 1999) i problemi sono ritornati alla ribalta. Sono intervenuti, fra gli altri, Richard Gray, professore di storia africana all’università di Londra e docente di storia all’università di Khartoum (1959-1961), Mel Middleton, cornordinatore della Campagna contro Talisman (compagnia petrolifera canadese in Sudan), Johannes Ajawin, sudanese del sud, avvocato e autore di rapporti sui diritti umani per African Rights, e Joseph Gazi Abanjite, vescovo e rappresentante della Conferenza episcopale del Sudan.
Prof. Richard Gray:
Colonialismo e guerra
Il professore Gray ha delineato con chiarezza le cause della guerra in corso in Sudan da tanti anni, dovuta soprattutto a situazioni economiche e politiche, «che si sono gradualmente confuse con i fattori delle identità religiose».
L’impero britannico occupò l’Egitto nel 1882, ma solo dal 1899 amministrò il Sudan insieme all’Egitto, dopo aver sconfitto il «Mahdi», eroe della rivolta islamica che, nel 1885, aveva debellato il generale inglese Gordon e si era insediato a Khartoum. Il governo di Londra non aveva interesse nel Sudan per sé, ma, occupandolo, negava «ad altre potenze il controllo sull’Egitto e sul Canale di Suez, all’epoca cordone ombelicale per l’India».
Con il timore di un’altra rivolta islamica, nel 1920 il governo britannico stabilì un modus vivendi con i sudanesi più influenti, permettendo al nord di vivere in pace e godere di benefici economici. Invece «il sud, insieme alla maggior parte del popolo nuba, rimase tagliato fuori dallo sviluppo fino al 1839, quando Muhammad Alì inviò una spedizione per esplorare il Nilo Bianco».
Mercanti europei, egiziani e levantini cercarono fortuna in queste regioni con il commercio dell’avorio e, ben presto, iniziarono la tratta degli schiavi. «Per tre decenni il governo britannico continuò questa violenza, usando anche aerei da bombardamento contro il sud, dal quale i pochi missionari cattolici si erano ritirati da tempo». Solo più tardi il Comboni e i suoi missionari raggiunsero i Monti Nuba.
Nel 1930 si riuscì a stabilire un modus vivendi anche con i popoli del sud. Per una generazione i britannici vi assicurarono la pace. «Per mantenere la stabilità, il governo di Londra escluse ogni influenza del nord, compreso il nazionalismo arabo».
Al termine della seconda guerra mondiale il governo britannico capì (tardi, in verità) che non si poteva conservare l’isolamento socioeconomico. Nel 1948 fu aperta la prima scuola superiore nel sud.
Nel 1956 il Sudan divenne indipendente. Gli amministratori coloniali, dopo i negoziati anglo-egiziani, lasciarono il paese e i loro posti di potere passarono nelle mani dei sudanesi del nord. Questo fece capire al sud che «si era passati da un regime coloniale ad un altro».
Scoppiò quindi la guerra civile, interrotta dal 1972 al 1983 per volontà del presidente Nimeiry. Egli stesso, però, ruppe la tregua quando furono scoperti giacimenti di petrolio nelle regioni settentrionali. La guerra riprese nel 1983, più cruenta che mai. Nel settembre 1983 Nimeiry ripristinò la sharia (legge islamica).
Dal 1989, con il presidente Omar al-Bashir, il potere si è consolidato nelle mani del Fronte islamico nazionale di Hassan al-Turabi, mentre il colonnello John Garang ha continuato a guidare l’Esercito popolare di liberazione (Spla).
Anche se l’attuale regime cerca di mobilitare tutti in una «guerra santa» soprattutto contro i nuba, «la guerra civile investe questioni economiche e politiche».
Coord. Mel Middleton:
L’ARMA DEL PETROLIO
La guerra contro il sud-Sudan si avvale anche dell’arma del petrolio. Da più di sei anni alcune imprese straniere lavorano nel paese per estrarre greggio.
Arakis fu la prima società del Canada ad operare con il governo sudanese nel settore petrolifero, con la presenza di imprese statali di Cina e Malesia. La compagnia canadese ha ammesso di aver fornito 10 mila barili di greggio al giorno alla raffineria di El Obeid. In questa città esiste una base militare aerea, che bombarda i Monti Nuba e le popolazioni del sud-Sudan.
Nel 1998 Talisman, un’altra impresa famosa in Canada, acquistò Arakis, legandosi anch’essa al governo di Khartoum. Le chiese del Canada e associazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato il fatto. Però Jim Buckee, direttore di Talisman, ha dichiarato: «Non c’era nulla che potesse far pensare che la nostra società sostenesse un regime malvagio».
Mel Middleton, cornordinatore canadese della Campagna contro Talisman, ha commentato: «I responsabili della società non hanno mai visitato le regioni meridionali del Sudan, colpite dal divieto dei voli umanitari per recare aiuto alle genti sottoposte a carestie “provocate”, traffico di schiavi e atti di genocidio. Il petrolio estratto è un’arma strategica del regime contro il popolo del sud».
Lo stesso Buckee nel 1998 ammise che una parte dei 250 milioni di dollari investiti da Talisman è finita in mano al presidente al-Bashir e compagni. Il vicepresidente ha detto: «Con l’esportazione di petrolio, otterremo una vittoria decisiva contro i ribelli del sud».
Il denaro del petrolio è il prezzo del sangue.
Avv. Johannes Ajawin:
chiese e moschee distrutte
La guerra civile ha comportato il genocidio, ancora in corso, dei nuba. Lo ha ricordato Ajawin, avvocato sudanese del sud e membro del movimento African Rights. Già nel 1995 African Rights accusò il governo di Khartoum di annientare il popolo nuba.
Il movimento ha come programma la verifica del rispetto dei diritti umani sui Monti Nuba: è un programma gestito da 11 volontari sul campo, collegati a Londra. Rigorose descrizioni documentano le atrocità e barbarie (bombardamenti, mine anti-uomo, razzie, sequestri) commesse contro i nuba, cristiani e musulmani.
In una relazione dell’agosto 1997 si legge: «L’incendio di chiese è divenuto prassi comune. Tutti i luoghi di culto nei villaggi e molti altri ancora sono stati distrutti: a Tandiri, Tabari, Regifi Um Dulu, Karkaraya, Nagorban, Nakur; anche la chiesa di Achiron è stata bombardata».
Si contano pure moschee distrutte. Questo è, per molti, uno degli aspetti più sorprendenti della guerra sui Monti Nuba, poiché gli autori dei misfatti sono musulmani. Il fatto fu documentato per la prima volta da African Rights tre anni fa. Però nulla è cambiato.
Il Consiglio islamico del Kordofan, nel sud, ha continuato il triste compito di elencare le moschee distrutte. La moschea di Kauda è una struttura solida, difficile da abbattere. Ma, nel marzo 1996, l’esercito vi lasciò solo i muri. Su una parete, vicino alla moschea, fu scritto il seguente versetto del corano: «Coloro che morirono in battaglia non sono realmente morti. Dio li benedirà più tardi».
Questo per indicare che non importa se un uomo ha ucciso qualcuno, perché Dio ne avrà cura.
Mons. Joseph Gazi Abanjite:
Per una pace giusta
Il vescovo ha rappresentato la Conferenza episcopale del Sudan, che si era incontrata a Nairobi il 12-27 agosto 1999 e aveva stilato il documento «Verso una pace giusta». Ne sono stati citati alcuni passi significativi.
«Giustizia e pace devono camminare mano nella mano e divenire parte integrante del nostro ministero pastorale. Vogliamo che le nostre diocesi e parrocchie (fino alle più piccole comunità) siano seriamente coinvolte nel creare e mantenere un’atmosfera in cui giustizia e pace possano prosperare… Perciò abbiamo deciso di allestire alcune strutture, di intraprendere iniziative, di raccogliere e divulgare informazioni per lavorare più efficacemente per la giustizia e la pace».
Al riguardo sarà formato un comitato speciale, con diversi gruppi di lavoro, per attuare programmi di pace insieme ad associazioni, altre conferenze episcopali, istituti religiosi, agenzie ed esperti vari.
«Faremo tutto il possibile – affermano i vescovi del Sudan – per espandere e rafforzare le iniziative ecumeniche esistenti per la riconciliazione tra i gruppi. Incoraggeremo le etnie e gli anziani locali ad usare i loro metodi tradizionali per risolvere i conflitti, quale valido contributo al processo di pace».
«Continueremo ad esercitare la non-violenza attiva denunciando le ingiustizie, gli affronti alla dignità e le violazioni dei diritti umani; resisteremo alle intimidazioni; entreremo in dialogo, scrivendo lettere e usando i mass media. Consideriamo la non-violenza attiva un mezzo di resistenza agli oppressori per renderli consapevoli del male che causano ai loro fratelli e sorelle».
«Cercheremo di avere informazioni accurate sulla propaganda e le politiche del governo sudanese e dello Spla, per renderle accessibili ai vescovi, alle ambasciate straniere, ai gruppi dei diritti umani, ai mass media stranieri».
I vescovi pregano e si augurano, un giorno non lontano, di poter dire con il salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo; nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma, nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 126, 5-6).
Pace in Sudan!

Silvana Bottignole




KENYA & TANZANIA – Dialogare… da dove cominciamo?

Il fenomeno delle sètte costituisce una sfida
per le giovani chiese in Africa. Alcune di esse vorrebbero azzerare un secolo di evangelizzazione.
Eppure è urgente aprire un dialogo anche con loro: un nuovo fronte missionario di non facile attuazione.

«Lodiamo il Signore, fratelli, prima di continuare il nostro viaggio! Preghiamo!». Con voce forte e suasiva, il predicatore di strada John Mwangi si fa largo tra la folla alla stazione degli autobus di Nairobi, abborda un gruppo di persone in attesa di partire per Ngong, sale sul bus e continua il suo sermone.
La sua predicazione è basata su un versetto della bibbia, quasi sempre lo stesso. Finita la predica, chiede ai passeggeri un minuto di preghiera, in silenzio, occhi chiusi e testa bassa. E conclude con la terza parte, la più lunga e importante: «E ora, fratelli, prima di lasciarvi, se qualcuno vuole donare uno scellino per la parola di Dio, può farlo».
È così che, da due anni, Mwangi si guadagna da vivere; lo confessa candidamente e giura di essere un predicatore convinto e genuino. Ma ammette che altri usano la parola di Dio per i loro interessi.

A Githuri, sobborgo di Nairobi, sta prendendo piede una setta anticristiana per soli uomini. Ispirandosi alle tradizioni ataviche, lo sguardo rivolto al monte Kenya, gli adepti cantano in kikuyu le lodi di Ngai (Dio).
Kimani, un membro della setta, dice che la religione tradizionale è l’unico mezzo per unire la gente, mentre il cristianesimo, secondo lui, è causa di divisione. «Guarda a quante sètte ha dato origine: tutte in guerra tra di loro» aggiunge.
Il movimento non ha leader, perché davanti a Dio sono tutti uguali. Non credono in Cristo; ma buona parte del loro insegnamento si rifà all’Antico Testamento. Si considerano dei «Sansoni» redivivi, col compito di salvare il mondo dai «filistei» cristiani. Non si tagliano i capelli e temono le donne: potrebbero diventare potenziali Dalila.
L’identità più segreta è svelata solo ai nuovi adepti. La disciplina è molto rigida; chi disubbidisce è punito severamente. Sembra, tuttavia, che tra i loro ideali ci sia quello di servire la gente. Per esempio, si danno da fare per ridurre borseggi alla stazione degli autobus. Sono convinti che, con l’aiuto di Dio, cambieranno il mondo in un luogo di delizie.

A vvolti in tuniche multicolori, i seguaci della setta Thai invadono le strade di Nairobi; in nome di Mugeka, creatore e protettore di tutti, predicano la fedeltà coniugale. Se la prendono con i contracettivi, ma chiudono un occhio per i condom.
Molti aderenti a questa setta sono giovani e fanatici: arrivano con grandi altoparlanti; predicano anche quando la gente è poca o indifferente. Le zone residenziali, soprattutto, sono oggetto delle loro crociate.

S iamo a Nyeri, nel cuore della terra dei kikuyu. Poco lontano dalla città l’Outspan Hotel è pieno di turisti. Oltre il fiume Chania si estende il Mathari, dove i missionari della Consolata hanno costruito una roccaforte cristiana, con ospedale, scuole, seminario, istituti tecnici, tipografia, casa madre di una congregazione di suore africane.
Eppure, in città, all’ombra di un mugumo, pianta sacra per i kikuyu, in una piccola capanna-santuario, alcuni anziani discutono della loro religione tradizionale, incuranti delle beffe ironiche degli abitanti della zona. Uno di loro legge una vecchia bibbia. Per terra ci sono coa di animali differenti, teschi di capre, lattine di plastica, zucche svuotate.
Un uomo vestito di bianco sostiene che quel luogo è la fonte della loro antica fede religiosa: è la «chiesa» di Gikuyu e Mumbi, la coppia che ha dato origine all’etnia kikuyu.
Chege Kibiro, l’uomo vestito di bianco, è il «prete» del santuario, un esperto di tradizioni locali. Spiega con orgoglio che tale santuario fu costruito da alcuni vecchi mau mau, i guerriglieri del Kenya che hanno lottato per liberare il paese dal governo inglese e missionari cristiani. «La nostra religione – afferma Kibiro – è stata dispersa dall’uomo bianco. Con l’indipendenza va rivitalizzata. Fa parte della libertà per cui abbiamo combattuto».
La decisione di creare tale santuario fu presa il 14 aprile 1989, durante un raduno di ex combattenti. Vicino dovrebbe sorgere un istituto tecnico, dedicato a un eroe della lotta per l’indipendenza. È già stata inoltrata all’amministrazione governativa la richiesta di un pezzo di terra per tale costruzione, vicino a un grande mugumo naturalmente.
Kibiro è stato scelto come sacerdote in virtù dei suoi poteri straordinari, che risalgono al leggendario Mugo wa Kibiro, il profeta kikuyu che aveva previsto un’invasione della loro terra da parte di gente «con la pelle come quella di un rospo» (sarebbero i colonialisti e i missionari).
Il santuario è molto frequentato, spiega il custode della tradizione. Vengono anche alcuni politici per consultare la divinità tradizionale. All’ombra dell’albero sacro, si sacrifica una capra e si gettano i dadi: così si rivela la volontà divina.
E tutto questo avviene a pochi chilometri da Tetu e da Mathari, dove i missionari della Consolata hanno cominciato la loro attività nel lontano 1902. Quasi cent’anni fa!
Una grande sfida per la giovane chiesa di Nyeri e per i missionari.

Mtoto wa Siasa

Alessandro Di Martino




VIETNAM – Hanoi pedala nel passato

Dopo alcuni anni di rapida crescita, oggi il paese asiatico è in difficoltà.
Nonostante i divieti, i vietnamiti abbandonano
le campagne per trovare precari lavori nelle città.
Mentre la salute e l’educazione sono privilegio di pochi,
il corrotto apparato comunista mira soltanto a preservare il potere, indipendentemente dal consenso popolare.
Riprenderanno le fughe come ai tempi dei «boat people»?

Phuong è un nome dal suono dolce, perfetto per una giovane vietnamita. La Phuong che conosco ad Hanoi è carina e molto fortunata. Un corpo flessuoso, occhi a mandorla, Phuong è sposata da un anno e oggi mi ha confidato di aspettare un bimbo.
La fortuna le viene dal nonno, eroe di guerra, ucciso a Diem Bien Phu dai francesi. Il padre di Phuong non fece a tempo a conoscerlo, ma, quando arrivò il momento di fare il militare, fu esentato perché capofamiglia e mandato a studiare economia all’università. Ora lavora al ministero del turismo. La moglie è all’agenzia di stato e i figli sono tutti sistemati. Phuong si è laureata in russo e inglese, ha ancora poca esperienza, ma sa già come comportarsi quando le fanno domande indiscrete sul suo paese.
In Vietnam il partito è unico. Non solo, è a numero chiuso. Non ci si può iscrivere al partito comunista vietnamita. Se ci sei, perché tuo nonno ha fatto la guerra con Ho o era nel gruppo di intellettuali comunisti che lo fondarono, allora puoi stare tranquillo: tu e i tuoi figli avrete sempre un posto di lavoro con le ferie e la pensione. Altrimenti sei costretto a sopravvivere, come tutti gli altri. Come le donne che stasera vedo correre a casa, sotto la pioggia sottile, col loro carico ancora integro, bilanciato sulle spalle dal bastone di bambù. Hanno percorso le vie della città tutto il giorno, cercando di vendere qualcosa. Si sono fermate a cucinare per i passanti, arrostire pannocchie o friggere patate sul loro fornello portatile, sul marciapiede. Molte non indossano neppure i sandali di plastica, hanno il cappello conico di paglia che le protegge e un’uniforme che sembra un pigiamino.
La gente in campagna non ce la fa più e si sposta in città, nonostante i divieti. Le ragazze di campagna le vedi arrivare la mattina alle cinque e mezza; magari hanno fatto due ore di bici per arrivare nelle zone residenziali, dove è più facile trovare lavoro alla giornata.
SE MANCANO I SOLDI
L’abitudine dei vietnamiti è di rispondere «no» a qualsiasi richiesta, che sia un servizio o un’informazione. Così sono stati educati: loro non sanno, non possono, non rispondono. Jeanine invece parla, ora che è in pensione. Prima, non poteva neppure andare in chiesa: avrebbe perso il posto. Jeanine è cattolica e viene da Thai Bin, una città del delta a 120 km da Hanoi, dove c’è una grande chiesa.
Jeanine ha un grande rimpianto. Nata in Nuova Caledonia, dove il padre era emigrato durante l’ultima guerra mondiale (nel 1945 ci fu la fame nel nord, con 2 milioni di morti, mentre nel sud si gettava via il riso). Arrivò in Vietnam nel 1964, quando il genitore si lasciò convincere a rientrare in patria insieme ad altri emigrati. I vietnamiti hanno forte il senso della famiglia e della patria. Ma alcuni di loro si suicidarono, quando si resero conto dell’errore commesso lasciando la tranquilla e ricca colonia francese. Dopo 30 anni di lavoro come stenografa, ora Jeanine fa la domestica in casa di una famiglia danese, in una di quelle villette alte e strette che sono sorte come funghi 4-5 anni fa intorno al lago dell’ovest, la zona residenziale di Hanoi.
Jeanine ha modi signorili, grande dignità e parla un ottimo francese. Per me è stata una compagnia e un aiuto prezioso per comprendere questo paese. «Sono vecchia e stanca, ma non posso vivere coi 20 dollari di pensione al mese. Mio figlio studia all’università e ho anche dei debiti da pagare, a causa di un incidente che lo ha coinvolto».
I FALLIMENTI
DELLA SCUOLA
Alle cinque del mattino Jeanine va al mercato, che si estende lungo l’argine fino alla strada che porta in centro. Oggi è mistress day, la festa degli insegnanti e io l’accompagno, compreremo dei fiori, scegliendo tra i tanti mazzi di crisantemi gialli e bianchi. All’incrocio vedo giovani dall’aspetto grigio, arrivati dalla campagna per trovare un lavoro. «A volte passa la polizia e li scaccia tutti via – mi spiega Jeanine-. È uno spettacolo che il governo non vuole mostrare agli stranieri. Inoltre, vogliono scoraggiare i contadini a trasferirsi in città. Ma la vita in campagna è un inferno».
Hanno montato un palco con il busto di Ho Chi Min nel cortile della scuola. I bambini arrivano ben vestiti, con il loro mazzo di fiori, accompagnati dalle mamme, orgogliose e timide. Forse loro non sono mai andate a scuola e questa volta vogliono fare bella figura. Jeanine scuote il capo e mi dice: «Qui i maestri promuovono se ricevono regali. Sono mal pagati dal governo e l’insegnamento è di basso livello». Incontriamo due donne lungo il viale fiorito, che porta all’esclusivo club della pesca, sulle rive del lago. Thoa e Hung per oggi un lavoro l’hanno trovato: stanno zappettando le aiuole e stasera si porteranno a casa un dollaro prezioso, dopo 8 ore di lavoro e 4 di bicicletta.

STRANIERI, PRIVILEGIATI
MA ESCLUSI
Il centro di Hanoi ha conservato il fascino degli anni coloniali francesi, anche nei locali che sono stati restaurati. Davanti alla cattedrale, costruita sul modello di Notre Dame di Parigi, i ragazzini giocano al pallone, mentre un traffico di ciclò e motorette non disturba la tranquilla vita dei commercianti.
Nei quartieri residenziali periferici molte ville, costruite qualche anno fa per gli stranieri, sono sfitte. Anche i lussuosi alberghi del centro sono vuoti. Dopo aver attirato investimenti e joint ventures, i contratti sono stati modificati su iniziativa governativa, a danno degli investitori stranieri.
Frits Jepsen è un funzionario danese che lavora da anni nel campo delle fisheries, la pesca. Il governo danese è presente in Vietnam con progetti di aiuto e sviluppo, ma questi devono essere costantemente verificati, perché la corruzione è altissima. «In Vietnam la situazione è peggiore che in Sierra Leone, dove ho lavorato anni fa – mi dice Frits -. In Africa c’è molta corruzione, ma qui è stata addirittura codificata dal regime comunista. Non c’è via di uscita».
Anche la vita culturale di Hanoi è pesantemente influenzata da un regime legato ai vecchi schemi comunisti e nazionalisti. «Hanno speso 70 miliardi per ristrutturare l’Opera di Hanoi con l’aiuto di sponsors stranieri – interviene la signora Jepsen, che rimpiange molto l’Europa -. Ma sono obbligati a mettere in scena opere di Gluck e Mozart tradotte in vietnamita. Con risultati disastrosi».
Lisa Jepsen mi fa conoscere le amiche di Hanoi, che lavorano nelle organizzazioni umanitarie. Come la Iom (Inteational Organization for Migration), dove una signora danese si occupa delle donne vietnamite costrette a prostituirsi o a sposare cinesi che a casa loro non trovano moglie, a causa della politica del figlio unico e dell’aborto selettivo. Una ginecologa danese è arrivata da poco con il marito, funzionario dell’ambasciata. Sta cercando di rendersi utile, ma non è facile, data la chiusura che dimostra la burocrazia vietnamita. Mi confida: «C’è molto da fare nel mio campo. Le donne, specialmente le giovani madri, hanno bisogno di essere aiutate e informate. L’assistenza sanitaria nazionale è praticamente inesistente, per chi non può pagare».
La chiesa cattolica del quartiere apre la sera dopo le cinque. La donna che tiene le chiavi si scusa per lo stato d’abbandono in cui versa il minuscolo edificio. Il rosario di stasera, recitato da pochi, mi pare un lamento. Quando rientro a casa, la donnina che lavora nel cantiere vicino agli Jepsen è ancora occupata a caricare e trasportare sabbia e mattoni sul carretto. Va avanti e indietro, dal mattino alle 6 fino alle 10 di sera, col suo pigiamino grigio, il cappello conico e la mascherina di pezza. Come si può vivere in queste condizioni?
BICICLETTE
COME CAMION
È domenica: andiamo in campagna. Attraversiamo il Fiume Rosso e prendiamo la strada dell’argine. Non vi è traccia di fabbriche nei dintorni della capitale; solo presso l’aeroporto ho visto i lavori in corso, per creare un’area di insediamenti industriali.
La campagna è bella. Hanno terminato la raccolta del riso. Le case in mattoni sono spesso raccolte intorno a una chiesa, ma le campane non suonano più la domenica. Oggi è festa solo per gli impiegati di Hanoi, che da ottobre ’99 hanno ottenuto il sabato libero.
Proseguiamo per Bat Trang, un antico villaggio a ridosso del primo argine, dove pare d’essere in un girone infeale. Nelle vie fangose, interrotte da vaste pozzanghere, tutti sono al lavoro, anche i bambini. Da 500 anni qui si fabbricano vasi di ceramica di tutti i tipi. I più belli sono grandi, pesantissimi, smaltati e decorati a mano. Poi le teiere e le ciotole bianche a disegni azzurri, come quelle antiche, cinesi.
Ogni casa ha il suo foo a carbone e sono le bambine che impastano la polvere nera con acqua per fare le forme rotonde, da seccare sul muro. Le infeali e rudimentali macchine per lavorare il caolino fanno un rumore assordante. Cerco inutilmente una bottega che ci venda qualcosa da bere. Trovo solo qualche contadina con il suo cesto per terra con le verdure, qualche pesce e le pannocchie da arrostire. Gli uomini passano spingendo a mano le bici, con due pali per tenerle in equilibrio. Portano due cesti enormi con decine di grossi vasi. Durante la guerra venivano utilizzate le bici per il trasporto di armi, fino a 300 chili. Chi le sa riparare è uno dei più abbienti, in questa società di diseredati.
CESTE COME BARCHE
Un volo diretto da Hanoi ci permette di superare la zona colpita dal tifone, dove centinaia di persone sono morte, spazzate via nelle loro capanne di bambù su palafitte. La costa sul Mar della Cina è soggetta a tifoni, che fanno crollare ponti e dighe, distruggendo i raccolti. Mentre atterriamo a Nha Trang, vedo la grande baia e le isole che la circondano: pare un bacino di fango, tanti sono i detriti che riempiono il mare.
Un promontorio boscoso nasconde le ville di Bao Dai, l’ultimo imperatore. Sulla spiaggia ci sono le casette dei pescatori, gente cordiale e robusta che mi accoglie con simpatia. Un gruppo di ragazzine sta caricando taniche di combustibile su un piroscafo. Vanno e vengono sulla spiaggia, con la basculla di bambù sulle spalle che porta almeno 40 chili. Qualcuno ripara le reti, le donne puliscono il pesce, i giovani manovrano le sorprendenti barchette, cesti rotondi che possono portare anche 3-4 persone.
Una pioggia improvvisa mi costringe a fermare un ciclò e ripararmi sotto la cerata. Mi farò portare da questo magro signore (che ha forse passato la notte accoccolato sul sedile) sul bel lungomare, fino all’estremo opposto della baia di Nhga Trang. Una città tranquilla, con le sue chiese, le pagode e le torri cham che ricordano l’India, dove la vita è più facile e persino la guerra non si è fatta sentire. Qui si rifugiarono molti cattolici nel ’54, dopo la caduta di Dien Bien Phu, durante i 300 giorni concessi dagli accordi di Ginevra per poter passare la linea di demarcazione posta sul 17° parallelo. Nel 1954 la Polonia aveva partecipato, con Indonesia e altri paesi neutrali, all’evacuazione dei vietnamiti che volevano fuggire dal comunismo del nord.
Mi fermerò nel ristorante di Nam, buon amico del dottor Falcone, il medico italiano responsabile di Medici senza frontiere (Msf), che in città ha un ambulatorio per la cura e la prevenzione dell’Aids. Nam e la sua famiglia sono cattolici, originari di Hanoi. Apprendo così che a Nha Trang ci sono 3 diocesi, un nuovo seminario, 6 parrocchie e diverse comunità religiose.

A SAIGON
SOGNANO L’AMERICA
L’ultima mattina a Saigon, davanti alla bella cattedrale, incontro Cuong. L’aria è festosa, il clima caldo e rilassato, i negozi modei hanno un aspetto occidentale. Cuong vorrebbe che mi fermassi: «Avrei ancora molte cose da raccontare» mi dice. Figlio di un intellettuale comunista di Hanoi che ha scelto il sud per vivere, Cuong ha potuto studiare all’università e ora guida i gruppi di reduci americani in visita. «Ho avuto la fortuna di avere entrambi i genitori impegnati nella lotta contro i francesi e gli americani. Siamo stati spietati con i nostri connazionali che aiutavano il nemico, ma solo con chi uccideva. Sapevamo tutto, avevamo degli infiltrati ovunque. Nel governo filoamericano avevamo anche un ministro vietcong».
Vedo un giovane deciso, sicuro di sé, che non toerebbe mai al nord, la terra dei suoi. «Ma tu, che hai scelto di vivere in questa, che è la città più “americana” del paese, – gli chiedo infine – cosa preferisci, l’America e il suo stile di vita, o il comunismo?». Cuong risponde senza esitazione: «L’America»!

LA STORIA DI QUY, FRATE VIETNAMITA

Nha Trang (costa meridionale). Raggiungo la chiesa di Sant’Antonio su una bici arrugginita, nel traffico impazzito del pomeriggio. In queste città vietnamite bisogna viaggiare in mezzo alla strada, per lasciare posto alle moto e alle bici che vogliono attraversare contromano. Basta fidarsi, continuare a pedalare diritto senza cambiare il ritmo e la velocità: sono gli altri che ti evitano. Sfioro donne che corrono scalze con enormi carichi bilanciati sulle spalle e ho il cuore in gola, per la paura e la fatica.
Padre Quy’, un frate minore dal viso tondo e il sorriso asimmetrico, è parroco di S. Antonio. Mi parla a lungo del suo paese e mi fa conoscere situazioni e persone. Nato nel ’46 a Phu Gia, villaggio cattolico a 10 km da Hanoi, la sua è una famiglia molto devota, come tante nel nord. Nel ’54 sono costretti ad abbandonare il paese e raggiungono Nha Trang, sulla costa meridionale del paese, su una nave polacca. Quy’ entra nel seminario di Dalat e nel ’71 fa la sua professione a Saigon. Nel ’75 viene inviato in un remoto villaggio di campagna. Vi passerà i successivi 18 anni, lavorando la terra e cercando di rivitalizzare le parrocchie, abbandonate dai preti durante la guerra. La polizia provinciale lo sorveglia e lo autorizza a continuare perché ne apprezza l’opera, che non si limita al catechismo. Quy’ infatti incoraggia la popolazione a lavorare per migliorare le condizioni di vita. Dal ’79 all’’81 la regione soffre una terribile carestia: i contadini muoiono di fame a causa della collettivizzazione forzata. Sono gli anni della fuga, dei «boat people», che tentano con ogni mezzo di fuggire da un paese allo stremo. Molti di costoro sono cattolici, perseguitati dal regime. L’apertura arriverà solo con la «perestroika» di Gorbaciov, nel 1986.

Padre Quy’ è arrivato col suo motorino. Salgo e partiamo. Attraversiamo la città, dominata dalla bella cattedrale, costruita su un rilievo, in pieno centro. Saliamo sulla collina che chiude la baia verso nord, dove ho notato un edificio di stile italiano. È un convento francescano. Chiuso da anni, ha i vetri rotti alle finestre e una bandiera rossa appesa sulla porta. Sulla strada sterrata c’è la statua di San Francesco e, seminascosto da baracche di lamiera ondulata, il monumento funebre di Maurice Bertin, il missionario francese che fondò la missione di Nha Trang e fece costruire i primi conventi dei frati minori in Vietnam.
Gli abitanti del villaggio di Ba Lang, nella provincia di Than Hoa, arrivarono qui nel ’54, sfuggendo al massacro ordinato dal governo per impedie la partenza. Qualcuno dei familiari restò, per custodire la casa nella speranza di un ritorno. Than Hoa subì poi i devastanti bombardamenti americani, testimoniati dalle migliaia di crateri che segnano il suo territorio. I rifugiati di Than Hoa erano tutti pescatori e si installarono lungo questa baia, già occupata da comunità cattoliche. Nel ’79 i religiosi persero le scuole e parte dei terreni, requisiti dal governo che vi costruì una stazione di polizia e le caserme. Restano le chiese, una piccola comunità di carmelitane di clausura e una casa per le novizie delle suore francescane di Maria. Suor Claire, la superiora, è una donna stupenda, di grande esperienza, che ha fatto aggiungere la cappella (dopo i controlli governativi) sul tetto, per non dare nell’occhio. La parrocchia è guidata da padre Pierre Trai, un personaggio interessante, grande amico di Quy’. «Al tempo del presidente cattolico Diem, padre Pierre era segretario del vescovo di Saigon – mi dice Quy’ -. Gli americani fecero uccidere Diem perché si opponeva al loro intervento. Fu un grave errore. Del suo governo si ricorda solo la corruzione e il nepotismo. In realtà Diem, che apparteneva a una grande famiglia di mandarini del re, era stimato anche da Ho Chi Min. Entrambi non si erano sposati e avevano dedicato la loro vita al paese». Padre Pierre ha subìto la prigionia e deve sapere molte cose, che nasconde dietro un sorriso intelligente.

L’ultima visita è forse la più interessante. Padre Phuc fa parte del movimento patriottico. «Sono anch’io francescano, quindi perché non comunista?», mi dice, sorridendo dietro le lenti spesse. Phuc è seduto alla scrivania della sua stanzetta, ingombra di carte, radio e oggetti di ogni tipo. Quy’ mi spiega: «Abbiamo bisogno di essere rappresentati nel governo provinciale e Phuc è il nostro uomo. Hanno cercato di dividere le comunità cristiane, come è stato fatto in Cina, ma qui non ci sono riusciti».
La finestra è aperta sul sagrato, dove stanno lavorando alcuni operai. Parliamo della chiesa vietnamita. «La religione deve essere gestita e controllata dallo stato, che ha creato i movimenti patriottici, buddista e cristiano. Essi sono strumento del partito, ma, mentre la maggioranza dei buddisti è favorevole a questo governo, i cattolici no». La polizia segreta è tuttora onnipresente. La logica dei comunisti nel governare il paese è: opprimere, reprimere, prevenire i movimenti di opposizione. Ho visto i cartelli che invitano a partecipare al voto, con immagini femminili. «Il rinnovamento deve necessariamente partire dall’interno del partito – aggiunge Quy’, che mi pare il più pessimista -. Il comunismo vietnamita è senz’anima. Concussione e corruzione regolano la vita economica, ma il male peggiore è stato fatto all’uomo. La menzogna domina oramai le relazioni personali».
Devo partire. Padre Phuc e Quy’ sorridono, ma si sente amarezza nelle loro parole. «Abbiamo dei giovani intelligenti, che vorremmo continuassero gli studi, ma sono poveri…».
C.C.

Claudia Caramanti




Prima scena – Facevo lo scout

Un professore
di economia
all’università
entra in crisi.

Una giornalista della televisione del Bangladesh intervista il professor Muhammad Yunus.

Gioalista.
Questa sera, signore e signori, intervisteremo una personalità del mondo della cultura, un professore universitario, che è diventato famoso per aver fondato «la banca dei poveri»: Muhammad Yunus… Professore, dove è nato e qual è la sua professione?
Yunus.
Sono nato in Bangladesh, (ex Pakistan orientale), vicino a Chittagong, principale porto mercantile del Bengala. Ho 59 anni, sono di religione musulmana e mi sono laureato in economia. Dopo aver insegnato negli Stati Uniti (nelle università di Boulder nel Colorado e di Vanderbilt nel Tennessee), ho diretto il dipartimento di Scienze economiche a Chittagong.
Gioalista.
I suoi genitori hanno influito sulle sue scelte di vita?
Yunus. Mio padre era orafo: è stato un esempio di uomo forte, amorevole e fedele. Mia madre, casalinga, figlia di mercanti, ha cresciuto ed educato otto figli. Proprio grazie a mia madre, al suo amore per i poveri e diseredati, ho scoperto la mia vocazione. Da giovane ho frequentato gli scout e dallo scoutismo ho imparato molte cose: ad elevare la mente; ad essere caritatevole; a coltivare intimamente la religiosità più che a fermarmi agli aspetti esteriori del rito; ad amare e assistere gli altri esseri umani.
Gioalista.
Parliamo ora un po’ della banca «Grameen».
Yunus.
Nel 1977 ho fondato la «Grameen Bank», la «banca del villaggio», poiché «grameen» deriva da «gram», che significa villaggio. La «Grameen» è un istituto di credito indipendente che pratica microcredito ai poveri senza richiedere garanzie.
Gioalista.
Ma come è nata l’idea di dar vita ad una «banca dei poveri»?
Ho avuto, tornando dagli Usa, una forte crisi di identità: ho provato un senso di vuoto quando mi sono chiesto a che cosa potessero servire le belle teorie economiche che insegnavo. Esse avevano una risposta per tutti i problemi, mentre la gente del Bangladesh, del villaggio di Jobra, vicino all’università, continuava a morire di fame all’aperto. L’idea forte divenne questa: devo dare ad un altro essere vivente, specie se tra i più poveri dei poveri, non una teoria bensì un aiuto, anche modesto, ma reale.

Seconda scena
cinque lire al giorno

Sufia ha 21 anni,
tre figli
e costruisce sgabelli
di bambù.

Villaggio di Jobra, vicino al campus universitario di Chittagong. Il villaggio è diviso in tre parti con gente appartenente a religioni diverse: hindù, buddista e musulmana.
Questa è la storia di Sufia, una giovane donna, che sta fabbricando uno sgabello di bambù davanti alla sua casa diroccata. La lavoratrice è accovacciata per terra. Il professor Yunus la incontra con un collega nel 1976.

Yunus. C’è qualcuno in casa?
Sufia. Non c’è nessuno.
Yunus. Non si spaventi, non siamo estranei: siamo vostri vicini, insegniamo qui all’università e desideriamo soltanto rivolgerle qualche domanda.
Quanti figli ha?
Sufia. Tre figli.
Yunus. Questo che ha in braccio è davvero un bel bambino! Lei come si chiama?
Sufia. Il mio nome è Sufia Begum.
Yunus. Quanti anni ha?
Sufia. 21 anni.
Yunus. È suo il bambù che usa per lavorare?
Sufia. Sì.
Yunus. Dove lo prende?
Sufia. Lo compro.
Yunus. E quanto lo paga?
Sufia. Circa 500 lire.
Yunus. Usa i suoi soldi per pagare?
Sufia. No, me li faccio prestare dal rivenditore, il paikar.
Yunus. Dal rivenditore? E quali sono i vostri accordi?
Sufia. Io gli rivendo gli sgabelli confezionati alla fine della giornata; così ripago il debito. Quello che rimane è il mio guadagno.
Yunus. A quanto rivende uno sgabello?
Sufia. A 505 lire.
Yunus. Così il suo guadagno è di appena 5 lire!
Sufia. Sì.
Yunus. E non potrebbe farsi prestare il denaro da altri e comprare lei stessa il bambù?
Sufia. Sì, ma quelli che lo prestano sono commercianti e vogliono molti, molti interessi. Quando ci si lega con quelli, si diventa solo più poveri.
Yunus. Quanto vogliono, in generale, questi individui?
Sufia. Dipende… Talora il 10% a settimana. Ma io conosco un vicino che paga persino il 10% al giorno!

Sufia torna a lavorare; non può permettersi il lusso di perdere altro tempo a parlare. La sua storia dimostra che in tutte le società esistono usurai.
In Bangladesh, nel 1977, gli usurai si erano sostituiti al mercato ufficiale del credito. I poveri (non per loro colpa, ma per carenza di strutture finanziarie e istituzionali) erano inevitabilmente costretti a subire un processo di alienazione che li annullava, sino a spingerli verso il suicidio. Chi riceve a prestito somme da usurai, per rimborsarle dovrà ottenere un altro prestito e poi un altro: la spirale perversa si affranca solo con la morte.
Se la terra è offerta in garanzia agli usurai, questi ne godranno i frutti sino al rimborso totale del debito. Decorso un certo periodo, se il debito non viene estinto, il creditore-usuraio ha il diritto di comprare il terreno ad un prezzo prestabilito.

Terza scena

Un povero
idealista

Tale appare Yunus
al direttore
di una banca
governativa. Poi…

Nel 1976 Muhammad Yunus incontrò a Jobra il direttore della agenzia della banca governativa «Janata». Il professore aveva pensato di rivolgersi al sistema creditizio ufficiale per ottenere prestiti ai poveri.

Direttore di banca. Buon giorno, professore. Cosa posso fare per lei?
Yunus. Ho una proposta nuova da sottoporvi. Vorrei che effettuaste dei prestiti ai poveri di Jobra. La somma che richiedo è irrisoria. Ho già fatto io un prestito di 27 dollari a 42 persone. C’è molta gente che ha bisogno di denaro per poter lavorare: denaro per materie prime…
Direttore. Quali materie prime?
Yunus. Le rispondo: alcuni fabbricano sgabelli di bambù, altri intrecciano stuoie, altri sono conducenti di risciò. Se potessero avere prestiti da una banca a tassi commerciali, riuscirebbero a vendere liberamente le loro merci sul mercato e a trae un profitto sufficiente per vivere in modo dignitoso.
Direttore. È probabile.
Yunus. Oggi sono costretti a lavorare per tutta la vita come schiavi, senza riuscire a sottrarsi al giogo dei grossisti che prestano loro denaro a tassi di strozzinaggio.
Direttore. Sì, conosco l’usura.
Yunus. Ecco perché sono venuto da lei, per chiederle di concedere prestiti a queste persone.
Direttore. Questa è una cosa che non posso fare.
Yunus. E perché?
Direttore. Quella somma iniziale, di cui lei dice che avrebbero bisogno i poveri, non coprirebbe neppure i costi di tutta la pratica. La banca non sta certo a perdere tempo con queste inezie.
Yunus. Inezie? Per i poveri sono somme importanti.
Direttore. Aggiungo poi che tutta quella gente è analfabeta. Non sarebbe neanche capace di riempire i formulari.
Yunus. In un paese, dove il 75% delle persone non sa né leggere né scrivere, l’obbligo di compilare i moduli è ridicolo.
Direttore. Tutte le banche del nostro paese adottano queste regole.
Yunus. Certo. E questo è molto significativo, non le pare?
Direttore. Anche quando una persona versa del denaro, le chiediamo di segnare la cifra su di un modulo.
Yunus. E perché?
Direttore. Come, perché?
Yunus. Perché la banca non può prendere il denaro ed emettere una ricevuta che dice «ricevo la somma tale dal signor tale»? Perché deve essere il cliente a scrivere, e non può farlo la banca?
Direttore. Ma come si può mandare avanti una banca avendo a che fare con gente analfabeta?
Yunus. È semplice. In cambio dei contanti, la banca emette una ricevuta.
Direttore. E che cosa capita quando uno vuole prelevare?
Yunus. Non so. Un modo semplice deve esserci. Per esempio: la persona potrebbe presentare la ricevuta di versamento al cassiere e questi restituirle il denaro. I problemi contabili sono della banca.
Direttore. Non sono d’accordo.
Yunus. Mi sembra che il vostro sistema bancario sia fatto apposta per escludere gli illetterati.
Direttore. Professore, far funzionare una banca non è semplice come lei crede.
Yunus. Può darsi; però sono sicuro che non è neanche così complicato come lei vuol far credere.
Direttore. Guardi che in qualsiasi banca del mondo chi vuole un prestito deve riempire delle carte.
Yunus. Va bene. Allora posso incaricare qualcuno dei miei studenti di riempire i moduli al posto degli analfabeti. Ciò non dovrebbe creare dei problemi.
Direttore. Lei non capisce, professore, che non possiamo assolutamente concedere prestiti a persone che non possiedono nulla.
Yunus. Perché?
Direttore. Perché non offrono garanzie.
Yunus. Perché avete bisogno di una garanzia?
Direttore. È perché vogliamo che il denaro ci sia restituito che chiediamo una dimostrazione di solvibilità.
Yunus. È assurdo. I più poveri dei poveri lavorano 12 ore al giorno: per vivere devono vendere i loro prodotti. Non c’è ragione che non rimborsino, soprattutto se vogliono un altro prestito che consenta loro di resistere un giorno di più. È la miglior garanzia che possiate avere: la loro vita!
Direttore. Ma lei, caro professore, è un idealista, che passa troppi giorni sui libri.
Yunus. Se siete sicuri che il prestito sarà rimborsato, perché avete bisogno di garanzie?
Direttore. Perché questa è la regola.
Yunus. Allora solo chi dà garanzia può farsi prestare denaro?
Direttore. È così.
Yunus. È una regola stupida che fa sì che si presti denaro solo ai ricchi.
Direttore. Non sono io che faccio le regole: è la banca.
Yunus. Comunque io penso che le regole dovrebbero essere cambiate.
Direttore. In ogni caso noi, qui, non possiamo concedere prestiti.
Yunus. Davvero?
Direttore. Sì. L’agenzia riceve soltanto i depositi dell’università e dei docenti.
Yunus. Credevo che le banche funzionassero principalmente grazie ad attività creditizie.
Direttore. I prestiti possono essere concessi solo dalla sede centrale.
Yunus. Intende dire che se io (non i poveri) venissi a chiederle un prestito, lei non potrebbe dar corso alla mia domanda?
Direttore. Esattamente.
Yunus. Così, quando noi nelle aule insegniamo che le banche prestano denaro, diciamo una bugia?
Direttore. Ho solo detto che, per un prestito, lei deve rivolgersi alla sede centrale. Sta a loro decidere in un senso o in un altro.
Yunus. Se ho ben capito, è meglio che parli con i suoi superiori.
Direttore. È una buona idea.

Qualche giorno dopo, Muhammad Yunus si reca alla sede centrale della banca governativa Janata e incontra il direttore.

Direttore della sede centrale. I governi sono fatti per aiutare i più poveri. Ora, se lei trova nel villaggio di Jobra una persona benestante e disposta a farsi garante per il beneficiario del prestito, io penso che in questo caso la banca potrebbe rinunciare a chiedere una garanzia.
Yunus. Anche se ho dei dubbi che sia la soluzione migliore (perché il garante potrebbe approfittarsi della persona a cui offre la copertura), potrei propormi io come garante.
Direttore. Lei in prima persona?
Yunus. Sì. Accettereste che sia io a garantire tutti i prestiti?
Direttore. A quanto ammonterebbe la somma complessiva richiesta?
Yunus. Non oltre 10 mila taka (1 milione di lire).
Direttore. D’accordo. Accettiamo che lei faccia da garante per 10 mila taka. L’avverto che non potrà andare oltre.
Yunus. Però le dico che, se un beneficiario non rimborsasse, io non coprirò il debito!
Direttore. Essendo lei il garante, potremmo obbligarla a pagare.
Yunus. E come mi obblighereste?
Direttore. Potremmo intentare… una causa legale.
Yunus. Sarei curioso di vedere.
Direttore. Professor Yunus, lei sa benissimo che non porteremo mai in tribunale il capo di un dipartimento universitario, che si rende personalmente garante per un poveraccio. I soldi che potremmo ricuperare non compenserebbero la cattiva pubblicità. In ogni caso, il prestito richiesto è una tale miseria che non vale la pena di affrontare tutte le spese di un processo.
Yunus. Beh, la banca siete voi e sta a voi valutare costi e benefici… Sappiate, però, che se c’è una insolvenza io non pagherò.
Direttore. Lei mi rende le cose difficili, professor Yunus!
Yunus. Ne sono desolato, ma anche la banca rende le cose difficili a un sacco di persone, specialmente a quelle che non possiedono nulla.
Direttore. Io sto cercando di aiutarla.
Yunus. La capisco e non la biasimo: il mio contenzioso è con le regole della banca.
Direttore. A questo punto… non posso che caldeggiare la sua proposta presso i superiori della sede della capitale Dhaka. Staremo a vedere che cosa decideranno.
Yunus. Ma lei, direttore regionale, non è abilitato a prendere la decisione?
Direttore. Certamente. Ma il suo caso è troppo poco ortodosso perché lo tratti da solo. Devo chiedere l’autorizzazione dall’alto.

Dopo 6 mesi (dicembre 1976), Yunus ottiene a favore dei poveri l’apertura di credito che ha richiesto. Inizia l’avventura della banca «Grameen».

Quarta scena

Andrete all’inferno

L’opposizione
alla «Grameen»
dei capi musulmani.
Povere donne!

A ll’inizio l’attività dei funzionari della «Grameen» è stata molto difficile, anche per l’ostilità dei capi religiosi (mullah) nelle zone più tradizionaliste del paese… Un funzionario si reca in un villaggio per illustrare alle donne il finanziamento. Ma incontra il mullah.

Mullah. Signor funzionario della banca, se resta nel villaggio, lo fa a suo rischio e pericolo. Noi non possiamo rispondere della sua incolumità.
Donna. Signor mullah, perché ha minacciato il funzionario?
Mullah. Ditemi, donne, volete andare tutte all’inferno?
Donna. Perché all’inferno? «Grameen» non fa altro che del bene.
Mullah. Disgraziate! Non sapete che è una organizzazione cristiana?
Donna. Il direttore di «Grameen» è musulmano e conosce il corano meglio di lei.
Mullah. Lo scopo di quella gente è distruggere il velo: è per questo che sono venuti.
Donna. Non è vero! Sono venuti per darci la possibilità di fare il lavoro che pensiamo: fabbricare sgabelli, intrecciare stuoie, decorticare il riso, ingrassare una vacca, tirare su i figli… Non c’è nemmeno bisogno di uscire di casa: gli impiegati della banca vengono direttamente da noi. Cosa c’è di contrario al velo? L’unico che va contro il velo è proprio lei, che ci obbliga a fare chilometri per andare a cercare aiuto da un’altra parte.
Mullah. Andate alla bottega dei prestiti. Il padrone è un buon musulmano.
Donna. Ma vuole il 10% alla settimana.
Mullah. Ah, sentite, le vostre anime marciranno all’inferno!
Donna. Perché non ce li porta lei i soldi, se non vuole che andiamo dalla «Grameen»?
Mullah. Mi avete seccato troppo. Andatevene! Sono stanco di essere importunato giorno e notte da questa storia.
Donna. È lei che ci ha importunato, scacciando la «Grameen» dal villaggio. Non ce ne andiamo sino a quando non autorizzerà la banca a tornare!
Mullah. Andate tutte al diavolo! Se volete essere dannate, fate pure, accomodatevi. Io ho fatto il possibile per avvisarvi.

Visti i risultati raggiunti dalla «Grameen», sembra proprio che quelle donne abbiano preferito andare… all’«inferno»!

Quinta scena

A servizio
dei poveri

Regole diverse.
Oltre il 90% dei clienti della «Grameen»
sono donne.

A l termine di una conferenza, il professor Yunus apre un dibattito con il pubblico sul tema della concessione del prestito.

Domanda. A chi viene concesso il prestito?
Yunus. Il prestito è fatto al singolo, in quanto fa parte di un gruppo di persone legate da aspirazioni, condizioni economiche e sociali affini. Il beneficiario del credito appartiene alla vasta categoria dei poveri; è sottoposto dai funzionari della banca ad un approfondito esame verbale. La clientela è prevalentemente femminile: una clientela particolare, storicamente esclusa dal credito.
Domanda. Quali sono le principali caratteristiche del prestito?
Yunus. Il prestito non è elevato e a tasso d’interesse inferiore a quello delle banche; ha durata annuale, con rimborso settimanale a decorrere dalla settimana successiva a quella dell’erogazione del prestito. Le insolvenze sono limitate all’1-2% dei clienti.
Domanda. Ci può parlare del funzionamento della «Grameen»?
Yunus. Il funzionamento è molto diverso dalle regole delle banche tradizionali, anche quelle del Bangladesh.
– I clienti devono dimostrare di essere poveri: essendo anche azionisti della banca, il profitto atteso è l’uscita dal bisogno. La banca ha assolto il suo compito quando le vite dei clienti siano diventate meno difficili e meno sventurate.
– I prestiti erogati per finalità diverse devono produrre una redditività tale per i beneficiari da poter permettere di rimborsare le rate e di vivere una vita dignitosa.
– La banca deve favorire cambiamenti, non solo economici, ma anche sociali.
Domanda. Qual è stata l’espansione della banca in Bangladesh?
Yunus. La banca oggi ha 13 mila dipendenti e 1.086 agenzie; è diffusa in 30 mila villaggi del paese; visita 2.400.000 clienti a domicilio, di cui oltre il 90% sono donne.
Domanda. Che importanza ha la garanzia?
Yunus. Secondo i banchieri tradizionali, la garanzia è indispensabile. In realtà essa non serve a tutelare gli interessi della banca, ma a tenervi lontana la povera gente.
L’obiettivo della «Grameen» è di far sì che i clienti possano intraprendere, cioè possano utilizzare le proprie risorse di disperazione e coraggio per dare un nuovo corso alle cose.
La «Grameen» ha capovolto le due regole tradizionali del sistema creditizio. Prima regola: più si ha, più è facile avere; seconda: se non si ha niente, non si ricava niente.
I clienti, in quanto poveri, vogliono comportarsi bene, perché sanno che il prestito è la loro unica chance.
Domanda. Il modello della «Grameen» è esportabile in altri paesi?
Yunus. Sì lo è, ma non in modo integrale. Vi sono, però, caratteristiche applicabili dovunque:
– il tasso di recupero dei crediti erogati deve avvicinarsi al 100%;
– è indispensabile la giusta individuazione degli interlocutori.
Attualmente esistono banche che si rifanno alla «Grameen» in 58 paesi di ogni continente. I problemi dei poveri sono fondamentalmente gli stessi in tutte le parti del mondo. La cultura della povertà trascende le differenze di razza, lingua, costumi. Il credito è uno strumento universale per liberare le potenzialità delle persone.

Sesta scena

Anche con bill

Cercansi clienti
nell’Arkansas.
Donne, indios
e ghetti di Chicago.

Muhammad Yunus, fondatore della «Grameen», ricerca nuovi clienti nell’Arkansas (Usa), appoggiandosi ad un ufficio che concede sussidi statali e mette a disposizione i tabulati degli iscritti. Si organizza un incontro con alcune persone bisognose. È il 1986. Il governatore dell’Arkansas è un certo Bill Clinton.

Yunus. Supponiamo che la vostra banca vi presti del denaro per iniziare un’attività. Quale somma chiedereste?
Una voce. Ma noi non abbiamo un conto in banca.
Yunus. Ma se l’aveste e la banca vi prestasse del denaro, che cosa ne fareste? Vi è qualcuno tra voi che ha una idea? Magari avete pensato: «Se avessi dei soldi, potrei comperarmi quella data cosa…».
Sentite, io vengo dal Bangladesh, dove gestisco una banca speciale che presta denaro a persone bisognose. La settimana scorsa, in un incontro con il vostro governatore Clinton, mi è stato chiesto di portare la mia banca nella vostra comunità. Io sto valutando se aprire una banca proprio qui; ma prima sono venuto per capire se qualcuno è interessato a farsi prestare del denaro. La mia banca non chiede garanzie: l’unica cosa che occorre è che le persone abbiano un’idea di cosa fare con i soldi del prestito.
Donna A. Io vorrei chiedere un prestito alla sua banca.
Yunus. Benissimo. Di che cifra abbisogna?
Donna A. Mi servono 375 dollari. Faccio l’estetista, ma non posso lavorare come vorrei perché non ho l’attrezzatura necessaria. Se potessi comprarmi una valigetta per manicure, che costa appunto 375 dollari, sono sicura che potrei rimborsare il credito con i soldi in più che guadagnerei.
Donna B. Io sono disoccupata, in quanto la fabbrica di indumenti dove lavoravo ha chiuso per trasferirsi a Taiwan. Con qualche centinaio di dollari potrei acquistare una macchina per cucire, di seconda mano, e quindi confezionare degli abiti da vendere ai vicini.

L a «Grameen» negli Stati Uniti, oltre che nell’Arkansas, si è arricchita di altri numerosi progetti, fra cui: uno presso i sioux nel sud Dakota, un secondo fra i cherokee dell’Oklahoma e un terzo nei ghetti di Chicago.

Conclusione

Saranno famosi?

L’ultima parola
al fondatore
della Grameen Bank,
Muhammad Yunus.

La «Grameen Bank» si incentra sul microcredito, che va contro la cultura dominante. Con esso si favorisce lo sviluppo economico e sociale delle persone; si vince la povertà, che è la più grave tra le ingiustizie.

Da una conferenza
sul microcredito, Usa 1994
Il microcredito offre un’opportunità unica ai poveri: permette loro di affrancarsi dalla schiavitù del denaro offerto dagli usurai e di non mendicare più. Le donne, che prima vivevano recluse, oggi possono parlare, muoversi, scoprirsi la faccia dal velo e contrarre coscientemente un equo debito in denaro.
Il microcredito non va confuso con l’elemosina fatta ai poveri. L’elemosina non è risolutiva, perché ignora i problemi o li lascia incancrenire, toglie lo spirito di iniziativa, elimina il senso di rispetto che ognuno ha verso se stesso.
Il «libero mercato» libera l’individuo, gli dischiude un ampio ventaglio di opzioni, ma non è la panacea di tutti i mali sociali: occorre che il motore della libera impresa non miri soltanto al profitto e guadagno, ma sappia coniugare entrambi con le finalità sociali. Nella nostra società bisognerebbe avere il coraggio di valutare la qualità della vita non dallo stile di vita dei ceti più abbienti, ma da quello di coloro che sono situati nei gradini più bassi della scala sociale.
È stata mossa una forte critica nei confronti del microcredito, dicendo che non favorisce lo sviluppo economico del paese. Se per sviluppo si intende il reddito «pro capite», i consumi «pro capite» o qualche altra cosa «pro capite», la risposta è affermativa. Ma se per sviluppo si intende il miglioramento del tenore di vita della metà più povera della popolazione del Bangladesh, allora è vero il contrario: il microcredito favorisce lo sviluppo economico del paese.

Dal vertice mondiale
del microcredito, 1997
Come direttore di banca, il mio lavoro è quello di prestare denaro. Ma, paradossalmente, tutta l’impresa del microcredito, costruita per e con il denaro, ha nulla a che fare con esso. Il fine più alto della «Grameen» è quello di aiutare le persone a sviluppare il proprio potenziale: quindi non il capitale monetario, bensì quello umano. Il microcredito è solo uno strumento che permette alla gente di liberare i propri sogni, e aiuta anche i più poveri e sfortunati a infondere nella propria vita dignità, rispetto e significato.
Noi ci accontentiamo di rimuovere le barriere strutturali, che per tanto tempo hanno escluso una fascia di persone dal consesso umano. Se queste riusciranno a realizzare appieno il proprio potenziale, il mondo verrà completamente trasformato non solo dall’assenza di povertà, ma dall’impulso economico e sociale di coloro che fino a ieri dormivano ai bordi della strada, vagabondi e mendicanti, non sapendo se quel giorno o quello dopo sarebbero riusciti a mangiare.
Questo vertice sul microcredito è un evento grandioso nel quale celebriamo la liberazione del credito dal giogo della garanzia e salutiamo con gioia la fine dell’apartheid finanziaria. Affermiamo che il credito è più di una transazione commerciale: il credito è un diritto dell’uomo al pari del cibo. Il vertice festeggia il successo di milioni di donne decise, che si sono sollevate dalla povertà estrema a una dignitosa autosufficienza. Riteniamo che in una società umana e civile non vi sia posto per la povertà. Con questo vertice intendiamo relegare la povertà nei musei.

Da una conferenza all’Unesco,
1994
Noi vogliamo che la «Grameen», oggi conosciuta come la banca dei poveri, acquisti dopo il 2000 una nuova identità e diventi famosa come la banca degli ex-poveri.

Antonio Rossi




Per una società senza strozzini

INTRODUZIONE

Se, qualche anno fa, avessimo dovuto rispondere a bruciapelo alle domande «chi è Muhammad Yunus?» e «dove si trova il Bangladesh?», forse saremmo stati in difficoltà.
Oggi, grazie a giornali e tivù, un discreto numero di persone conosce il professor Yunus per aver letto il libro dal titolo provocatorio «Il banchiere dei poveri», Feltrinelli, Milano 1998; di conseguenza ha appreso pure che il Bangladesh è una repubblica indipendente, nata nel 1971 dalla secessione del Pakistan orientale.
Yunus, nato e cresciuto a Chittagong, in Bangladesh, ha insegnato economia in università americane e nel suo paese. Però la notorietà del professore si deve alla «Banca Grameen», da lui fondata, che intende finanziare i bisognosi.
Il Bangladesh è tra i paesi più poveri del continente asiatico e del mondo: vive prevalentemente di agricoltura, producendo riso, grano, legumi, oppio, tè, spezie e iuta. La classe dirigente, che dominava il paese all’epoca dell’indipendenza, era mediocre, corrotta, interessata alla scalata al potere, composta prevalentemente di proprietari terrieri, commercianti, piccoli industriali e usurai.
Con la politica del microcredito a tassi ridotti, si è attuata in Bangladesh una rivoluzione pacifica, che ha permesso al 10% della popolazione (12 milioni su 120 milioni) di affrancarsi dalla piaga dell’usura.

In questo «dossier drammatizzato» raccontiamo, dando voce ai protagonisti del libro, la storia della banca «Grameen». Sembrava un’utopia; invece è diventata una realtà che scavalca i confini del Bangladesh e si sta diffondendo in ogni parte del mondo.

Antonio Rossi




Il “college” degli indios

Si estende su 72 ettari.
Ospita 500 alunni che ricevono
un’educazione multidisciplinare, ma sempre legata
al territorio e alla cultura di provenienza.
Tra gli studenti e le comunità locali si cerca una simbiosi
che faccia crescere entrambi. Questo è il «Cecidic»,
un istituto esemplare, cresciuto sulla terra
che appartenne a un latifondista. Di pessima fama.

Toribio. Sembra un campus universitario nordamericano. Forse per la natura che lo circonda: alberi, colline coltivate, addirittura un torrente. Forse per quelle costruzioni spartane, ma funzionali. O forse per quei mattoncini rossi che ingentiliscono la struttura. Invece, è un istituto superiore creato dalle comunità nasa del Cauca.
Il centro, posto tra Toribio e San Francisco, porta un nome impegnativo: «Centro di educazione, abilitazione e ricerca per lo sviluppo integrale della comunità». In breve, Cecidic.
La prima costruzione che si incontra, oltrepassata l’entrata dell’istituto, è una palazzina a due piani. Ospita la direzione e gli uffici; a destra di essa ci sono case d’abitazione; a sinistra, un salone per le riunioni e le feste; a fianco di questo, un altro edificio, con i due lati più lunghi senza pareti, funge da sala mensa.
Su un lato della grande sala c’è uno spaccio. «Assaggiate un bicchiere di malta (una bevanda analcolica ricavata dai cereali, ndr)», ci dice padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata, in Colombia dal 1978. «A parte le bevande, tutto il resto si produce qui: pane e dolci, yogurt, succhi di frutta e gelati».
Mentre stiamo sorseggiando la bevanda, al bancone si avvicina una persona per salutare padre Antonio. È un professore di lingua nasa. Il Cecidic è nato proprio perché la scuola statale non teneva in alcun conto la cultura autoctona, a partire dalla lingua. «L’idea di partenza – racconta padre Bonanomi – era di recuperare tutti i valori propri della tradizione indigena, inserendoli in un contesto moderno. Non aggiungere una cosa all’altra, ma tentare di far vivere la tradizione nella modeità».
Sull’altro lato della sala mensa c’è la cucina. Alcune signore stanno pulendo delle bellissime verdure: carote, patate, cavoli, insalata, cipolle, mais. «Tutti questi prodotti – spiega soddisfatto padre Antonio mentre curiosa nei pentoloni – provengono dai nostri orti. Non solo ne abbiamo a sufficienza per il consumo interno, ma riusciamo anche a vendee all’esterno. Senza dire dei nostri alberi da frutto. Ora stiamo provando con la coltivazione del caffè: abbiamo piantato 10 mila piantine».
Al Cecidic tutto è coltivato senza usare concimi chimici. «Il vero indio – spiega padre Antonio – si rifiuta di utilizzare questi mezzi innaturali per non violentare la terra, per non rompee la sacralità».
A poca distanza dalla cucina, c’è un’officina da fabbro. «Qui i ragazzi imparano a tagliare e saldare i metalli. Sono loro che hanno costruito tutte le porte, le finestre, i tralicci della scuola. L’idea è di aumentare e migliorare la produzione. Per ora, infatti, facciamo soltanto cose normali, mentre vorremmo fare cose più artistiche: finestre con fiori in rilievo, porte oate, ecc.».
Ci incamminiamo verso il torrente che attraversa la proprietà. «Davanti a noi ci sono i vivai. Da lì sono già uscite 120-130 mila piante, tutti alberi da frutto o da legna. Piante originarie del luogo; non abbiamo importato niente da altre zone». Ma che ne fate?, domandiamo. «Le usiamo per riforestare le nostre montagne. Nel piano di sviluppo delle varie comunità c’è un progetto di riforestazione. Questo progetto viene realizzato dalla scuola».
La deforestazione di queste valli iniziò negli anni ’30 quando i coloni distrussero i boschi per far posto ai pascoli per le loro mandrie. Poi, a partire dagli anni ’70, gli indios cominciarono a recuperare le terre. Negli ultimi anni, però, il problema della deforestazione si è di nuovo aggravato a causa dell’amapola, la cui coltivazione si è rapidamente diffusa.
Mentre attraversiamo il piccolo ponte che supera il torrente San Francisco, sul nostro registratore annotiamo: autosostentamento della struttura e ricadute immediate sulle comunità locali.
«I ragazzi – spiega padre Antonio – mettono in pratica nelle proprie famiglie le nozioni apprese a scuola. Soprattutto le tecniche agricole e di allevamento. Spesso i genitori giudicano con più severità dei professori. Agli studenti più bravi diamo regali in natura: un maialino o una coppia di conigli da portare a casa».
La prima pietra del Cecidic fu posta nel 1992. Da allora il centro è cresciuto senza sosta. Oggi non è solo scuola di arti e mestieri e scuola agropastorale, ma anche istituto per animatori comunitari e scuola di comunicazione. E l’espansione continua tuttora. Come dimostra il fervore dei lavori in corso.
I carpentieri stanno completando gli edifici che ospiteranno altre aule e i laboratori di chimica ed informatica. «Dove lavorano con il bulldozer si scava per fare una piscina. Ai ragazzi piace moltissimo bagnarsi. Una volta si buttavano nel torrente, ma poi abbiamo dovuto proibirlo perché l’acqua è contaminata dalle coltivazioni di agave. Quando sarà pronta la piscina, potranno venire qui con le loro famiglie».
Per il momento le famiglie debbono accontentarsi di riunirsi attorno ai laghetti dell’istituto e, magari, di praticare la pesca sportiva. Nei piccoli bacini d’acqua dolce sono infatti allevati tre tipi di pesce. «I ragazzi che seguono l’allevamento vanno nelle comunità per portare gli avannotti e aiutare la gente ad allevarli».
Mentre visitiamo il centro, notiamo che tutte le aule presentano grandi aperture: le finestre sono strutture metalliche (costruite, ovviamente, nell’officina dell’istituto) senza vetri. Come mai?, chiediamo a padre Antonio. «Ci sono ragioni culturali. I nasa non amano i luoghi chiusi. Molte volte si fa scuola all’aperto».

Piccolo di statura, capelli bianchi, una faccia da buono che non lascia prevedere la vigoria dell’uomo. Nonostante si scheisca, senza Antonio Bonanomi il Cecidic non sarebbe quello che è. Vale a dire una struttura che, tra maschi e femmine, oggi è frequentata da 450 studenti. Un centinaio di essi, quelli che abitano più lontani, sono ospitati dalla scuola. Anche gli insegnanti e le rispettive famiglie vivono all’interno dell’istituto, in abitazioni costruite ad hoc per loro.
Il missionario, facendo leva su perseveranza, tenacia e… capacità di convincimento, ha personalmente raccolto la gran parte dei soldi necessari per costruire e far crescere l’istituto. In Italia soprattutto, ma anche nelle stanze dell’Unione europea.
Fino al dicembre 1998, padre Antonio ne era il cornordinatore generale. Poi si è fatto volontariamente da parte, lasciando l’incarico a Gilberto Muñoz, ex alcalde (sindaco) di Toribio. Padre Bonanomi siede ancora nel consiglio di amministrazione del Cecidic, assieme ai tre governatori di Toribio, San Francisco e Tacueyo. «Ma – precisa subito il missionario, quasi per scusarsi – è un organo più teorico che reale».
Il Cecidic è una realizzazione incredibile, soprattutto quando si rammenta che ci troviamo in una sperduta regione della Colombia. Ma da buoni giornalisti dobbiamo scoprire qualcosa che non funziona. Finalmente, ecco una pecca: l’istituto ha dimenticato tutte quelle persone che si sono ritrovate adulte senza aver mai avuto l’opportunità di studiare. «A dire il vero – precisa padre Bonanomi – abbiamo pensato anche a loro. Ci sono 6 centri per adulti sparsi sul territorio. Alle lezioni serali che si tengono a Toribio e Tacueyo ci sono più di 200 iscritti. Altre centinaia di adulti, più giovani, vengono al Cecidic dopo le lezioni dei ragazzi. Seguono corsi più brevi, ma hanno anch’essi la possibilità di utilizzare i laboratori, i computers, le attrezzature della scuola».
Padre Antonio, ancora una curiosità: la guerriglia che sta sulle montagne qui attorno non ha mai attaccato il centro? «No, mai. È passata, si è fermata, ma non ha mai colpito la scuola, perché apprezza il nostro lavoro. Piuttosto, chi ci fa un po’ di paura sono i paramilitari». Cosa potrebbero fare? «Non lo so. Ma certamente tutto questo è un pugno in un occhio per loro. Che una comunità indigena riesca a fare qualcosa che lo stato non ha mai voluto o potuto o saputo fare…».
Dall’alto della collina padre Antonio ci mostra con orgoglio quanto il Cecidic sia grande. «Il centro si estende su 72 ettari. Ma la cosa più interessante è che tutta questa valle era di proprietà di un solo possidente, uno dei nemici più accaniti di padre Alvaro (ucciso da sicari il 10 novembre 1984, ndr). Dove ora c’è la direzione un tempo c’era la sua casa».
Anche noi torniamo verso la palazzina della direzione, dato che abbiamo appuntamento con un professore della scuola.

Alto e magro, Nestor Wilson Calderon porta dei grandi occhiali sul viso giovanile. È professore di religione, etica e morale. Ma è anche conosciuto per essere il mago della videoregistrazione e nel suo studio lo incontriamo.
«I governi che si sono susseguiti fino ad ora – esordisce Nestor – non hanno mai investito in educazione. E le conseguenze si vedono: la scuola pubblica è meno che mediocre; gran parte dei ragazzi pensa soltanto ad ottenere il pezzo di carta senza riguardo per i contenuti».
Quindi, l’obiettivo del Cecidic è quello di colmare queste lacune? «Siamo nati per tentare di cambiare un po’ questa situazione. Ma soprattutto per dare una svolta alla comunità indigena attraverso un’educazione più partecipativa, più cosciente, più aperta».
E che risposte avete avuto? «Abbiamo giovani molto coscienti. Tuttavia, ancora troppi non vanno a scuola o abbandonano presto. Saltano l’adolescenza e diventano subito adulti con un lavoro e magari una famiglia».
Dei 450 alunni quanti appartengono al gruppo nasa? «Circa il 90 per cento è nasa, mentre i rimanenti sono meticci».
In generale, com’è la situazione delle famiglie da cui i ragazzi provengono? «C’è povertà, ma è una povertà sopportabile. La terra, pur poca rispetto alle necessità, dà di che mangiare: yucca, patate, fagioli, mais».
Povertà, guerriglia, narcotraffico: chiediamo a Nestor quale, a suo dire, sia il problema più grave. «Il narcotraffico – risponde deciso il giovane professore – è come un’erbaccia che strappi qui e torna a crescere là. È un problema molto grave perché divide la comunità tra quelli che hanno i soldi e quelli che non li hanno. E poi crea bisogni nuovi: gli elettrodomestici, i vestiti, l’auto…».
Il lavoro del Cecidic ha attratto l’attenzione di molte università (del Cauca, la xaveriana, la San Bonaventura di Cali, la pontificia di Medellin), che hanno iniziato ad interessarsi alle attività dell’istituto e anche a collaborare. Ma Nestor rimane con i piedi per terra.
«C’è un proverbio che recita più o meno così: “la fama ti mette a letto”. Noi misuriamo il successo del Cecidic con altri parametri, come il crescente numero di iscritti. Questo significa che la gente india ha preso coscienza che l’educazione può migliorare le nostre condizioni di vita».
Nestor non è di etnia nasa, ma è come lo fosse diventato, tanto si è immedesimato nella società indigena.
«Io ho studiato a Bogotà. Ora seguo un corso di scienze sociali con indirizzo antropologico. Conosco bene i missionari della Consolata. Con loro, qui nel Cauca, ho trovato uno spazio particolare, molto importante per la mia vita. Sono convinto della strada che stiamo tracciando: insegnare alla gente a costruire una nuova società che collabori con gli altri, ma non dipenda da essi. Perché se si dipende, si torna schiavi. Credo che il progetto fatto con il popolo nasa sia un modello da imitare per le altre comunità indigene della Colombia, ridotte a vivere in condizioni deplorevoli».

Sono le cinque del pomeriggio. Anche per gli studenti del Cecidic è giunta l’ora di tornare a casa. Chi abita più lontano sale sul vecchio autobus della scuola, che in pochi minuti si riempie fin sopra il tetto di ragazze e ragazzi festanti.
Rombando e suonando il clacson, il mezzo si avvia pian piano verso l’uscita del Cecidic, il «college degli indios» nato sulla terra che fu di un latifondista. Un’altra piccola rivincita per gli indios di Toribio, San Francisco e Tacueyo.

IL CABILDO AUTORITA’ INDIGENA”

Rappresenta l’autorità civile e giudiziaria delle comunità indigene,
Organo collegiale ed elettivo, il cabildo si è guadagnato un ruolo fondamentale,
riconosciuto dalla legge colombiana.
Ma i problemi da affrontare sono molti:
la narcoeconomia, i rapporti con la guerriglia, la questione della terra.
Ne abbiamo parlato con il governatore del cabildo di Toribio.

Toribio. La sede del cabildo si trova quasi all’entrata del paese. È una modesta casa ad un piano con una grande scritta murale: «cabildo indigena resguardo de Toribio». Il cabildo è l’autorità indigena, collegiale ed elettiva, che ha giurisdizione su un resguardo; il resguardo è l’ambito territoriale su cui vive una determinata comunità.
Bussiamo e ci apre un giovane che si presenta come il custode. Dice che non c’è alcun rappresentante del cabildo, però acconsente a farci dare un’occhiata all’ambiente. Sul piccolo e spoglio cortile interno si aprono le porte di alcuni uffici, compreso quello del governatore, la carica più alta tra i membri del cabildo.
Non vi sarebbe nulla di particolare se non fosse per la presenza, su un lato del cortile, di una grata in ferro che chiude dei loculi verticali, piuttosto stretti. È il «calabozo», una sorta di prigione dove il condannato è costretto a rimanere in piedi per un certo numero di ore. Non si tratta dell’unica punizione che il cabildo può comminare. Ci sono anche il «cepo», i ceppi legati al reo; il «latigo», vale a dire le frustate; i lavori forzati nei campi appartenenti al cabildo; infine, il «destierro», l’espulsione dalla comunità, che costituisce, probabilmente, la condanna più temuta.
In effetti, tra le tante funzioni assegnate al cabildo dalla legge 89 del 1890 e dalle norme costituzionali del 1991, c’è anche l’amministrazione della giustizia.
Per sapee di più, chiediamo di poter parlare con il governatore. Ci spiegano che lo possiamo incontrare alla festa del «Tablazo», una località posta pochi chilometri sopra Toribio. Decidiamo di andarvi il giorno dopo.

«Bienvenidos al Tablazo» recita lo striscione. Come lo stesso nome suggerisce, il luogo è un altipiano, una radura aperta tra il verde della valle. È ancora presto e la festa non è ancora entrata nel vivo. Non abbiamo difficoltà a rintracciare il governatore di Toribio, Marcos Yule Yatacuè. Tarchiato, capelli neri e lisci, Marcos è con gli amici Martin, Ricardo e Marino. La funzione del governatore è quella di «servire e orientare» la comunità, tenere le relazioni con le autorità statali, vigilare sul territorio, amministrare i fondi che arrivano dallo stato, cornordinare il lavoro dei 40 membri del cabildo. «Ma – precisa Marcos – sopra di noi c’è il medico tradizionale, l’autorità spirituale da cui tutto muove».
Nella vita Marcos Yule Yatacuè è un linguista, che insegna ad altri professori. È faticoso fare il governatore?, domandiamo. «Sì, perché è un lavoro quotidiano, che ti impegna costantemente, dal lunedì alla domenica. La comunità si rivolge a te per ogni problema». Marcos lamenta che la sua posizione lo costringe a trascurare i 3 figli, ma si vede che è orgoglioso di ricoprire la carica (elettiva, annuale e gratuita).
Chiediamo quali siano le condizioni economiche della comunità. «L’economia è di sussistenza: si produce per mangiare. La terra è poca rispetto alle necessità: molte zone sono impraticabili, altre sono ancora in mano ai latifondisti. E poi non c’è sbocco di mercato per i nostri prodotti. Per questo molti giovani indigeni decidono di seminare amapola, coca o canapa. Sono coltivazioni molto più redditizie».
Raccontiamo a Marcos di aver visitato la sede del cabildo e di aver visto, con un po’ di stupore, la punizione del calabozo. «Il cabildo – spiega tranquillo il governatore – amministra la giustizia ed applica le relative sanzioni. I problemi della giustizia sono attesi da un “consiglio di investigazione” di 4 persone. Queste raccolgono le dichiarazioni e accertano i fatti. Poi sarà l’assemblea della comunità a determinare le punizioni: il numero di frustate, i mesi (o gli anni) di lavoro forzato nella finca del cabildo, fino alla sanzione estrema dell’espulsione. Ora stiamo discutendo su come sanzionare gli indigeni che sono coinvolti nel narcotraffico».
Ancora una volta, dunque, il discorso torna sul problema della droga. «La narcoeconomia produce una decomposizione a livello sociale. Genera vizi e invidia. Chi ha di più umilia chi ha di meno. Proprio il contrario di ciò che dovrebbe essere l’economia indigena: solidale e comunitaria».

In ottobre sono partiti i negoziati di pace tra le Farc e il governo del presidente Pastrana. Che ne pensa il governatore di Toribio? «È un negoziato in cui mancano i rappresentanti della società civile» taglia corto Marcos.
E i rapporti con la guerriglia? «I gruppi armati, le Farc in particolare, contestano la nostra autonomia. Dicono che dobbiamo essere inclusi in una sola forma di società, che le differenze e le pluralità culturali non hanno importanza. Affermano che il territorio non ci appartiene. Non rispettano l’autorità del cabildo».
Però – obiettiamo – come indigeni non potete lamentarvi: la costituzione colombiana vi dà ampie garanzie di autonomia. «Noi indigeni di Colombia abbiamo molti diritti. Ma sono più teorici che reali. Davanti ai nostri progetti rispondono che non c’è denaro. Però, lo trovano subito quando si tratta della guerra o del narcotraffico. Insomma, per ora il cambiamento non si vede. Ma noi dobbiamo insistere e spingere in quella direzione».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




ECUADOR – La partita del cuore

Un giorno padre Felice prese il bus e andò a Guayaquil.
Si trovò nella favela El Fortín, stipata da 50 mila persone e disse:
«Questo posto fa per me, perché sono i più poveri tra i poveri».
Così iniziò la presenza dei missionari della Consolata nella periferia
di una delle più grandi città dell’Ecuador.

GENESI DI UN PROGETTO

Nel 1997, per celebrare i 50 anni di lavoro dei missionari della Consolata in Colombia, fu deciso di aumentare la nostra presenza in Ecuador. Si pensava di aprire una parrocchia nella capitale, Quito, come punto di appoggio per i padri operanti nella diocesi di Riobamba e preoccupati di prestare la loro assistenza religiosa agli indios emigrati dalle parrocchie di Licto e Punin.
Prima di dire l’ultima parola sulla scelta del nuovo campo missionario, feci un giro a Guayaquil, diocesi scarsa di sacerdoti, con una periferia di mezzo milione di persone poverissime, ammassate nelle «invasioni», i terreni occupati abusivamente da poveri diavoli.
Avevo in tasca alcuni indirizzi di preti e suore e, presentandomi, dicevo loro: «Vorremmo, avremmo intenzione di…». Qualcuno mi disse: «Al di là della circonvallazione c’è tutto quello che vuoi. Prendi il bus e vai a vedere». Trovai una favela immensa e spaventosa: una marea di baracche con pareti di canne. «È il posto che fa per noi – mi dissi senza esitazione -. Poveri così non ne ho mai visti».
Mi recai dal vescovo e gli dissi: «Siamo missionari. Cerchiamo un posto dove nessun prete ha messo piede e bisogna incominciare da zero». Il presule mi parlò di El Fortín, la favela che avevo appena visto, e aggiunse: «Prendete una parrocchia in città e da lì potrete iniziare a lavorare tra i baraccati». «È un impegno che assorbirebbe troppo tempo ed energie, monsignore – risposi -. Meglio inserirci subito e a tempo pieno nella favela».
Il vescovo si arrese e mi concesse ospitalità in una casetta, in un quartiere non lontano da El Fortín, dove abitava già un diacono. Arrivò padre Claudio Brualdi, superiore regionale, per vedere il nuovo campo di lavoro e approvò la scelta. Toammo dal vescovo e firmammo un contratto di lavoro per tre anni.
PRIMO APPROCCIO
Avevo in mente già qualche progetto. Dissi al vescovo: «Monsignore, conosce qualcuno in quella zona che potrebbe regalarci un pezzo di terra o venderla a basso prezzo?». «Ma tu non sei missionario?». Capii subito l’antifona: dovevo cavarmela da solo.
Il giorno seguente cominciai a percorrere la favela in lungo e in largo, bussando alle baracche e presentandomi: «Buon giorno! Sono il nuovo parroco. Siete contenti?». Le esclamazioni di sorpresa, curiosità e meraviglia si sprecavano. Qualcuno rispondeva: «Io sono evangelico. Io sono mormone…». La favela è zeppa di sètte. La domenica seguente mi piazzai con un megafono in un crocicchio nel centro del quartiere, gridando: «Santa messa nel blocco numero sei, alle undici del mattino: siete tutti invitati!». Il padrone della casa, vicina a quell’incrocio, mi permise di celebrare l’eucaristia nel cortiletto. Arrivarono una cinquantina di persone, soprattutto bambini. Il ghiaccio era rotto. In seguito mi feci amico di alcuni giovani e insieme preparammo e distribuimmo a tutte le case un volantino con l’orario della messa e l’invito a parteciparvi.
Per oltre un mese continuai a passare di casa in casa, per incontrare la gente e farmi conoscere. Poi lanciai i programmi di preparazione al battesimo, prima comunione e cresima. Finalmente riuscii a comprare sei piccoli lotti di terreno, proprio sul luogo dove avevo celebrato la prima messa, rimborsando la gente e aiutandola a sistemarsi in un’altra parte della favela.
OPERE SOCIALI
Per essere visibili e fare qualcosa di concreto a favore della gente, cominciai a costruire le strutture di base: chiesa, casa parrocchiale e dispensario. Quest’ultimo, soprattutto, mi stava tanto a cuore: ora un medico spagnolo, missionario laico residente in città, viene tre o quattro volte la settimana per visitare gli ammalati.
Il problema dei bambini si è imposto subito con urgenza e gravità. Nella maggioranza delle famiglie è assente la figura del padre; le mamme sono costrette ad andare in città per lavorare, lasciando i bambini soli in casa. A volte le baracche prendono fuoco e i bambini muoiono bruciati. Decisi di costruire un asilo.
Ed è riuscito bene. È stato sovvenzionato con una parte dei proventi raccolti nella «Partita del cuore», giocata a Cagliari tra cantanti e politici e trasmessa da Rai2. Poco tempo dopo il mio arrivo, alcuni tecnici della Rai erano venuti a fare delle riprese nella favela; colsi l’occasione per esporre il progetto dell’asilo. Commossi e impressionati, promisero di aiutarmi: hanno presentato il mio sogno all’associazione «Amici dei bambini»; questi mi hanno aiutato con i proventi della famosa «Partita del cuore»; poi sono venuti a visitare l’opera compiuta e ne sono rimasti felicemente impressionati sia per i fabbricati che per la gestione dell’opera, affidata a due laiche italiane, coadiuvate da alcune maestre locali.
Dato che l’asilo è stato totalmente finanziato, ho potuto investire i risparmi ad esso destinati nella costruzione di una scuola elementare. Il mio sogno era di avviare una scuola di arti e mestieri; ma le finanze del missionario non sono mai proporzionate alla grandezza dei suoi sogni. Consigliato da altre congregazioni, mi sono dovuto accontentare della scuola elementare.
Tanto più che nella favela non ci sono scuole statali: in un quartiere d’«invasione» è tutto illegale. Qualcuno organizza piccole scuole private a livello familiare, ma valgono poco. Per assicurare una vera istruzione ai bambini, mi sento obbligato a costruire una scuola come Dio comanda, anche se per lo stato è «illegale».
Ma il sogno della scuola di arti e mestieri e per la promozione della donna non è abbandonato: ho presentato il progetto alla Comunità europea (Ce), con la speranza che fosse finanziato, come è avvenuto per altri progetti. Durante l’emergenza provocata dal «fenomeno del niño» la Ce promise un aiuto, ma l’approvazione avvenne quando la situazione di emergenza era ormai passata. Ho chiesto e ottenuto il permesso di usare il finanziamento per ampliare il dispensario medico con un laboratorio di analisi.
Seguire tanti progetti è molto impegnativo. A volte le preoccupazioni mi tolgono il sonno, specialmente durante il periodo in cui, a causa della crisi economica, il governo congelò per un anno tutti i fondi bancari. Non sapevo dove sbattere la testa. Ora mi sento più tranquillo, da quando è arrivato padre Tiziano Viscardi, esperto in amministrazione e con notevole esperienza nel seguire i progetti.
PASTORALE E CARITÀ
Ben più assillanti e gravi sono le preoccupazioni derivanti dalla situazione generale della favela, che rende difficile un lavoro specificamente missionario. All’inizio molta gente era prevenuta e restava a guardare ciò che dicevo e facevo. Ora qualcosa è cambiato; ho stretto amicizie con tante persone. Tuttavia poter contare su di loro, convincerle a partecipare a progetti di formazione e impegnarsi a diventare fermento nella comunità… non c’è niente di tutto questo! Ho provato un’infinità di iniziative per smuovere la gente, radunarla e organizzarla, ma con scarsi risultati. Si notano piccoli segni, ma niente di esaltante.
Ma non ho tempo di annoiarmi. Mi reco tutti i giorni in una casa di malati terminali di cancro e Aids; sono cappellano di due collegi privati: un incarico che ci consente di mantenerci. Seguo le varie attività, scorrazzando per la favela giorno e notte. Tutte le sere partecipo a incontri di vario genere: catechisti, neo-catecumenali, carismatici e altri gruppi. Raduni protratti fino a notte fonda.
E poi i vari problemi della gente. Prima di natale, per esempio, il fuoco ha gettato tre famiglie sul lastrico. Sono riuscito a procurare loro, gratuitamente, casette prefabbricate con canne di bambù, come si usa nella favela. E che dire degli ammalati, spesso «immaginari»? Vengono al dispensario con la «ricetta» del medico a chiedere soldi: abbiamo risolto il problema proponendo loro di sottoporsi alla visita del nostro medico: se sono veramente malati ricevono gratis medicine e trattamento. Gli approfittatori sono diminuiti, ma molti, son sicuro, riescono a raggirarmi. Tuttavia preferisco peccare d’ingenuità, piuttosto che rifiutare un aiuto a chi si trova veramente nel bisogno.
C’È POCO DA RIDERE
I più «ricchi» che si vedono nei dintorni (fatto curioso) sono gli indigeni, che hanno in mano tutto il commercio; vengono dalla Sierra, le zone intee e montagnose del paese, dove producono frutta e ortaggi che vendono nelle periferie della città. Gli abitanti della favela sono poveri e bisognosi di tutto: è una popolazione costituita da bianchi e negri, scappati dalla provincia di Esmeralda, regione di afroamericani al nord dell’Ecuador, ai confini con la Colombia.
La miseria è causata dalla disoccupazione e aggravata da una infinità di problemi: violenza e delinquenza, droga e insicurezza. Per sopravvivere alcune donne hanno trovato un lavoro come domestiche in città. La maggioranza sbarca il lunario con piccoli espedienti o lavoretti. Per gli uomini il lavoro più diffuso è quello di vigilante o muratore, occupazioni saltuarie, che non durano più di qualche settimana. Allora vendono biglietti della lotteria, magliette, cianfrusaglie, frutta e caramelle alle fermate dei bus. Alcuni sfaccendati salgono sui bus, raccontano barzellette, poi chiedono l’elemosina: ma c’è poco da ridere.
La famiglia praticamente non esiste. A 15-16 anni le ragazze si ritrovano con un figlio da sfamare. Da sole. «Questo è il figlio del mio primo “compromesso” (promesso sposo) – spiegano molte donne indicandomi i loro bambini -. Quest’altro è figlio del secondo; questo del terzo». E così via. Il matrimonio rimane sempre una promessa vuota.
Anche sotto l’aspetto fisico la favela è un disastro: viviamo nel fango; non essendoci acquedotto, compriamo l’acqua dalle autobotti che passano e la conserviamo nel «bidone dell’acqua». Rubiamo la luce dalla linea che corre lungo la circonvallazione che divide la favela dalla città. Ma non è gratuita: per l’allacciamento bisogna pagare la mafia locale.
MAFIA E POLITICA
Anche le cosiddette «invasioni» (occupazioni di terre per costruire la favela) sono frutto di mafia genuina e giochetti dei politici. Costoro si mettono d’accordo con bande mafiose per scegliere il settore da occupare. Quindi un gruppo di persone comincia a costruirvi le baracche. La polizia interviene per distruggerle, ma il giorno seguente ricomincia la ricostruzione, finché la polizia si stanca e lascia tutti in pace.
Quando la situazione è tranquilla, intervengono i «dirigenti», cioè i supervisori dell’invasione: dividono il territorio in piccoli lotti e li vendono agli immigrati. Parte del ricavato finisce nelle tasche dei politici, i quali, oltre al guadagno, si assicurano un feudo elettorale.
Il terreno dove sorgono le nostre opere, per esempio, era stato invaso da una donna che oggi siede nel consiglio municipale. Non aveva speso un soldo per averlo; ma ce l’ha venduto senza sconti.
Anche altri servizi, come l’allacciamento abusivo alla linea elettrica, è in mano ai cosiddetti «dirigenti». Per avere la corrente ho voluto fare il furbo, col metodo «fai-da-te». Mi hanno tagliato i fili. Ho risposto facendo un gran baccano, per svegliare la gente: «Qui stiamo facendo opere sociali – ho detto ai parrocchiani della zona -. Se le volete datevi da fare per avere la luce, altrimenti chiudo baracca e burattini e vado a costruirle altrove». E la corrente ritoò immediatamente.
Tutta la vita sociale della favela è sottoposta a vessazioni mafiose, come quella di sborsare ai «dirigenti» due mila sucre (1.000 lire) la settimana per la «vigilanza nottua». Da me stanno alla larga. Finora non hanno osato chiedermi niente. Ho cercato a più riprese di stimolare la gente perché si organizzi e si ribelli a questa forma di oppressione e sfruttamento perpetrati alla luce del sole, ma ha paura di essere cacciata e subisce supinamente. Di fatto, alcuni che non hanno pagato sono stati costretti ad allontanarsi: in varie circostanze sono dovuto intervenire per difendere questi sfortunati.
GUARDANDO AVANTI
Per l’immediato futuro non vedo prospettive molto rosee. Sto formando un gruppetto di catechisti, che curo come una chioccia, ma sono ancora «pulcini bagnati», incapaci, per ora, di assumersi delle responsabilità. Avevo trovato un ragazzo di 21 anni, che mi sembrava superiore a tutti gli altri: frequentava la chiesa, parlava bene, era pieno di iniziative. Lo vedevo già un ottimo catechista. Ma un giorno arrivò suo padre trafelato per dirmi che il ragazzo era in prigione: la polizia lo aveva arrestato in centro città, mentre assaltava la gente con la pistola in pugno. Nonostante le delusioni, devo riconoscere che la parrocchia comincia ad essere pervasa da un certo fermento, provocato da vari gruppi di carismatici, neo-catecumenali, catechisti e da un buon numero di persone sempre più coinvolte nella vita della comunità. Tutto fa sperare per un futuro più consolante.
Quando annunciai, durante l’ultima messa a El Fortín, che mi sarei assentato un paio di mesi per le vacanze in Italia, provai un’emozione indimenticabile: dopo la celebrazione mi si avvicinarono tutti in massa per abbracciarmi e salutarmi. Un gesto di amicizia e un segno che qualcosa di buono è stato seminato. E se sono rose fioriranno.

Felice Prinelli




Solidarietà e passione critica

Caro direttore, la celebrazione dell’anno giubilare mi spinge ad operare, oltre che per la mia conversione, anche per l’aiuto ai fratelli più poveri e bisognosi.
Conosco da parecchi anni i missionari della Consolata. Sono in relazione con padre Feando Paladini, alla cui missione (in Congo) vorrei che fosse devoluta la presente somma di denaro. È mio desiderio che tale denaro venga impiegato in qualche attrezzatura sanitaria o nella costruzione di un pozzo, strutture che ritengo necessarie per la salute e l’igiene.
Vorrei poter fare di più, ma sono anche malata; anzi, la prego di scusare la mia scrittura: soffro di artrite reumatornide in tutta la persona e ho gravi deformazioni alle mani. Comprendo perciò le sofferenze degli altri e, come gesto di solidarietà, offro il mio modesto contributo.
Nel 1980 sottoscrissi una borsa di studio per un aspirante che poi uscì dal seminario. Pazienza!
Spero che il Signore gradisca l’offerta delle mie sofferenze, del mio dono in suffragio dei miei genitori Antonietta e Floriano e mi conceda la grazia di compiere sempre la sua volontà.
Tina Cartani – Felline (LE)

H o letto con grande interesse «Prima il profitto, poi la salute» di Carlo Urbani (Missioni Consolata, febbraio 2000).
Ancora una volta viene presentato con molta chiarezza il comportamento delle multinazionali: queste, anche nel settore dei farmaci, pretendono di esercitare il loro potere impedendone la produzione a prezzi accessibili a tutti i paesi del Sud, che sarebbero in grado di produrre medicinali più comuni, con immenso vantaggio per le popolazioni locali. La tutela dei brevetti impedisce che questo avvenga e, quando si ricorre alla licenza obbligatoria, sono colti da pesanti ritorsioni commerciali.
Già in Amici dei lebbrosi (agosto 1999) era stata presentata l’influenza negativa delle multinazionali nel settore. Il dottor Zafarullah, direttore di un progetto sostenuto dall’Aifo in Bangladesh, ha raccontato: le multinazionali sono riuscite a bloccare una richiesta al governo di proibire la vendita di medicinali inutili (se non dannosi) e vietati nei paesi industrializzati e di limitare l’importazione di quelli essenziali; all’iniziativa di produrre farmaci essenziali, da vendere a basso prezzo sotto nomi generici, «le multinazionali hanno risposto con una controffensiva, offrendo incentivi economici alle farmacie che rifiutavano i nostri prodotti; hanno inoltre abbassato i prezzi dei loro prodotti, hanno fomentato scioperi tra i nostri dipendenti e hanno ucciso un nostro lavoratore».
Anche questo è un frutto della globalizzazione, che non pare proprio essere attenta ai bisogni essenziali delle popolazioni del Sud del mondo.
Tuttavia Famiglia Cristiana (n. 6, 2000) si dimostra cauta al riguardo. Il settimanale, dopo aver ricordato che nell’Africa sub-sahariana un bambino su sei non supera i cinque anni, afferma: «occorre leggere attentamente dietro le cifre, pur senza arrivare a demonizzare acriticamente la globalizzazione». Si dice pure che la popolazione con una bassa soglia di sviluppo si è ridotta dal 20 al 10 per cento.
Come conciliare questi dati con altri pubblicati in gennaio da Cem/Mondialità? Qui si scrive: «Pur ospitando solo un miliardo e 200 milioni di persone, pari al 23% della popolazione planetaria , il Nord si garantisce l’84% del prodotto lordo mondiale. Viceversa il Sud, che accoglie gli altri 4 miliardi e 100 milioni di persone, partecipa al prodotto lordo con una quota pari al 16%».
Dispiace che certi giornali si mantengano sempre su posizioni ambigue, mentre condivido pienamente ciò che ha scritto Missioni Consolata: «è immorale e scandaloso che il reddito di tre individui nel Nord del mondo sia pari a quello di 600 milioni di persone nel Sud». Cosa ci dicono queste cifre?
Rallegramenti a Piermario Pertusio, di Chieri, che chiede informazioni per partecipare alla mobilitazione contro il negoziato del Wto e grazie a lei, direttore, per le indicazioni sul Centro nuovo modello di sviluppo.
Da tempo utilizzo Missioni Consolata per le lezioni di diritto ed economia nel biennio e sollecito la rivista a continuare la pubblicazione coraggiosa di altre notizie sulle reali conseguenze del sottosviluppo, che i missionari conoscono bene.
sr. Pier Paola – (via «e-mail»)

Abbiamo «incoiciato» queste due lettere, perché esprimono bene gli atteggiamenti di tanti nostri lettori, che non ringrazieremo mai abbastanza.
Nella commovente lettera della signora Tina si rispecchia la solidarietà di chi, pur nella sofferenza, sa guardare a quanti vivono in situazioni più precarie. Suor Pier Paola, poi, offre notevoli spunti di riflessione e merita un plauso per la capacità di insegnare diritto ed economia usando anche Missioni Consolata, confrontandola con altre pubblicazioni.
Ecco cosa vuol dire essere liberi, e «non portare il cervello all’ammasso».

Tina Cartani e sr. Pier Paola