CINA – Mao sconfittto da Mc Donald’s

A 10 anni dalla strage di Tien’anmen, a 50 dalla rivoluzione comunista, il grande paese asiatico sorprende i visitatori occidentali per i progressi e il dinamismo della sua gente.
Pur tra contraddizioni e limiti, i cinesi apprezzano la «nuova via».

Sono ritornata in Cina dopo sette anni. Ho visitato alcune città importanti. Le ho trovate molto cambiate. Ma, soprattutto, è cambiata la gente.

ERA IL BENIAMINO
Beniamino è il nome che aveva scelto per lui l’insegnante d’italiano, perché era il suo studente prediletto.
Non so se credere a tutto ciò che racconta questo troppo sorridente mister Song. Parla a raffica e sa di esagerare: sembra proprio che non riesca a porre freno al fiume di parole, espressioni idiomatiche e proverbi tutti imparati a memoria alle lezioni di italiano. Lo sento eccitato dalle possibilità che gli offre il nuovo lavoro di interprete e guida.
Song non è mai uscito dalla Cina; eppure sa tutto dell’Italia, dell’Europa. La sua era una famiglia di medici a Pechino: anche la sorella e il cognato lo sono. Nato e cresciuto all’interno di un ospedale, dove i genitori lavoravano, al momento della selezione per entrare all’università, è stato indirizzato d’obbligo alla facoltà di lingue.
Ora gongola e non ne fa mistero. Si lascia sfuggire che ha potuto persino comprarsi una seconda casa, a Qindao, la più bella città della Cina. Una città costruita dai tedeschi nello Shandong durante il breve periodo della loro «concessione» in terra cinese.
A PECHINO In bicicletta
Non riconosco più la capitale della Cina. Sapevo che, in anni recenti, il paese era tutto un cantiere, mentre ne avevo un ricordo opprimente: cielo ed edifici grigi, afa, caldo e una folla immensa. Un mare di biciclette, un muro che dovevi sfidare per attraversare le strade, che per incanto, si apriva e richiudeva dietro di te.
Anche oggi i ciclisti non si fermano mai: sanno evitare pedoni e camion, e continuano a pedalare sereni. Molti sono donne, signore coi calzini di nylon, ragazze con guanti e mantellina leggera che protegge dal sole.
Vent’anni fa, drappelli di contadini delle «comuni», in uniforme blu, venivano guidati nei vasti spazi della «città proibita». Vi era stupore e ingenuità nei visi dei cinesi di allora. Visi segnati da fatica, denti guasti che denunciavano malnutrizione. Oggi i sorrisi mostrano dentature forti e sane; i berretti hanno scritte americane; i vestiti sono occidentali.
Ho portato con me l’uniforme blu che mi ero comprata allora, forse l’abito più pratico per il viaggio. Non le fanno più così, con la casacca a kimono, chiusa sul fianco da nodi di stoffa, e i pantaloni arricciati alle caviglie.
Percorro Wandi fujing, una grande strada commerciale che ormai ha poco di orientale. Nelle vie laterali sono spuntati grandi alberghi e edifici lussuosi e si costruisce ancora. È notte, ma i cantieri non si fermano. Un operaio batte il piccone sulla pietra e altri cinque stanno a guardare. Vedo passare bici-carretto, cariche di cucine con tanto di camino. Chiusi i mercati, si torna a casa, macinando decine di chilometri in una metropoli sterminata.
Tra i cantieri e neon, mai spenti, dei centri commerciali, noto qualche brandello delle vecchie case di Pechino, le case dei vicoli. Le riconosci perché sono basse e hanno tetti di coppi grigi. Accanto alla più bella, noto un cancello sormontato dalla croce. Una parete nasconde una delle quattro chiese cattoliche patriottiche di Pechino.
Un tempo queste case avevano il cortile, con un albero che dava frescura. Poi sono venute le fabbriche e ogni cortile aveva una ciminiera. Ne restano ancora tante, che spuntano fra i tetti, incongrue e abbandonate. Le vecchie famiglie avevano dovuto stringersi nelle loro abitazioni con decine di nuovi arrivati.
Ora Pechino ha più di 15 milioni di abitanti; nessuno lo sa con esattezza, tanto meno il governo. Ai contadini è proibito di spostarsi in città, pena una forte tassa da pagare.
Da 50 anni la capitale subisce devastazioni. La città era il luogo più sacro, il centro dell’impero: quindi del mondo per i cinesi. Distrutte le mura, ha conosciuto l’orrore della rivoluzione culturale, che ha risparmiato ben poco dell’«urbanistica divina» e ha inciso ancora di più sulle persone. Oggi, almeno, si costruisce meglio e gli abitanti hanno un migliore tenore di vita.
Agli occidentali spiace che si abbattano i vecchi quartieri, così tipici. Ma come far vivere la gente, senza servizi, nel centro della capitale?
A nord-ovest della «città proibita», un quartiere è stato risparmiato. Qui non sorgeranno grattacieli o case popolari. Le antiche e deliziose case di vicolo, circondate da muri di mattoni grigi e con l’unica apertura chiusa da un portone di legno laccato, sono state ristrutturate e dotate di ogni servizio. Naturalmente vi abitano i ricchi, che sono molti a Pechino.
Hanno riedificato templi e palazzi, rasi al suolo dalla rivoluzione comunista. Un ritorno d’orgoglio, per il glorioso passato, o un cinico calcolo di interesse turistico? Difficile dirlo, come è arduo capire quanto ci sia di fede vera nella frequentazione dei templi buddisti, lamaisti, taoisti, che risorgono in fretta dopo anni di chiusura. «Siamo atei – dichiarano i miei amici -. Tutti i cinesi lo sono».
Ma sono anche tanto superstiziosi.

I «MCDONALD’S» DI SHANGHAI
Siamo a New York o a Shanghai? File di palloncini rossi e ombrelli rovesciati sono appesi tra un tetto e l’altro delle case dall’aspetto troppo cinese.
Nel centro di Shanghai, nell’antico quartiere risanato, tutto è lucido, nuovo e ricco. Negozi di lusso si alternano a ristoranti, pagode e palazzi ricostruiti, affollatissimi. Nella frenetica metropoli sono più di 20 i McDonald’s e oltre 50 i Kentucky fried chicken. Shanghai resta comunque affascinante. Girato l’angolo, si scopre la vecchia città, che aspetta moribonda di essere spazzata via. Una città putrescente, fatta di casette a due piani e abbaini roventi strette nei vicoli scuri, dove la mattina passa il carretto a vuotare le latrine. Salveranno le casette più belle, insieme al quartiere inglese e francese con le villette vittoriane. Le altre saranno buttate giù.
Gli anziani, in pigiama, possono ancora sdraiarsi su sedie di bambù e prendere il fresco della sera. Si gioca a domino, si cucina, si vive sui marciapiedi durante l’estate caldissima.
Le luci, dall’altra parte del fiume, traggono in inganno. Sono edifici vuoti: grattacieli costruiti chissà da chi, con chissà quale danaro, per accogliere uffici e alberghi. File di villette, nate come funghi lungo le tangenziali che portano fuori città, sono vuote da anni: troppo care per i poveri e troppo brutte per i ricchi.
Anche i cinesi a volte fanno male i loro calcoli.
L’ESERCITO DI XIAN
Xian è diventata più bella, da quando hanno scoperto il famoso «esercito di terracotta». C’è ancora molto da scoprire, studiare e scavare intorno a quello che era il terminale della via della seta. Sensazionale il museo. Dovremmo imparare dai cinesi: in pochi anni hanno saputo creare dal vuoto di Mao centri di cultura, che sono pure operazioni commerciali. Nei lussuosi negozi che precedono l’ingresso ai musei, dove il visitatore deve comunque passare, si può comprare di tutto. Copie perfette degli oggetti esposti: cavalli, guerrieri, libri e altro.
A Xian conosco Marcello, un ragazzo volitivo e intelligente che ha imparato bene la storia e l’arte del suo paese. Oggi, invece di lavorare, lo vedo sempre al telefonino, una mania dei cinesi come degli italiani. Gli chiedo cosa sta facendo. Gioca sulla borsa di Hong Kong? Telefona alla fidanzata?
Mister Zhou (questo il suo vero nome) si ricompone e mi spiega: «Ho l’occasione di comprare la casa. Devo dare oggi una risposta. Ora ho deciso, prenderò un alloggio all’ultimo piano, il settimo; così pagherò di meno e avrò un appartamento di 70 metri quadrati». Zhou mi spiega che solo nelle case di oltre sette piani viene installato l’ascensore…
Jiang lo conosco nel Guizhou, una regione agricola, tropicale, nel sud. Originario di Wuhan, grigia megalopoli nel cuore industriale della Cina si è trasferito a Guilin, dove è ancora viva l’antica tradizione della pittura paesaggistica su carta di riso e seta. C’è sicuramente lavoro per un tipo sveglio come Jiang, che ha imparato presto l’italiano come tanti giovani «artisti» di questa città.
«LEI» e suo figlio
Lei è il nome di un’energica signora sui 50. La laurea in spagnolo l’ha ottenuta dopo una lunga interruzione degli studi durante la rivoluzione culturale. «Ero al secondo anno d’università -mi dice -. Con i miei compagni, fui mandata in una regione remota a lavorare la terra».
La famiglia di Lei ha origini contadine. I genitori, abbandonata la dura vita dei campi, raggiunsero Shanghai negli anni ’40. Entrambi trovarono lavoro nel più grosso emporio della metropoli, raggiungendo un certo benessere.
Dopo l’esperienza del confino nel regime maoista, Lei riuscì a laurearsi; sposatasi, venne ad abitare a Souzhou, piccola e storica città del delta, famosa per i giardini e le dimore dei mandarini. Il mandarinato è interessante. Il fatto che l’amministrazione di uno sterminato impero fosse affidata ad un’élite di intellettuali, scelti per merito dopo esami difficilissimi, mi affascina.
Lei ha un solo figlio, come vuole la legge per chi vive in città. Il ragazzo ha 25 anni; vive negli USA, a Filadelfia, dove lavora nell’industria elettronica guadagnando 100 mila dollari l’anno. Precoce da bambino: a 4 anni era in prima elementare e a 14 era pronto per l’università. Lei sapeva che le migliori opportunità per il figlio erano in America.
Riuscì a pagare il primo anno di università; poi si rivolse ad un parente, fuggito da anni ad Hong Kong, per un prestito. Dal terzo anno in poi, problemi non ve ne furono: il giovane lavorava e continuava a brillare negli studi. Dopo il dottorato, il lavoro presso una grande azienda.
«Sono stata l’anno scorso a trovare mio figlio – racconta Lei con un sorriso un po’ malinconico -. Filadelfia mi è piaciuta. Ma non saprei adattarmi. Non conosco l’inglese e le comunità cinesi, laggiù, non hanno niente in comune con la nostra cultura. E, poi, sono vecchia».
UN DILEMMA A CANTON
«Fatelo questo bambino, ma fatelo per amore e non per calcolo!».
Sono le ultime parole che rivolgo a Marisa, al controllo dei passaporti nella nuova stazione di Canton, che sembra un aeroporto: tutta marmi, cristalli e insegne luminose. Sento che devo chiamarla e incoraggiare la giovane donna che mi ha aiutato a scoprire la sua città.
Marisa Wu ha 31 anni e parla un italiano perfetto. Sposata e con un figlio, è una delle migliori guide della città. È riuscita a comprarsi un appartamento, ad un prezzo politico, in un vecchio stabile della cornoperativa dell’agenzia di stato. «Abbiamo speso 30 mila yuan (6 milioni di lire). Ora stiamo pensando di avere un secondo figlio; ma, per farlo, dovremmo pagare la multa di 60 mila yuan». Marisa ha un sorriso incerto quando mi confida i suoi dubbi. «Sono preoccupata per il futuro. Chi penserà a noi due, quando saremo vecchi?». La politica del figlio unico, in vigore da molti anni per arginare la crescita demografica, ha messo in crisi un antico sistema di vita, basato sui valori tradizionali. Primo fra tutti, il rispetto per l’anziano.
Questi grassi bambini cinesi della rampante classe media, super viziati e coccolati da nonni e genitori, domani si prenderanno l’onere di accudire gli anziani? Li ho visti sul volo Alitalia da Milano a Pechino, al ritorno da un viaggio in Europa, fare i capricci per lo swatch del duty free.
Se la Cina cambierà ancora con la presente velocità, quando Marisa sarà anziana, dei valori confuciani che hanno retto il suo paese per 2 mila anni rimarrà ben poco.

Claudia Caramanti

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