Metropoli e personaggi – Naipaul

Un caleidoscopio di «intoccabili» e «maharaja», atei e credenti, conservatori e progressisti, indù, musulmani, sikh, cristiani.
E non solo.

«Per me l’India è un paese
difficile.
Non è, né può essere la mia
patria, eppure non riesco
a respingerla, né a esserle
indifferente; non posso
visitarla semplicemente
da turista.
Le sono al tempo stesso
troppo vicino
e troppo lontano».

Così scrive Vidiadhur S. Naipaul nel suo saggio «India: una civiltà ferita», frutto del viaggio nel paese tra agosto 1975 e ottobre 1976. Ancora più traumatica fu la visita nel 1962, da cui scaturì «Un’area di tenebra».
Nel 1989 Naipaul, ormai scrittore affermato a livello internazionale, rivisitò l’India con l’occhio reso più acuto dall’esperienza e incontrò figure emblematiche nei contesti più disparati di un paese velato ancora da un’aura di mistero.
«India», frutto di questo nuovo viaggio, è una serie di mirabili affreschi in cui i personaggi, intervistati dallo scrittore con profondità psicologica, sono immersi in uno scenario che presenta i mutamenti avvenuti negli ultimi 30 anni e cattura eventi culturali ancora vivi, malgrado il peso dei secoli, nella vita quotidiana degli indiani.

«Bombay… C’erano ora su entrambi i lati della strada file di edifici di cemento, ammuffiti ai piani alti dal clima (troppo sole, troppa pioggia, troppa calura) e sudici ai piani bassi, come se assorbissero la sporcizia della brulicante umanità che si muoveva a livello del marciapiede, come se quell’umano sudiciume procedesse verso l’alto, superando una dopo l’altra le linee di marea fino a raggiungere i piani ammuffiti…
La chiesa nominata dall’autista era la celebre cattedrale della Goa dov’è sepolto san Francesco Saverio. La cattedrale e gli altri edifici portoghesi della città vecchia, un po’ rientrati rispetto al fiume Mandovi, hanno un effetto sconcertante in questa coice: così lontani dall’Europa… in quella luce così abbacinante, con le spiagge bianche che ricordano più le isole deserte del Nuovo Mondo… che villaggi e cittadine sovraffollate della vecchia India, con il suo passato intricato…».
nn In una Bombay cosmopolita e caotica Naipaul è colpito da una «coda lunga un paio di chilometri», formata dai dalit (intoccabili), decorosamente vestiti «per rendere omaggio al loro santo da lungo tempo sepolto, a quel dottor Ambedkar che nella fotografia indossava una cravatta all’europea».
Intervista Namdeo, poeta dalit e fondatore nel 1974 delle Dalit Panther, che afferma: «C’era un’epoca in cui eravamo trattati come animali. Adesso viviamo come esseri umani. E tutto grazie ad Ambedkar».
Sempre a Bombay, metropoli di opportunità e disperazione, lo scrittore incontra un giovane pujari, cresciuto in un ashram, fedele esecutore di riti complessi secondo la tradizione indù, e il ventinovenne Papu, agente di borsa di successo e fedele seguace di Giano: perciò vegetariano e impegnato la domenica mattina come volontario nella bidonville di Dharewi.
Anwar, giovane musulmano, è invece attendibile testimone delle continue violenze tra indù e musulmani.

«L a gente ora aveva più soldi a disposizione: si vedeva chiaramente anche dalla campagna del Kaataka, lungo la strada a sud di Goa. La povertà indiana non era scomparsa, c’erano ancora mucchi d’immondizia, le case e i vicoli dall’aspetto cadente, ma i campi di canna da zucchero, di cotone e di altri prodotti agricoli avevano un’aria lussureggiante e ben tenuta; nei villaggi le case erano spesso pulite, con i muri intonacati e i tetti di tegole rosse. Non c’era traccia dell’indigenza che avevo visto 26 anni prima dall’autobus lento che si fermava ad ogni passo; non più quegli scheletri ambulanti dagli sguardi allucinati. La rivoluzione agricola lì era una realtà, la disponibilità di cibo era visibile…».
nn Invitato a colazione da Prakash, ministro del governo del Kaataka, lo scrittore osserva la lunga fila di gente in attesa di udienza e favori, perché «i ministri sono gli odiei maharaja» e godono di molti privilegi concessi a chi «detiene il potere». «I maharaja avevano perso il titolo nel 1956, ma disponevano ancora di un appannaggio reale».

«A Bangalore hanno la sede istituzioni scientifiche di ogni disciplina. Le strade, fiancheggiate dagli alberi della città-giardino dei maharaja, sono ormai invase dai rumori, dalla puzza e dai gas di scarico dei veicoli a tre ruote e delle automobili. Certo non è più la città in cui passeggiare piacevolmente…».
nn A Bangalore Naipaul apprende dal giornalista scientifico Deviah la storia di Ayappa, il cui tempio attira folle di pellegrini; incontra il dottor Srinivasan, presidente della Commissione indiana per l’energia atomica, e altri due scienziati, i cui antenati erano «sacerdoti», che lo erudiscono sulla complessa storia di quelle regioni e lo inducono a commentare: «Da quell’incontro (tra il sapere difficile dei sacerdoti, l’attenzione a compiere con precisione rituali complessi, il silenzio che accompagnava taluni riti e la nuova educazione) era nata una nuova generazione di scienziati».

«Non ero mai riuscito ad adattarmi a Madras, per quanto fosse una città ospitale e piena di movimento. Le piramidi scolpite delle torri del tempio, le palme, i bramini a torso nudo in mezzo alle antiche colonne di pietra, la cisterna d’acqua di Mylapore con i suoi gradini tutt’intorno, enorme e bellissima, sembravano cose viste nelle vecchie stampe europee…».
nn Visitando Madras Naipaul afferma: «Ci voleva tempo a capire che era avvenuto un rovesciamento di poteri, che i bramini erano sulla difensiva, pur essendo ancora musicisti e danzatori, cuochi e sacerdoti dei templi».
È quanto emerge dalle interviste a Veeramani, guida dal 1973 del Movimento progressista dravidico. In quell’anno era morto il fondatore Periyar, ateo e razionalista. Il Movimento aveva vinto per la prima volta le elezioni nel 1967 e ha continuato a vincere, anche se è anti-braminico e non abbraccia tutte le caste, ma solo quelle medie. Alla gente di infimo livello il Movimento non offre alcuna protezione.

«Per anni e anni si diceva che Calcutta stava morendo. Le città… non muoiono solo quando vengono abbandonate. Forse le città muoiono quando perdono i piaceri che sono loro propri: gli stimoli visivi, la sensazione più acuta delle possibilità umane, e diventano semplicemente luoghi con troppe persone, e le persone soffrono… Nel 1946 ci furono i massacri tra indù e musulmani. Segnarono l’inizio della fine per la città. L’anno dopo, l’India era indipendente, ma divisa. Anche il Bengala fu diviso. Un numero enorme di profughi indù arrivò a Calcutta e vi si accampò e Calcutta, cui mancava anche solo un centesimo della capacità di recupero dell’Europa, non si riprese mai».
nn A Calcutta Naipaul raccoglie le testimonianze di due superstiti del Partito comunista indiano, nato nel 1969: Dipanjan, docente di scienze in un college, si era appassionato alla causa dei braccianti, ma intraprese azioni violente e fu imprigionato; Debu, importante dirigente di una grossa società, si unì al Partito, ma fu testimone di vicende cruente e devastatrici.
Commenta Naipaul: «Dalla compassione immediata e l’umiliazione per i poveri e il proprio paese al suicidio culturale e economico, a nuove coercizioni e violazioni, a una causa insomma molto lontana dalla fame dei contadini».
Il padre di Chidananda Das Gupta, altro interlocutore di Naipaul, aveva speso la sua vita come predicatore-bramino, la cui fede «unisce l’essenza dell’insegnamento upanishadico con alcuni elementi cristiani… Credeva nel diritto delle donne all’educazione, negli ideali democratici e nell’abolizione del sistema di casta».

L’ultimo bastione dell’India musulmana è Lakhnau, capitale dello stato dell’Uttar Pradesh. Naipaul vi incontra Amir, raja di Mahmudabad. Il padre era stato membro della Lega musulmana tra gli anni ’30-40 e, nel 1945, aveva offerto il figlio di soli 2 anni all’imam, per servire la fede sciita.
Con l’indipendenza di India e Pakistan nel 1947, Amir iniziò una vita di peregrinazioni. La guerra indo-pakistana del 1965 permise al governo indiano di confiscare tutte le proprietà del genitore e l’atroce conflitto indo-pakistano per il Bangladesh del 1971 lo condusse, due anni dopo, alla tomba; fu sepolto nel tempio di Mashhad nell’Iran orientale.

La famiglia di Vishwa Nath, settantenne editore di Woman’s Era, viveva a Delhi da 400 anni. Dal 1931, anno della marcia del sale di Gandhi, l’editore ha sempre indossato il khadi, il tessuto di cotone filato a mano, affermando: «Gandhi ha fatto di noi una nazione. Eravamo come topi e fece di noi degli uomini».
«Il tempio d’oro sorge ad Amristar, lo stagno del nettare, perché si dice che lì vi fosse uno stagno noto al primo guru. La doratura, riflessa tutt’intorno al lago artificiale, produce un effetto magico» scrive Naipaul, che è riuscito ad intervistare alcuni stretti collaboratori di Bhindranwale, famoso capo sikh, che nel tempio trovò la morte dopo un attacco delle forze governative.
Iniziato per alleviare le «sofferenze del popolo», perché i sikh vedono «Dio come un liberatore», il movimento si trasformò in un covo di terroristi. Il giornalista Dalip commenta: «Bhindranwale arrivò al tempio d’oro il 20 luglio 1982. Ne uscì morto il 6 giugno 1984. Ha danneggiato i sikh come di più non si poteva… Ha danneggiato il Punjab e l’India».
Silvana Bottignole

Silvana Bottignole