ECUADOR – La partita del cuore

Un giorno padre Felice prese il bus e andò a Guayaquil.
Si trovò nella favela El Fortín, stipata da 50 mila persone e disse:
«Questo posto fa per me, perché sono i più poveri tra i poveri».
Così iniziò la presenza dei missionari della Consolata nella periferia
di una delle più grandi città dell’Ecuador.

GENESI DI UN PROGETTO

Nel 1997, per celebrare i 50 anni di lavoro dei missionari della Consolata in Colombia, fu deciso di aumentare la nostra presenza in Ecuador. Si pensava di aprire una parrocchia nella capitale, Quito, come punto di appoggio per i padri operanti nella diocesi di Riobamba e preoccupati di prestare la loro assistenza religiosa agli indios emigrati dalle parrocchie di Licto e Punin.
Prima di dire l’ultima parola sulla scelta del nuovo campo missionario, feci un giro a Guayaquil, diocesi scarsa di sacerdoti, con una periferia di mezzo milione di persone poverissime, ammassate nelle «invasioni», i terreni occupati abusivamente da poveri diavoli.
Avevo in tasca alcuni indirizzi di preti e suore e, presentandomi, dicevo loro: «Vorremmo, avremmo intenzione di…». Qualcuno mi disse: «Al di là della circonvallazione c’è tutto quello che vuoi. Prendi il bus e vai a vedere». Trovai una favela immensa e spaventosa: una marea di baracche con pareti di canne. «È il posto che fa per noi – mi dissi senza esitazione -. Poveri così non ne ho mai visti».
Mi recai dal vescovo e gli dissi: «Siamo missionari. Cerchiamo un posto dove nessun prete ha messo piede e bisogna incominciare da zero». Il presule mi parlò di El Fortín, la favela che avevo appena visto, e aggiunse: «Prendete una parrocchia in città e da lì potrete iniziare a lavorare tra i baraccati». «È un impegno che assorbirebbe troppo tempo ed energie, monsignore – risposi -. Meglio inserirci subito e a tempo pieno nella favela».
Il vescovo si arrese e mi concesse ospitalità in una casetta, in un quartiere non lontano da El Fortín, dove abitava già un diacono. Arrivò padre Claudio Brualdi, superiore regionale, per vedere il nuovo campo di lavoro e approvò la scelta. Toammo dal vescovo e firmammo un contratto di lavoro per tre anni.
PRIMO APPROCCIO
Avevo in mente già qualche progetto. Dissi al vescovo: «Monsignore, conosce qualcuno in quella zona che potrebbe regalarci un pezzo di terra o venderla a basso prezzo?». «Ma tu non sei missionario?». Capii subito l’antifona: dovevo cavarmela da solo.
Il giorno seguente cominciai a percorrere la favela in lungo e in largo, bussando alle baracche e presentandomi: «Buon giorno! Sono il nuovo parroco. Siete contenti?». Le esclamazioni di sorpresa, curiosità e meraviglia si sprecavano. Qualcuno rispondeva: «Io sono evangelico. Io sono mormone…». La favela è zeppa di sètte. La domenica seguente mi piazzai con un megafono in un crocicchio nel centro del quartiere, gridando: «Santa messa nel blocco numero sei, alle undici del mattino: siete tutti invitati!». Il padrone della casa, vicina a quell’incrocio, mi permise di celebrare l’eucaristia nel cortiletto. Arrivarono una cinquantina di persone, soprattutto bambini. Il ghiaccio era rotto. In seguito mi feci amico di alcuni giovani e insieme preparammo e distribuimmo a tutte le case un volantino con l’orario della messa e l’invito a parteciparvi.
Per oltre un mese continuai a passare di casa in casa, per incontrare la gente e farmi conoscere. Poi lanciai i programmi di preparazione al battesimo, prima comunione e cresima. Finalmente riuscii a comprare sei piccoli lotti di terreno, proprio sul luogo dove avevo celebrato la prima messa, rimborsando la gente e aiutandola a sistemarsi in un’altra parte della favela.
OPERE SOCIALI
Per essere visibili e fare qualcosa di concreto a favore della gente, cominciai a costruire le strutture di base: chiesa, casa parrocchiale e dispensario. Quest’ultimo, soprattutto, mi stava tanto a cuore: ora un medico spagnolo, missionario laico residente in città, viene tre o quattro volte la settimana per visitare gli ammalati.
Il problema dei bambini si è imposto subito con urgenza e gravità. Nella maggioranza delle famiglie è assente la figura del padre; le mamme sono costrette ad andare in città per lavorare, lasciando i bambini soli in casa. A volte le baracche prendono fuoco e i bambini muoiono bruciati. Decisi di costruire un asilo.
Ed è riuscito bene. È stato sovvenzionato con una parte dei proventi raccolti nella «Partita del cuore», giocata a Cagliari tra cantanti e politici e trasmessa da Rai2. Poco tempo dopo il mio arrivo, alcuni tecnici della Rai erano venuti a fare delle riprese nella favela; colsi l’occasione per esporre il progetto dell’asilo. Commossi e impressionati, promisero di aiutarmi: hanno presentato il mio sogno all’associazione «Amici dei bambini»; questi mi hanno aiutato con i proventi della famosa «Partita del cuore»; poi sono venuti a visitare l’opera compiuta e ne sono rimasti felicemente impressionati sia per i fabbricati che per la gestione dell’opera, affidata a due laiche italiane, coadiuvate da alcune maestre locali.
Dato che l’asilo è stato totalmente finanziato, ho potuto investire i risparmi ad esso destinati nella costruzione di una scuola elementare. Il mio sogno era di avviare una scuola di arti e mestieri; ma le finanze del missionario non sono mai proporzionate alla grandezza dei suoi sogni. Consigliato da altre congregazioni, mi sono dovuto accontentare della scuola elementare.
Tanto più che nella favela non ci sono scuole statali: in un quartiere d’«invasione» è tutto illegale. Qualcuno organizza piccole scuole private a livello familiare, ma valgono poco. Per assicurare una vera istruzione ai bambini, mi sento obbligato a costruire una scuola come Dio comanda, anche se per lo stato è «illegale».
Ma il sogno della scuola di arti e mestieri e per la promozione della donna non è abbandonato: ho presentato il progetto alla Comunità europea (Ce), con la speranza che fosse finanziato, come è avvenuto per altri progetti. Durante l’emergenza provocata dal «fenomeno del niño» la Ce promise un aiuto, ma l’approvazione avvenne quando la situazione di emergenza era ormai passata. Ho chiesto e ottenuto il permesso di usare il finanziamento per ampliare il dispensario medico con un laboratorio di analisi.
Seguire tanti progetti è molto impegnativo. A volte le preoccupazioni mi tolgono il sonno, specialmente durante il periodo in cui, a causa della crisi economica, il governo congelò per un anno tutti i fondi bancari. Non sapevo dove sbattere la testa. Ora mi sento più tranquillo, da quando è arrivato padre Tiziano Viscardi, esperto in amministrazione e con notevole esperienza nel seguire i progetti.
PASTORALE E CARITÀ
Ben più assillanti e gravi sono le preoccupazioni derivanti dalla situazione generale della favela, che rende difficile un lavoro specificamente missionario. All’inizio molta gente era prevenuta e restava a guardare ciò che dicevo e facevo. Ora qualcosa è cambiato; ho stretto amicizie con tante persone. Tuttavia poter contare su di loro, convincerle a partecipare a progetti di formazione e impegnarsi a diventare fermento nella comunità… non c’è niente di tutto questo! Ho provato un’infinità di iniziative per smuovere la gente, radunarla e organizzarla, ma con scarsi risultati. Si notano piccoli segni, ma niente di esaltante.
Ma non ho tempo di annoiarmi. Mi reco tutti i giorni in una casa di malati terminali di cancro e Aids; sono cappellano di due collegi privati: un incarico che ci consente di mantenerci. Seguo le varie attività, scorrazzando per la favela giorno e notte. Tutte le sere partecipo a incontri di vario genere: catechisti, neo-catecumenali, carismatici e altri gruppi. Raduni protratti fino a notte fonda.
E poi i vari problemi della gente. Prima di natale, per esempio, il fuoco ha gettato tre famiglie sul lastrico. Sono riuscito a procurare loro, gratuitamente, casette prefabbricate con canne di bambù, come si usa nella favela. E che dire degli ammalati, spesso «immaginari»? Vengono al dispensario con la «ricetta» del medico a chiedere soldi: abbiamo risolto il problema proponendo loro di sottoporsi alla visita del nostro medico: se sono veramente malati ricevono gratis medicine e trattamento. Gli approfittatori sono diminuiti, ma molti, son sicuro, riescono a raggirarmi. Tuttavia preferisco peccare d’ingenuità, piuttosto che rifiutare un aiuto a chi si trova veramente nel bisogno.
C’È POCO DA RIDERE
I più «ricchi» che si vedono nei dintorni (fatto curioso) sono gli indigeni, che hanno in mano tutto il commercio; vengono dalla Sierra, le zone intee e montagnose del paese, dove producono frutta e ortaggi che vendono nelle periferie della città. Gli abitanti della favela sono poveri e bisognosi di tutto: è una popolazione costituita da bianchi e negri, scappati dalla provincia di Esmeralda, regione di afroamericani al nord dell’Ecuador, ai confini con la Colombia.
La miseria è causata dalla disoccupazione e aggravata da una infinità di problemi: violenza e delinquenza, droga e insicurezza. Per sopravvivere alcune donne hanno trovato un lavoro come domestiche in città. La maggioranza sbarca il lunario con piccoli espedienti o lavoretti. Per gli uomini il lavoro più diffuso è quello di vigilante o muratore, occupazioni saltuarie, che non durano più di qualche settimana. Allora vendono biglietti della lotteria, magliette, cianfrusaglie, frutta e caramelle alle fermate dei bus. Alcuni sfaccendati salgono sui bus, raccontano barzellette, poi chiedono l’elemosina: ma c’è poco da ridere.
La famiglia praticamente non esiste. A 15-16 anni le ragazze si ritrovano con un figlio da sfamare. Da sole. «Questo è il figlio del mio primo “compromesso” (promesso sposo) – spiegano molte donne indicandomi i loro bambini -. Quest’altro è figlio del secondo; questo del terzo». E così via. Il matrimonio rimane sempre una promessa vuota.
Anche sotto l’aspetto fisico la favela è un disastro: viviamo nel fango; non essendoci acquedotto, compriamo l’acqua dalle autobotti che passano e la conserviamo nel «bidone dell’acqua». Rubiamo la luce dalla linea che corre lungo la circonvallazione che divide la favela dalla città. Ma non è gratuita: per l’allacciamento bisogna pagare la mafia locale.
MAFIA E POLITICA
Anche le cosiddette «invasioni» (occupazioni di terre per costruire la favela) sono frutto di mafia genuina e giochetti dei politici. Costoro si mettono d’accordo con bande mafiose per scegliere il settore da occupare. Quindi un gruppo di persone comincia a costruirvi le baracche. La polizia interviene per distruggerle, ma il giorno seguente ricomincia la ricostruzione, finché la polizia si stanca e lascia tutti in pace.
Quando la situazione è tranquilla, intervengono i «dirigenti», cioè i supervisori dell’invasione: dividono il territorio in piccoli lotti e li vendono agli immigrati. Parte del ricavato finisce nelle tasche dei politici, i quali, oltre al guadagno, si assicurano un feudo elettorale.
Il terreno dove sorgono le nostre opere, per esempio, era stato invaso da una donna che oggi siede nel consiglio municipale. Non aveva speso un soldo per averlo; ma ce l’ha venduto senza sconti.
Anche altri servizi, come l’allacciamento abusivo alla linea elettrica, è in mano ai cosiddetti «dirigenti». Per avere la corrente ho voluto fare il furbo, col metodo «fai-da-te». Mi hanno tagliato i fili. Ho risposto facendo un gran baccano, per svegliare la gente: «Qui stiamo facendo opere sociali – ho detto ai parrocchiani della zona -. Se le volete datevi da fare per avere la luce, altrimenti chiudo baracca e burattini e vado a costruirle altrove». E la corrente ritoò immediatamente.
Tutta la vita sociale della favela è sottoposta a vessazioni mafiose, come quella di sborsare ai «dirigenti» due mila sucre (1.000 lire) la settimana per la «vigilanza nottua». Da me stanno alla larga. Finora non hanno osato chiedermi niente. Ho cercato a più riprese di stimolare la gente perché si organizzi e si ribelli a questa forma di oppressione e sfruttamento perpetrati alla luce del sole, ma ha paura di essere cacciata e subisce supinamente. Di fatto, alcuni che non hanno pagato sono stati costretti ad allontanarsi: in varie circostanze sono dovuto intervenire per difendere questi sfortunati.
GUARDANDO AVANTI
Per l’immediato futuro non vedo prospettive molto rosee. Sto formando un gruppetto di catechisti, che curo come una chioccia, ma sono ancora «pulcini bagnati», incapaci, per ora, di assumersi delle responsabilità. Avevo trovato un ragazzo di 21 anni, che mi sembrava superiore a tutti gli altri: frequentava la chiesa, parlava bene, era pieno di iniziative. Lo vedevo già un ottimo catechista. Ma un giorno arrivò suo padre trafelato per dirmi che il ragazzo era in prigione: la polizia lo aveva arrestato in centro città, mentre assaltava la gente con la pistola in pugno. Nonostante le delusioni, devo riconoscere che la parrocchia comincia ad essere pervasa da un certo fermento, provocato da vari gruppi di carismatici, neo-catecumenali, catechisti e da un buon numero di persone sempre più coinvolte nella vita della comunità. Tutto fa sperare per un futuro più consolante.
Quando annunciai, durante l’ultima messa a El Fortín, che mi sarei assentato un paio di mesi per le vacanze in Italia, provai un’emozione indimenticabile: dopo la celebrazione mi si avvicinarono tutti in massa per abbracciarmi e salutarmi. Un gesto di amicizia e un segno che qualcosa di buono è stato seminato. E se sono rose fioriranno.

Felice Prinelli

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