I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani



Missionario “da poco”

Arrivato, finalmente, ad essere prete,
padre Ugo,
giovane missionario della Consolata,
si confida e spiega
agli amici il perché della sua scelta.

Sono Ugo; ho 36 anni, torinese, missionario della Consolata e, da un paio di mesi, anche sacerdote: un prete «da poco» insomma, come sovente, in tono scherzoso, vengo classificato dagli amici.
Sono una vocazione «adulta», essendo entrato in seminario alla venerabile età di 29 anni. Prima di quel fatidico 28 settembre 1991, (giorno in cui varcai, insieme alla mia grossa valigia, la porta della nostra comunità di Rivoli per iniziare questa avventura) c’è stato un lungo cammino di ricerca, le cui origini si perdono chissà dove nel mio passato di adolescente.

Sono cresciuto,
spiritualmente, con i missionari della Consolata, che gestiscono la parrocchia «Regina delle missioni» di Torino, in cui ho compiuto i primi passi nel cammino di fede. È la parrocchia dove, tra il resto, si trova la Casa madre dei missionari della Consolata, nella cui chiesa riposano le spoglie del beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore.
Sebbene gli anni della giovinezza e adolescenza siano stati marcati in modo indelebile dall’esperienza di gruppo vissuta nella comunità parrocchiale, è stato soltanto in un secondo tempo che ho cominciato ad individuare i sintomi della vocazione religiosa.
Ho dovuto prima conseguire, senza infamia e senza lode particolare, il diploma tecnico che mi ero prefisso, adempiere gli obblighi di leva, frequentare per un po’ le liste di collocamento, lavorare per quasi nove anni come addetto alle vendite in libreria, prima di rendermi conto che quello che facevo, seppur mi desse soddisfazione, mancava di senso di direzione, di qualcosa che garantisse compiutezza e realizzazione al mio vivere.
Amici, affetti, passatempi e occupazioni varie entravano in questo «fritto misto alla piemontese», rappresentante la mia vita, un pot-pourri di facce, eventi e situazioni in cerca di un principio unificatore.
La vocazione religiosa e il sacerdozio sono un evento che si colloca talmente in profondità nell’esperienza umana, che è impossibile spiegarlo in poche battute; ma se dovessi individuae rapidamente l’origine in seno alla mia esperienza, direi che è stata la risposta a quel senso di incompiutezza che continuavo ad avvertire.

Non è stato subito
tutto facile. Genitori ed amici hanno stentato un po’ a capire. Io stesso ho avuto bisogno di tempo affinché potessi sentire che stavo inseguendo una realtà e non una chimera, che non stavo fuggendo da me stesso, ma stavo seguendo… Qualcuno.
È stato il tempo dei pallidi tentativi e delle ritirate a rompicollo, degli slanci coraggiosi e delle paure pazzesche, degli impegni generosi e delle nasate contro il muro. Forse chi mi ha conosciuto in quel periodo sarà rimasto deluso dalla mia incostanza e mancanza di chiarezza su come affrontare la vita, ma ci voleva… Voltandomi indietro, riconosco in quel tempo gli anni più veri della vita, in cui avvertivo che qualcosa o Qualcuno stava facendosi spazio, a scapito di altre realtà che non sempre riuscivo facilmente ad abbandonare.
Poi, la decisione di entrare in seminario: per i primi due anni a Rivoli, per il biennio di studi filosofici; il cammino di formazione mi ha successivamente condotto in Veneto, per l’anno di noviziato; e, poi, quattro anni a Londra, per ultimare i miei studi di teologia. Tanti esami universitari, lavoro ed esperienze pastorali in parrocchia, con i rifugiati, i senzatetto, i disabili, la vita comunitaria e la preghiera hanno scandito il tempo di questi mesi passati, sino alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale.
Oggi sono qui,
prete «da poco», a far «pratica sacerdotale», in attesa di una nuova destinazione e con l’ansia di fare bene. Questo per far sì che, con l’andar del tempo, possa diventare un prete «da molto»; e questa volta non soltanto in senso temporale….

Ugo Pozzoli




Visibile o invisibile?

«M ille volti!». Ma non sono un po’ troppi per «un solo» padre? Anche se noi italiani abbondiamo con il numero «mille» e, sovente, lo poniamo accanto a «grazie».
Ne nasce una delle più belle espressioni che si possa avere ed anche la più libera, perché nessun codice ci obbliga a pronunciarla. Noi la doniamo spontaneamente con… mille grazie.
È così (o quasi) anche in altre lingue. Many thanks dicono gli inglesi o anche thank you very much; i francesi: grand merci; i tedeschi pure, come noi, usano il «mille»: «tausend dank».
«Mille volti», dunque, anche perché ognuno e, soprattutto, le religioni si raffigurano Dio a modo loro.
Un filosofo ha impostato il suo sistema di pensiero sul volto, sul guardarsi in faccia. È uno dei gesti più personali ed espressivi che si possa compiere.
In quante maniere, poi, si può guardare la faccia della persona che ci sta di fronte, prima di accarezzarla, baciarla… o schiaffeggiarla! Gesù fa iniziare l’adulterio dallo «sguardo» (Mt 5, 27). Inoltre c’è un grande insulto in quelle poche parole di cronaca: «Allora sputarono in faccia a Gesù e lo schiaffeggiarono» (Mt 26, 66).
Il volto è la parte più personale di un essere umano e parlare del volto di un individuo è parlare proprio della persona in quanto tale.
«Quale diritto avete… di pestare la faccia ai poveri?» si domanda il profeta Isaia (Is 3, 15). San Paolo, quando scrive che «la gloria di Dio rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6), intende proprio dare una definizione completa, estea ed intea, della persona di Cristo e della sua opera.
Ma parlare del «volto» di Dio è un’altra faccenda.

R ainer M. Rilke (1875-1926), conosciuto anche per quel magnifico libretto «Storie del Buon Dio» (perché i grandi le raccontino ai bambini), narra che Dio volle mostrarsi separatamente a tre pittori per farsi ritrarre; ma nessuno lo dipinse in modo uguale e le tre immagini non si rassomigliavano.
A. Lunn racconta di una bambina che stava disegnando con dei pastelli. La mamma le chiese che cosa stesse facendo.
– Sto disegnando Dio.
– Ma Dio nessuno l’ha mai visto.
– Ebbene, ora lo vedranno.
Mosè sul Monte Sinai (Es 33, 18-23) chiese a Dio di poter vedere la sua faccia (più propriamente: «Mostrami la tua gloria»). Il Signore gli rispose: «Farò passare davanti a te il mio splendore… Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Dio gli ordinò di mettersi in una spelonca della roccia: «e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere». Pressappoco la medesima scena si ripeté con il profeta Elia sullo stesso luogo di Mosè (1 Re 19, 9-13).
L’affermazione fondamentale e radicale che «Dio è invisibile» passa nel Nuovo Testamento: «Dio nessuno l’ha mai visto» (Gv 1, 18; 1 Gv 4, 12). Tuttavia, come Paolo nella Lettera ai Romani abbonda con «però ora…», così, circa l’invisibilità di Dio, occorre aggiungere un «ma ora», che costituisce la grande novità del cristianesimo: Dio è invisibile, ma ora Gesù Cristo «lo ha rivelato», essendo lui «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15). Fino a rispondere al discepolo Filippo che gli chiedeva «Signore, mostraci il Padre»: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9).
A questo punto potremmo trovarci di fronte a varie vie, ma in salita.

N ove teologi si riunirono in congresso per tre giorni, nel giugno del 1990, per disquisire sull’ombra di Dio – L’ineffabile e i suoi nomi. Certamente, più che Dio ad essere nell’ombra, lo furono loro, con discorsi quasi del tutto incomprensibili.
Viene in mente l’oscurità proverbiale di Karl Rahner, grande teologo tedesco, che, conscio del suo parlare difficile, esclamava: «Dio mio, che cosa dovrei fare?». Al punto che il fratello Ugo (teologo pure lui), dopo la morte del parente, esclamò: «Vorrà dire che passerò il restante della mia vita a tradurre in tedesco gli scritti di Karl».
Per parlare di Dio, c’è la via dei mistici, ma anche questa è in salita, anzi qui i sentirneri neppure esistono.
C’è la via maestra della bibbia, una via alberata e splendida, che attraversa giardini in fiore, e fiori sono i «nomi» di Dio, i «luoghi» in cui trovare Dio e, soprattutto, l’esperienza unica che Cristo stesso fece di Dio.
C’è la via percorsa da Giovanni Paolo II, nella sua seconda enciclica Dives in misericordia (1980), a commento della parabola del «figlio prodigo» e delle parole rivolte da Gesù a Filippo: «Chi vede me vede il Padre».
Poiché – scrive Ireneo – «è invisibile il Padre del Figlio. Ma è visibile il Figlio del Padre», che è Gesù.

Igino Tubaldo




ITALIA – I marciapiedi della discordia

Nei consultori familiari e negli ospedali torinesi
le pazienti extra-comunitarie sono sempre di più.
La maggioranza ha problemi seri. Portati dai paesi che hanno abbandonato o «presi» sulle strade italiane.

Christine ha 25 anni, è in Italia dal ’95; vi è giunta al seguito di un’amica, Kitty, nigeriana come lei, che le aveva proposto di aiutarla nei suoi preparativi per il matrimonio. Avrebbe dovuto fermarsi a casa sua, a Torino, per un paio di mesi, il periodo giusto per organizzare un evento che, nella loro tradizione, assorbe molta energia. Christine lascia il lavoro di impiegata a Benin City e arriva nel nostro paese. Per alcune settimane è ospite della ricca amica e si gode felice la vacanza.
Un giorno, però, Kitty la invita ad uscire con lei e la conduce in una strada, il corso Regina Margherita. «Ecco, io lavoro qui. Faccio la prostituta. Da domani sarà anche il tuo mestiere». Christine, scioccata, le chiede perché non glielo avesse detto prima e si rifiuta di cedere all’imposizione della sua falsa amica. Iniziano così violenze e ricatti di ritorsione alla famiglia; infine, un rito woodoo sancisce nel sangue il patto di sfruttamento e di paura. Sessanta milioni da «restituire» attraverso un lavoro che inizia al mattino per terminare a notte inoltrata: un viaggio da Torino alla provincia di Cuneo, 30-50 mila lire a cliente, per tre mesi. Per sé non può tenere neanche i soldi per il cibo: deve consegnarle tutto. Un inferno domestico fatto di piatti e bottiglie scagliate contro di lei (e il suo corpo ricoperto da cicatrici lo dimostra senza equivoci), fame e umiliazioni, pericoli e insidie per la sua salute ed incolumità. Finalmente, la fuga verso la libertà in casa di un amico, un cliente gentile che la riempie di regali. Due anni di serenità e di fiducia riacquistate; poi, all’improvviso, una mattina bussa alla porta la mamam con due scagnozzi: volano insulti e minacce, per lei e il suo fidanzato. Lui si spaventa e la manda via di casa. Così, terrorizzata, delusa e disperata, è di nuovo sul marciapiede, fino alla comparsa dei primi sintomi di una malattia terribile: l’Aids.
Ora Christine è ricoverata in ospedale, ha abbracciato la fede cristiana attraverso un gruppo di religiosi che l’ha accolta e assistita. Purtroppo il virus avanza, ma lei, forse, non ne è cosciente. Tra lacrime e guizzi di un’antica e indistruttibile allegria, ha raccontato la sua storia e così la conclude: «Ho smesso di fare quella vita squallida e le maledizioni woodoo della mia ex mamam non mi fanno più paura. Ora credo in Dio e in Gesù».
La storia di Christine è tristemente comune a molte donne africane e albanesi. Molte, malate, si rivolgono ad ospedali e A.s.l. torinesi per ricevere aiuto medico, ma anche un sostegno psicologico. Per tante altre, invece, è l’aborto il motivo di ingresso nelle strutture sanitarie.

Consultorio familiare di via Sospello n. 139, Borgo Vittoria, Torino: nella sala d’attesa siedono alcune donne immigrate. Un’anziana signora italiana le guarda con diffidenza borbottando ad alta voce.
Quando è il suo tuo, senza ribattere, una di loro si alza e si dirige in uno degli ambulatori.
Sono tante le pazienti straniere anche in questa circoscrizione, la V: gli operatori parlano del 15% dell’utenza, formata, in prevalenza, da egiziane, maghrebine, ma anche da nigeriane e di altre nazionalità. Non tutte sono in regola, ma proprio per la natura stessa dei consultori, che sono facilmente raggiungibili dal pubblico, sono gratuiti e garantiscono l’anonimato (legge n. 405/75), possono accedervi senza paure o rischi.
Tuttavia, l’ambiente «multietnico» di via Sospello non costituisce un caso isolato. In molti quartieri torinesi, infatti, la presenza di cittadini extra-europei è forte e ben visibile e viene a riflettersi anche all’interno delle strutture pubbliche. Marocchini, peruviani, cinesi, rumeni, filippini, egiziani, nigeriani, somali, albanesi, ex-jugoslavi, senegalesi, tunisini… vanno a formare la numerosa popolazione (si parla di qualche decina di migliaia) di nuovi utenti, regolari e clandestini. L’azienda sanitaria torinese che ne ha registrato la maggioranza dei ricoveri in Day Hospital e in degenza ordinaria è di sicuro il Sant’Anna – Regina Margherita, dove i pazienti extra-comunitari, donne e bambini (alcuni dei quali vittime di guerra o colpiti da gravi malformazioni ad organi vitali) toccano punte del 6-7-8%. In questa prospettiva, un lavoro molto importante viene svolto dal mediatore socio-culturale, che facilita la comunicazione tra medici e pazienti stranieri.
Un altro ospedale dove la presenza annua di utenti immigrati si aggira intorno alle 400-500 unità è il Mauriziano; seguono poi il Martini Nuovo di via Tofane, le Molinette, il San Giovanni Bosco, l’Amedeo di Savoia, il San Giovanni Vecchio e il Maria Vittoria.
Gli interventi medici richiesti vanno dalle interruzioni di gravidanza (7-800 su tutte le A.s.l. torinesi); ai parti (400 relativi a donne straniere anche comunitarie, e circa 200 di sole cittadine extra-comunitarie); all’asportazione e cura di tumori; al trattamento di malattie sessualmente trasmissibili come l’Aids, di vari tipi di patologie respiratorie e polmonari, di disturbi della personalità, di psicosi, nevrosi, ansie…
Un esempio fra tutti: la A.s.l. 3 (Amedeo di Savoia, Maria Vittoria, distretti di base e consultori a loro connessi) ha accolto circa 1.500 utenti immigrati.
Particolarmente importante è il ruolo svolto dai consultori familiari: molte donne vi si rivolgono per chiedere aiuto e consiglio per le più disparate ragioni medico-sanitarie, ma anche socio-assistenziali e psicologiche. «Da noi arrivano madri all’ottavo mese di gravidanza, immigrate dall’Africa o dal mondo arabo, che non hanno mai fatto un esame di controllo» racconta Maryam, una mediatrice socioculturale egiziana. «Altre hanno problemi con il partner e denunciano gravi violenze domestiche; alcune donne arabe prenotano, tra mille remore e tormenti, interruzioni di gravidanza assolutamente vietate dalla loro cultura di appartenenza; altre ancora hanno problemi di solitudine e di depressione, o paura di malattie che non conoscono; qualcuna richiede una consulenza per convincere il marito a superare barriere culturali e tradizionali che gli impediscono di far uso di profilattici».
«Capita anche che qualche ragazza albanese o nigeriana si rechi in ospedale, perché non si sente bene e scopra da un momento all’altro di essere affetta dall’Aids». Casi umani disperati che affiorano alla superficie di un’ormai ampia fascia di popolazione immigrata, che non è solo portatrice di criminalità, ma che è spesso vittima di abusi, ingiustizie e sfruttamento.
Come Amina, la giovane donna maghrebina, incinta, che viveva in uno squallido retrobottega, tra topi e scarafaggi, senz’acqua e senza possibilità alcuna di arginare un’estesa infezione puerperale all’apparato genitale: per quel locale malsano, indegno di un essere umano, pagava 700 mila lire al mese al proprietario, un italiano.

LYDIA, SARAH E LE ALTRE

È un mercato in espansione. Negli ultimi anni il fenomeno della prostituzione
extra-comunitaria si è allargato
dalle periferie delle grandi città alle strade
dei piccoli centri di provincia.
Cronaca (non commentata) di un viaggio
in treno da Torino a Rovereto.

Ore 17.59, stazione di Torino Porta Susa. Sono tante le nigeriane in attesa del treno interregionale per Milano. Quando arriva, la maggioranza sale su uno dei vagoni di testa. Si sistemano in gruppetti di tre. Alcune, allungate le gambe, appoggiano subito la testa sulle sacche nere. Altre estraggono cibo odoroso da sacchetti di plastica. Passa il controllore che esamina con attenzione i loro biglietti. Alcune mostrano l’abbonamento. Mentre fingo di leggere i giornali, sbircio ciò che accade. Una di loro estrae dal beauty uno specchietto e inizia a spalmarsi con cura una crema bianca sul viso. La dirimpettaia, camicietta nera a lustrini fluorescenti, si passa un pennello sulle palpebre. La terza, jeans attillati e felpa, si tinge le unghie delle mani con un colore verde smeraldo. Il vagone sembra essersi trasformato in una silenziosa «sala trucco». Allungo lo sguardo verso i sedili più avanti. Un’altra nigeriana, lunghi capelli neri raccolti in treccine, specchietto in mano, si trucca con attenzione ciglia e sopracciglia. La sua vicina, scarpe con tacchi altissimi, si sta riposando con il viso nascosto sotto la tenda del finestrino, ma è svegliata dal trillo del telefonino che la compagna seduta a fianco tiene legato alla cintola dei pantaloni. Alle 19 e 45 il treno entra nella stazione centrale di Milano. Le nigeriane scendono velocemente e si disperdono. Io mi dirigo verso un altro binario.

Ore 22.30, stazione di Rovereto, provincia di Trento. La stazione si trova lungo la strada statale. La luna illumina la notte. Ci dirigiamo verso sud, in direzione dell’incrocio per il lago di Garda. Saranno meno di tre chilometri. Sulla destra c’è un distributore di benzina. Accanto, un po’ in penombra, una nigeriana è in attesa. Procediamo incrociando poche auto. A sinistra si trova un altro distributore. E un’altra donna nera. Slanciata, indossa un abito molto corto, nonostante la temperatura. Passiamo il ponte sul torrente Leno. Sulla sinistra c’è una nuova pompa di benzina. E, accanto ad un lampione, una ragazza di colore. Un semaforo e un incrocio. A destra, ancora un distributore. E ancora una nigeriana. Poco oltre, l’ennesima pompa di benzina. E l’ennesima ragazza (*). Sta confabulando al finestrino di un’auto. Tra qualche centinaio di metri, io sarò a casa. Il termometro segna 2 gradi centigradi.
Paolo Moiola

(*) Secondo recenti statistiche, in Italia lavorano circa 25.000 prostitute straniere. Di queste il 60% proviene dalla Nigeria, il 15% dall’Albania, il 10% dalla ex Jugoslavia.

LAPIDAZIONE O FUSTIGAZIONE

Il corano e la sharia sono assolutamente ferrei in materia sessuale. Sono vietati i rapporti pre ed extraconiugali (foicazione) e la prostituzione. Se il foicatore è già stato sposato, almeno una volta, con una donna musulmana, viene applicata la pena capitale tramite lapidazione; se è ancora celibe, verrà condannato alla fustigazione pubblica (100 frustate).
«Il rapporto sessuale illecito – zina, in lingua araba – è definito come rapporto al di fuori del milk o della shubhat milk: il milk è il diritto al rapporto sessuale che scaturisce dal matrimonio o dal possesso di una schiava» (*).
Sura XVII, v. 32: «Non ti avvicinare alla foicazione. È davvero cosa turpe e un tristo sentirnero». Sura XXIII, vv. 5-6-7 e sura LXX, v. 29-30: «(…) e che si mantengano casti, eccetto con le loro mogli e con le schiave che possiedono – e in questo non sono biasimevoli -, mentre coloro che desiderano altro sono i trasgressori». Sura XXXIII, v. 30: «O mogli del Profeta, quella tra voi che si renderà colpevole di una palese turpitudine, avrà un castigo raddoppiato due volte. Ciò è facile per Allah». Sura V, v. 5: «(Vi sono inoltre lecite) le donne credenti e caste, le donne caste di quelli cui fu data la Scrittura prima di voi, versando il dono nuziale – sposandole, non come debosciati libertini!». Sura IV, v. 15: «Se le vostre donne (nell’islam è ammessa la poligamia, ndr) avranno commesso azioni infami (adulterio), portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah non apra loro una via d’uscita»; v. 24: «(…) A parte ciò, vi è permesso cercare mogli utilizzando i vostri beni in modo onesto e senza abbandonarvi al libertinaggio (…)»; v. 25: «E chi di voi non avesse i mezzi per sposare donne credenti libere, scelga moglie tra le schiave nubili e credenti. Allah conosce meglio la vostra fede, voi provenite gli uni dagli altri. Sposatele con il consenso della loro gente, e versate la dote in modo conveniente; siano donne rispettabili e non libertine o amanti(…)». Sura II, v. 235: «Non sarete rimproverati se accennerete a una proposta di matrimonio, o se ne coltiverete segretamente l’intenzione. Allah sa che ben presto vi ricorderete di loro. Ma non proponete il libertinaggio; dite solo parole oneste».
E, per concludere, sura XXIV – La Luce, v. 2-10: «Flagellate la foicatrice e il foicatore, ciascuno con cento colpi di frusta e non vi impietosite nell’applicazione della Religione di Allah, se credete in Lui e nell’Ultimo Gioo, e che un gruppo di credenti sia presente alla punizione (…)».
Un breve cenno merita il cosiddetto matrimonio temporaneo – mut’a -, consentito apertamente dalla sola pratica sciita (duodecimana): esso è previsto per circostanze particolari ove non si possa o non si voglia celebrare un matrimonio a tutti gli effetti. Questa unione temporanea ha lo scopo di poter «consumare» il rapporto sessuale senza infrangere la legge islamica. Alla donna viene corrisposto un compenso.
Angela Lano

(*) Cfr. Joseph Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Edizioni della Fondazione Agnelli, Torino 1995, pag. 186

Angela Lano




KENYA – Tanta fede e nervi saldi

Sono in Kenya per la quarta volta; la prima come «giornalista» di Missioni Consolata. Dal lago Turkana all’Oceano Indiano, passando per le regioni di Meru, Kikuyu e Nairobi, ho incontrato missionari e missionarie impegnati allo spasimo, nonostante l’età, per sovvenire alle necessità e aspirazioni della gente; condiviso dolori e speranze;
sentito racconti di atrocità e miseria; visto comunità in piena fioritura di fede e vita cristiana; vissuto emozioni indimenticabili… Presento il tutto a puntate.

Alle 8.30 il piccolo Fok-ker decolla dall’aeroporto Windsor di Nairobi diretto a Maralal, dove avrà luogo il funerale di padre Luigi Andeni, ucciso da malviventi il 14 settembre ad Archer’s Post. Viaggio insieme a vari confratelli, due nipoti del defunto, mons. John Njue, presidente della Conferenza episcopale del Kenya, e il nunzio apostolico Giovanni Tonucci.
Traballiamo sopra una fitta coltre di nuvole; poi l’orizzonte si squarcia d’improvviso: la catena dell’Aberdare, a sinistra, sembra a portata di mano; a destra ammicca tra le nubi il massiccio del monte Kenya.
Dopo un’ora di volo, atterriamo su una pista fiancheggiata da zebre, mucche, capre, asini e pastori, avvolti in vesti scarlatte e armati di lance e bastoni. Ancora mezz’ora in Land Rover e arriviamo a Maralal. Il tempo di salutare qualche confratello e inizia il funerale: tre ore di commozione intensa e palpabile. Dentro e fuori la chiesa una folla traboccante segue riti e discorsi con attenzione, applaudendo i passaggi più toccanti e graffianti. Ne parlerò in una prossima puntata.
Alle due del pomeriggio sono di nuovo in Land Rover per raggiungere Loyangalani, da dove inizierà la mia visita al Kenya. Viaggio insieme a padre Lino Gallina, che rientra nella sua missione dopo le vacanze in Italia. Per 200 chilometri la strada sale e scende per pendii scoscesi e pietrosi; scossoni e sobbalzi mettono a dura prova la spina dorsale. Più che sul tracciato stradale e i panorami mozzafiato, l’attenzione si concentra sulle persone che incrociamo: fa un certo effetto vedere i pastori con perizoma scarlatto e sofisticati fucili a tracolla, al posto delle tradizionali lance e bastoni.
«Per difendere il bestiame dalle razzie dei predoni ngorokos – spiega padre Lino -, il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere le armi. Da quel momento tutta la gente ha cominciato a comperare fucili dai mercanti somali e sudanesi, col risultato che turkana e samburu si sono armati fino ai denti. Nel 1996, durante la campagna elettorale, alcuni candidati al parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate in razzie e scontri feroci, con centinaia di morti e migliaia di persone in estrema povertà. Ora la situazione sembra calma; ma l’abbondanza di armi ha fomentato il banditismo: le missioni sono i bersagli preferiti; ma anche le strade del Marsabit sono a rischio per tutti, bianchi e neri, senza distinzione».
A parte un pizzico di apprensione, la strada massacrante, l’oscurità impenetrabile, il viaggio prosegue tranquillo. Alle dieci di notte arriviamo a destinazione. Il tempo di prendere un boccone, scambiarci qualche notizia e subito a letto. La notte si trasforma in un bagno turco: non sono trascorse 48 ore tra il fresco autunno torinese e gli oltre 30° in casa.

Mi alzo al canto degli uccelli, per godermi la brezza mattutina. Il cortile sembra coperto di brina gialla: sono i fiori caduti dalle acacie sotto l’impeto del vento. Alcuni bambini li raccolgono per darli in pasto alle caprette. Poetico, vero? Ma il termometro in saletta è bloccato sui 30 gradi.
Comincia la visita alle varie attività della missione, rifugiandomi il più possibile sotto l’ombra. Si avvicina una vecchia turkana per salutare padre Lino: rosicchia un grosso dattero. «Lo chiamiamo “arancia di Loyangalani” – spiega il padre sorridendo -; ma non è buono neppure per le capre».
Salutiamo suor Florinda: sta annaffiando l’orto. Ci mostra le piante di cetrioli: tanti fiori, ma niente frutti. Da 30 anni, padri e suore le stanno provando tutte per coltivare qualche verdura; ma non hanno ottenuto una sola foglia d’insalata. Il terreno e troppo acido e salato.
Sulla sponda del lago Turkana, Loyangalani è una piccola oasi in una immensa zona vulcanica. Tutto attorno sono pietre infuocate. Grazie a Dio, un bel vento spira giorno e notte, dal lago verso la montagna e viceversa, rendendo l’aria più respirabile, ma mettendo a dura prova il sistema nervoso di chi non è abituato. E per abituarsi occorrono tanta fede e nervi saldi.
Entriamo nel centro medico: oltre alle medicine, offre la possibilità di degenza per i casi gravi; per quelli disperati c’è un ospedale a quattro ore di Land Rover. Ogni settimana i due infermieri prestano servizio ambulante in 14 villaggi, per preparare ostetriche e insegnare igiene e pulizia.
Nonostante le precauzioni, un’epidemia di colera scoppiò nel luglio scorso. «Diagnosticati i primi casi – racconta padre Achille Da Ros -, telefonai subito ai Medici senza frontiere, che accorsero tempestivamente, curarono i malati e attivarono tutti i mezzi per bloccare l’epidemia: con una campagna a tappeto, tutti gli el molo, i più colpiti, e vari gruppi di turkana e samburu furono immersi in bagni disinfettanti, strigliati a dovere e ingozzati di medicine. Sono stati giorni cruciali, specie per suor Linda Hill, missionaria della Consolata, che ha vegliato i pazienti notte e giorno, fino all’esaurimento».
Accanto al dispensario, gruppi di bambini siedono sotto gli alberi; altri, aggrappati alla rete di recinzione, hanno gli occhi fissi su un enorme pentolone di polenta.
«La denutrizione infantile è un problema endemico a Loyangalani – spiega padre Lino -. Da uno studio fatto nel 1996, risultava che, su 600 bambini da zero a cinque anni, il 35% è denutrito; nei villaggi la percentuale era del 50%. Il problema si è aggravato negli ultimi due anni. Partiti i Medici senza frontiere, che hanno provveduto a superare l’emergenza, la missione continua la lotta contro la denutrizione, dando a 150 bambini un bicchiere di latte e un’abbondante porzione di polenta, integrata con proteine e vitamine».
A una quindicina di chilometri, altrettanti bambini el molo attendono di essere sfamati. Vi ha già provveduto padre Achille, partito con un altro pentolone di polenta.
Il pomeriggio, sotto una calura infeale, padre Achille mi fa visitare alcuni luoghi caratteristici: la valle dove è stato girato il film I monti della luna, varie sorgenti di acque diuretiche e lassative, immense distese di pietre nere e cocuzzoli ferrigni, con rari alberelli spinosi e scheletriti, selvaggiamente scorticati.
Ci fermiamo in riva al lago. Scuola, asilo, cappella e un rubinetto da cui scorre inutilmente acqua calda e pura: ecco quanto resta dei pittoreschi villaggi el molo di Komote e Laiyeni: spaventati dall’uccisione di un loro membro, gli abitanti hanno abbandonato gli accampamenti e si sono rifugiati tutti sull’isolotto antistante. «Mi sto dannando l’anima per convincerli a ritornare sulla terra ferma – racconta padre Achille -. L’isola è infestata dai coccodrilli. Senz’acqua potabile e in condizioni igieniche precarie, il colera potrebbe riesplodere da un momento all’altro».

È domenica: padre Achille è partito presto per Komote. Padre Lino celebra la messa nella chiesa parrocchiale per samburu e rendille; subito dopo quella per i turkana, i cui vestiti tradiscono estrema povertà. «Da sempre emarginati e sfruttati, oggi i turkana si sentono anche rifiutati dai samburu – spiega padre Lino -. Purtroppo tale tensione si riflette anche nella comunità cristiana; per questo abbiamo dovuto mettere due messe. Speriamo che tutto ritorni come prima».
Le tensioni etniche aumentano la povertà e l’incertezza del futuro. Il turismo dava lavoro a parecchie famiglie e stimolava l’artigianato: ora si vedono rari turisti mordi-e-fuggi. La pesca è crollata da quando l’Inghilterra ha sospeso le importazioni del pesce fresco e secco, in attesa di garanzie igieniche. L’allevamento del bestiame è sempre più difficile, a causa delle razzie e la scarsità di pascoli. I giovani, soprattutto, finite le elementari non sanno cosa fare: le scuole secondarie sono care e a centinaia di chilometri: continuare gli studi è un miraggio.
Bussando alle porte di varie organizzazioni, i missionari riescono a procurare qualche borsa di studio; fondi per attività di sopravvivenza. «Ci stiamo scervellando per trovare una soluzione che aiuti questa gente a camminare con le proprie gambe – confessa sconsolato padre Lino -, ma non ci riusciamo».
Il sole s’immerge nelle acque del lago, accendendo in cielo un immenso rogo fiammeggiante: di roseo, a Loyangalani, c’è solo il tramonto.

South Horr. Dalle prime luci del mattino, una fila di donne staziona davanti all’ufficio parrocchiale. Fino a sera ripetono lo stesso drammatico ritornello: «Padre, ho fame!».
«Quando mi siedo a tavola – racconta padre Egidio Pedenzini, parroco di South Horr -, mi si blocca lo stomaco, pensando a quelli che sono davanti alla porta. Spesso gli studenti delle secondarie mi dicono che non mangiano da tre giorni e ci credo».
Per convincermi, mi affida al catechista John, per una lunga camminata fuori del centro abitato, dove si sono rifugiate alcune famiglie scampate agli scontri tribali. Nella fuga hanno salvato il salvabile: una capretta scheletrita, qualche pentola ammaccata e i figli, naturalmente. Eppure c’è qualche segno di vita: lungo un torrente, che quest’anno non si è seccato, alcune famiglie hanno strappato qualche fazzoletto di terra alla boscaglia, vi hanno incanalato l’acqua per irrigare fagioli e granturco. Una novità per i samburu: pastori per tradizione, si dedicano all’agricoltura.
Il pomeriggio padre Egidio mi porta in macchina a vedere un’altra parte della missione. «Qui abitavano i turkana – racconta il padre, indicando mucchi di cenere -. Una notte i samburu hanno bruciato le loro capanne, accusandoli d’aver ospitato avanguardie ngorokos. La gente si è rifugiata nella missione. Ho procurato due capre per il sacrificio di purificazione del luogo e aiutato le donne a raccogliere i rami per ricostruire il villaggio. Un giorno, alle due del pomeriggio, il villaggio era di nuovo incenerito. Per tre mesi abbiamo sfamato 250 turkana».
Per tale aiuto i missionari sono stati accusati di schierarsi dalla parte dei turkana. «Dite che la chiesa è turkana – disse il padre, intervenendo in un raduno di autorità locali -. L’ho sentito da voi. Parlo in nome dei padri e delle suore: per noi non c’è alcuna distinzione tribale; siamo qui per servire tutti. Oggi sono i turkana, domani forse sarete voi, samburu, oppure i rendille a chiedere rifugio: la chiesa rimarrà aperta a tutti».
Sfidando le incomprensioni, missionari e missionarie cercano di portare la riconciliazione con opere sociali (asili, scuole, acquedotti, assistenza medica) e la testimonianza quotidiana della carità. «Ma non basta. Occorre incarnare il vangelo nella cultura della gente» afferma padre Egidio, che ama e conosce il mondo samburu come le sue tasche.
«Quando una persona vuole chiedere perdono, offre all’offeso un mazzetto d’erba – continua il missionario -; nessuno può rifiutarlo. Un simbolo potente per aiutare la gente a perdonarsi e ricostruire l’armonia. L’abbiamo usato, insieme al fuoco, per tutto il 1998, per significare la forza dello Spirito Santo, in preparazione al giubileo del 2000. La domenica i fedeli entravano in chiesa reggendo ciuffi d’erba; due anziani passavano a benedirli con latte e miele; quindi aspergevano l’altare e il fuoco, acceso davanti allo stesso altare e alimentato da due donne con legna speciale, quella usata per i sacrifici tradizionali. La gente era felice».
Rimango incantato, mentre parla a ruota libera delle esperienze d’inculturazione. La frase del vangelo «nessuno può servire a due padroni…», per esempio, viene tradotta con due proverbi samburu: «Il cane non abbaia in due villaggi allo stesso tempo»; «un uomo non può tenere i piedi sulle due rive del fiume».
Ha tradotto il canone della messa nel linguaggio e stile samburu: al prefazio e dopo la formula di consacrazione, col bastone in mano, egli elenca le meraviglie di Dio e invoca la sua protezione sui vivi e sui defunti; a ogni frase la gente risponde: «Ngaì! Ngaì!» (Dio), mentre apre e chiude i pugni, per invocare la venuta di Dio tra i suoi figli.
Per aiutare i catechisti a esprimere il vangelo col linguaggio della gente, Padre Egidio ha composto due libretti sul concetto di Dio e sui miti delle origini secondo la cultura samburu; sta per essee stampato un terzo sui sacrifici e cerimonie; un quarto è in avanzata elaborazione, sulla preghiera e benedizioni.
«Tra i vari simboli – continua – il taglio dei capelli potrebbe essere introdotto nel rito del battesimo e matrimonio. Nei momenti più importanti della vita, infatti, i samburu si rasano a zero: la donna dopo il parto, il giovane al tempo dell’iniziazione; gli sposi nel giorno del matrimonio; il vedovo o la vedova alla morte del coniuge; il defunto appena deceduto: ciò significa l’inizio di una nuova vita. Il battesimo è rinascita nella vita di Dio? I capelli degli sposi sono mescolati in latte e miele; nessuno può più distinguere a chi appartengano: quale simbolo più potente per significare l’indissolubilità del matrimonio? Finora ho usato questi simboli per spiegare i sacramenti; bisognerebbe tradurli in pratica perché producano il loro effetto. Ci sto pensando: a pasqua, vorrei rasare tutti i battezzandi, giovani e anziani, donne e bambini… Però qualche missionario mi rompe l’anima con Il diritto canonico!».
Tante sue iniziative, dopo 20 anni, rimangono allo stadio di esperimento. Padre Egidio ha tutte le ragioni di sentirsi solo. Ma non demorde.
Sarei dovuto partire presto, con un comodo fuoristrada dei Medici senza frontiere; mi hanno lasciato a terra. Una breve revisione degli impegni e disponibilità dei mezzi di trasporto: padre Pietro Davoli mi porterà a Baragoi nel pomeriggio. Intanto lo accompagno a Ngorlé, dove si reca a celebrare la messa a una comunità che si sta riorganizzando.
A 88 anni, 64 dei quali spesi in Kenya, padre Davoli è una figura mitica: una vita densa di avvenimenti, che racconta con affascinante semplicità e gioia contagiosa; fresco e pimpante come in giovincello, nonostante l’età, si adatta a qualsiasi incombenza e imprevisto della vita missionaria; quando è libero da impegni religiosi, lo trovi nell’orto o a seccare e macinare peperoncini, che poi distribuisce a tutte le missioni.
Gli domando il segreto della sua eterna giovinezza. «La missione allunga la vita» risponde sorridendo.

Baragoi: padre Giovanni Pronzalino è partito presto per visitare vari villaggi, radunare le piccole comunità cristiane, spiegare la bibbia, celebrare l’eucaristia, ascoltare i problemi della gente. Toerà a casa nel tardo pomeriggio. Così ogni giorno, sistematicamente, nonostante i 70 anni suonati. Padre Giuseppe Da Fre’, parroco sessantenne, mi aggioa sulla situazione.
La parrocchia di Baragoi si estende su un’immensa savana quasi tutta pianeggiante, teatro degli scontri etnici più cruenti di tutto il nord del Kenya: samburu e turkana si leccano ancora le ferite.
«La tensione è altissima – spiega padre Giuseppe -. In un incontro di pochi giorni fa, i turkana hanno chiesto di fare la pace; ma i samburu hanno risposto che non vogliono avere nulla da spartire; che se ne devono andare, con le buone o con le cattive. Un vicecapo turkana mi ha confidato: “Se continueranno a complicarci la vita, impedendoci di fare acquisti nei villaggi e attraversare le zone di loro influenza, li cacceremo anche da Maralal”. Si prospetta un’ennesima guerra tribale, in cui i samburu avrebbero la peggio».
I turkana sono più industriosi. Pur essendo allevatori, si sono adattati all’agricoltura: coltivano sorgo, patate dolci, fagioli, granoturco e frutta. Liberi da tabù alimentari, mangiano di tutto, anche i serpenti; sono temprati a ogni fatica, robusti e coraggiosi.
I samburu sono solo pastori: orgogliosi della loro nobiltà, disdegnano i lavori manuali; al tempo stesso si vedono superati dall’intraprendenza dei rivali. Da qui una certa invidia, che, alimentata dai politicanti, è sfociata in scontri sanguinosi e nella persistente volontà di cacciare i turkana dal loro distretto.
A fae le spese sono anche le missioni: in varie comunità sono stati distrutti i fabbricati, rubate le lastre zincate, strappati i libri, usati i banchi come legna da ardere. Un maestro e un consigliere comunale di Baragoi sono arrivati a puntare il fucile contro i missionari, in casa loro, perché avevano soccorso i feriti turkana. «Gli stessi gesti li abbiamo fatti per voi samburu, quando vi siete trovati in identiche circostanze – risposero i padri -. Abbiamo medicato i vostri feriti, sfamato donne e bambini, seppellito i vostri morti».
Non è sempre facile fare da mediatore in casi di contrasto; risolvere problemi d’ogni genere; calmare gli animi esacerbati, misurare le parole nel denunciare ingiustizie e corruzione. «Pestiamo i piedi a qualcuno – continua padre Da Fre’-. Grazie a Dio, la gente ci vuole bene. Ma spesso ci sentiamo soli; abbiamo bisogno di qualche gesto di solidarietà, per non cadere nello scoraggiamento».
Padre Da Fre’ mi porta a visitare varie attività e opere sociali: pozzi, torrenti sbarrati, serbatorni per raccogliere l’acqua piovana. Ma le piogge non sono sempre regolari: capita che per un anno o due non cada una goccia d’acqua, allora è una tragedia per la popolazione e per il bestiame. Inizia l’ennesima emergenza.
Visitiamo vari asili. Ce ne sono 27 in tutta la parrocchia, per assicurare un pasto giornaliero a migliaia di bambini. «Concentriamo su di loro i nostri sforzi; sono i più indifesi – continua il missionario -. In questo modo speriamo di ricostruire il futuro di queste popolazioni».
Termino con la visita all’asilo adiacente alla chiesa parrocchiale: 150 bei bambini in divisa azzurra. Alcuni si divertono con scivoli e giostre; i più grandicelli giocano a pallone; altri coltivano l’orto; altri ancora sono attaccati alla sottana di suor Raimonda. «Abbiamo bimbi di tutte le etnie: turkana, samburu, rendille, meru, kikuyu… – dice la suora -. Speriamo che anche da grandi sappiano convivere in pace come oggi».

Benedetto Bellesi




MOZAMBICO – Dio è bello

Da oltre 20 anni padre Giuseppe Frizzi mette in atto varie esperienze per incarnare il messaggio evangelico nella cultura macua.
Mediante il «Centro di studi macua»valorizza le espressioni di arte e bellezza che Dio ha seminato
in questo popolo.
E sogna in grande: da questa scuola, un giorno,usciranno teologi e filosofi che esprimeranno la fede e il pensiero con concetti e categorie mentali della cultura locale.

La missione di Maua comprende cinque parrocchie, con circa 165 piccole comunità, ognuna delle quali ha i propri responsabili della liturgia, catechesi e attività caritative. Questi si radunano una volta al mese nel consiglio parrocchiale e frequentano corsi di formazione religiosa durante la stagione secca.
La vita cristiana continua a maturare, grazie alla scelta fatta da decenni dalla chiesa del Mozambico: le piccole comunità cristiane, alle quali viene data fiducia e affidato l’esercizio di tutti i servizi ecclesiali, eccetto quelli specifici del sacerdote. In tale decentralizzazione, è anche compito del sacerdote preparare e formare i responsabili delle comunità e fornire loro strumenti liturgici e catechetici appropriati.
Il metodo di Dio
L’evangelizzazione della popolazione macua parte da una certezza: Dio stesso si è inculturato in essa, prima dell’arrivo dei missionari, seminando principi di moralità e religiosità, che costituiscono l’essenza della cultura di ogni popolo. Di tale religiosità è necessario scoprire i fondamenti filosofici e teologici, i quali, convalidati e illuminati dal vangelo, non possono non essere presi in positiva considerazione per una vera e autentica evangelizzazione.
Se Dio stesso ci precede, perché non approfittare della sua metodologia, facendola propria e portandola a maturazione piena? Dio è missione; anzi, è «la Missione» stessa. Perciò la chiesa «va in missione» mettendosi al servizio di tale «Missione» anticipatamente programmata. Senza questo atteggiamento di estrema obbedienza ai passi e segni di Dio nella storia salvifica di un popolo, si corre il rischio, denunciato da Gamaliele, di far guerra a Dio e ai suoi progetti (cfr. Atti 5,39).
Ciò implica che anche il destinatario del vangelo ha qualcosa da dire all’evangelizzatore; anzi, il primo ad avere la parola di annuncio dovrebbe essere proprio l’evangelizzando. Non esiste, in definitiva, un’evangelizzazione a senso unico: evangelizzando ed evangelizzatore hanno specifici messaggi teologici da annunciare e testimoniare. Tali messaggi implicano sempre un processo di conversione «cardiaca», cioè un fluire di sangue arterioso e venoso, un dare e ricevere costante: convertire, ma anche convertirsi.
Esperienze pastorali
Negli ultimi anni, a Maua abbiamo avviato varie esperienze pastorali; alcune sono ancora allo stato sperimentale; altre sono ormai collaudate. L’uso della lingua matea, per esempio, di canti, danze e strumenti locali, sta dando alla liturgia connotazioni di festività e intensa partecipazione tipicamente africane. Nella catechesi si rivela molto positivo il confronto del messaggio evangelico con il contenuto dei proverbi macua. Nell’ambito dei simboli, la gazzella, animale ancestrale, sinonimo di innocenza, forza curatrice e redentrice, si presta perfettamente per significare l’azione salvifica di Gesù.
La pubblicazione del Nuovo Testamento e del Libro dei salmi in lingua macua costituisce un altro passo importante sulla via dell’inculturazione e un’esperienza di cui trarranno vantaggio non solo le comunità di Maua, ma anche le altre parrocchie della regione.
Il bello
a servizio del vangelo
Più si studia la lingua, più si avverte l’esigenza di approfondire gli altri elementi che costituiscono una cultura: oltre alla letteratura, si devono tenere presenti le espressioni d’arte, come architettura, pittura, scultura e musica.
A questo scopo è nata la «Scuola d’arte» di Nipepe, dove sono state studiate e attuate varie esperienze che hanno riscosso un’accoglienza entusiasta tra la gente del luogo e ammirazione dai visitatori.
Architettura: in generale i macua usano solo blocchi di fango seccati al sole e decorano le pareti alternando i colori delle argille locali con effetti cromatici particolari. Con tale sistema costruiamo chiese e cappelle. È un metodo ecologico ed economico, perché usa i mezzi reperibili in loco.
Scultura: si diceva che il macua non è portato a scolpire. Posso testimoniare, invece, che ha talento anche in questo settore. La scultura macua è forte, robusta, monumentale, massiva, sintetica; ricorda il nostro romanico, in contrasto con quella dei maconde, più decorativa, descrittiva e leziosa, vicina al gotico.
Molto originali sono i crocifissi della nostra scuola d’arte: croce e crocifisso scaturiscono dallo stesso tronco; la figura del Cristo crocifisso, inoltre, è modellata sulla sagoma del tronco prescelto. Ciò crea una grande varietà di realizzazioni scultoree, oltre a rendere più facile la percezione di certe simbologie latenti e patenti della theologia crucis.
Pittura: a prima vista, si ha l’impressione di trovarsi di fronte all’arte modea, imitazione dell’occidente. Eppure si tratta di pittori autodidatti, che usano linguaggi vari, cubici e astratti, per intuizione e inclinazione istintiva; non hanno nulla da spartire con l’avanguardismo e anticonformismo dell’arte modea occidentale.
Molti disegni sono stati riprodotti nella pubblicazione del Nuovo Testamento. Ora stiamo tentando di creare una lettura biblica e uno studio catechetico visualizzati, ambientati nell’orizzonte vitale macua.
Musica: anch’essa è molto robusta, marcata dal ritmo prodotto da vari tipi di tamburi e dalle rispettive figure di danza. Alcuni dicono che è poco melodica e abbastanza monotona; eppure chi la studia e l’ascolta con attenzione può scoprire inebrianti varietà e ricchezze ritmiche.
Tali varietà e ricchezze riescono a esprimere tutte le dimensioni religiose e profane della cultura locale. Feste, cure, iniziazioni… sono sempre scandite dal suono dei rispettivi ritmi e testi. Il macua educa, si forma, cura e si cura danzando e cantando. È una musica che si presta, quindi, all’uso liturgico e catechetico e dovrebbe essere sfruttata con maggiore coraggio.
Anche in questo campo abbiamo fatto passi significativi: i 741 inni pubblicati nel libro delle Preghiere e canti costituiscono un catechismo cantato; ma siamo solo all’inizio nell’uso liturgico e catechetico dei ritmi macua.
Il senso del bello che Dio ha profuso nelle varie manifestazioni artistiche del popolo macua viene così inserito nel processo di evangelizzazione: mentre penetra più profondamente nella cultura, il messaggio evangelico costituisce uno stimolo a cogliere quei linguaggi palesi o latenti che la nuova fede scopre e provoca nel cuore delle giovani comunità.
Tanti canti nuovi che abbiamo raccolto mostrano che una teologia africana informale sta germinando e merita rispetto e attenzione. Cosa sarebbero le lettere di san Paolo senza la preziosità di certi inni, creati e cantati nelle prime comunità? Grande merito di Paolo è l’avee capito la bellezza, dando loro risonanza e consistenza teologica.
I sogni
Ho ancora altri sogni nel cassetto: completare la traduzione e pubblicazione di tutta la bibbia in lingua macua; far sì che il metodo educativo bilingue, usato nelle nostre scuole parrocchiali, venga approvato e adottato regolarmente a livello nazionale; dedicare maggiore attenzione al mondo delle cure tradizionali: questo servizio, nei primi secoli della chiesa, era parte integrante dell’evangelizzazione.
Il sogno più ambizioso si sta realizzando con l’incipiente «Centro di studi macua». Attualmente esso è impegnato in un lavoro retrospettivo: scoprire, evidenziare, analizzare le varie manifestazioni della cultura locale: letteratura orale, scultura, pittura, musica, medicina… L’ideale è far sì che tale centro diventi un laboratorio che promuova una cultura macua viva e creativa, attualizzata e attualizzante.
In altre parole, come c’è già un’architettura, scultura, pittura, musica, liturgia e catechesi, perché non promuovere anche una letteratura e, soprattutto, una filosofia e teologia macua, espresse con i propri concetti? Quindici anni fa, si rideva di fronte alla proposta d’impartire l’insegnamento scolastico nella lingua matea; oggi è un imperativo. Perché non dovrebbe essere possibile filosofare e teologare in macua?
Due constatazioni paradossali: la principale difficoltà di chi, in Mozambico, termina gli studi filosofici e teologici nel seminario maggiore è costituita dall’incapacità di comunicare al popolo cristiano le nozioni teologiche apprese, usando terminologie incomprensibili che, a volte, soffocano quella teologia informale di base che la comunità formula quasi inconsciamente con i canti, la predicazione, la condivisione della parola di Dio.
Dall’altra parte, nel continente africano, non mancano teologi e teologhe autoctoni; ma riflettono e scrivono quasi esclusivamente in lingue europee, quelle della «pura ragione» e non del «cuore»; lingue che gli africani possono conoscere, ma intendono superficialmente. Il mio sogno s’infrange tra questi scogli.
La chiesa in Africa è famiglia, afferma il Sinodo africano. Questa famiglia ha bisogno di potersi esprimere con la lingua e categorie che le appartengono, ma che sono state soppresse e forzatamente rimosse dalle circostanze storico-politiche. La restituzione di tale linguaggio mi sembra un’utopia più che giustificata.

Giuseppe Frizzi




BENIN – Sguardo d’amore

Nulla è impossibile per chi sa guardare gli altri
in modo diverso, con simpatia e amore.
È il succo di questa piccola vicenda:
una delle tante che costellano ancora (per fortuna!)
il nostro mondo.

Il sole splende forte e nitido nel cielo sereno di un piccolo angolo d’Africa. Alle sette del mattino ci sono già 30 gradi, la stagione delle piogge è in ritardo. Anche qui gli effetti nefasti del Niño si fanno sentire, con tutto il loro terribile carico: da mesi non scende una goccia di pioggia, la terra è secca, arida; manca la corrente elettrica da molte settimane; l’acqua è razionata; gli alberi di mango, papaia e banana non donano che poveri frutti rinsecchiti; le epidemie di meningite, tifo e molte malattie infettive si susseguono senza soluzione di continuità, abbattendosi su migliaia di uomini, donne e, soprattutto, bambini, già deboli e vulnerabili a causa di malnutrizione e povertà.
Eppure, per alcuni di questi bambini, oggi è un giorno meraviglioso, una benedizione del cielo. Sì, perché nel piccolo villaggio di Abomey-Calavi, in Benin, è arrivato il momento di inaugurare la casa «Sguardo d’amore», che ospiterà inizialmente una cinquantina di orfanelli: piccole creature deformi o semplicemente abbandonate, a causa di ataviche credenze ancora dure a morire, in questo lontano angolo di mondo.
UN AVVENIMENTO TERRIBILE
E pensare che questa bella storia è incominciata 6 anni fa, da un tragico fatto accaduto in un villaggio non lontano e non dissimile da quello di Abomey-Calavi.
Fu un mattino funesto e spaventoso per la gente del villaggio assistere al parto di una loro donna (perché il villaggio in Africa è la famiglia: tutto viene vissuto e condiviso collettivamente) e vedee con sgomento e stupore il prodotto mostruoso: due gemelle siamesi unite per il tronco.
Una creatura simile alle figure delle carte da gioco, con due teste, un paio di braccia e gambe ciascuna, ma un unico ventre: un unico organo riproduttore. Per il féticheur, lo sciamano del villaggio, non c’erano dubbi: «il mostro» sarebbe stato fonte sicura di sciagure per tutto il villaggio, se non lo si fosse soppresso quanto prima.
La madre, in un disperato atto di pietà, disse che ci avrebbe pensato lei stessa. Così, nottetempo, avvolse in un fagotto le sue creature e le portò lontano, in un altro villaggio. E qui la Provvidenza guidò, dopo qualche mese, un giovane medico beninese che, compiuti i suoi studi grazie agli aiuti di alcuni enti religiosi e laici, era da poco tornato nella sua terra per mettere al servizio della gente le sue capacità mediche.
Senza esitazione le bimbe furono portate al sicuro in un centro d’accoglienza, fondato dalle suore della congregazione «Figlie del cuore di Maria».
La Provvidenza continuò a guidare i primi difficili passi del cammino di Tayé e Kegnidé (questi i nomi delle due gemelle) con la presenza di alcuni missionari laici, appartenenti a un piccolo gruppo missionario di Merano (cfr. Missioni Consolata, marzo 1998). Questi le portarono in Italia nel disperato tentativo di salvarle.
Dopo tre mesi di esami, analisi mediche e studi al computer, dopo esitazioni e dubbi sfociati anche nella dolorosa ipotesi di salvae una, condannando l’altra, il 29 marzo 1993 un’équipe di 24 chirurghi e 8 anestesisti, guidata dal prof. Guglielmi di Padova, eseguì un intervento chirurgico durato ben 24 ore in cui si lavorò per dividere e salvare tutte e due le creature.
L’intervento riuscì, anche se non in modo risolutivo; molti erano ancora i problemi delle due piccole, come gli organi da completare e ricreare. Il 15 dicembre dello stesso anno venne eseguito un secondo intervento. Le bimbe incredibilmente risposero bene alle cure e, alla fine di aprile 1994, furono pronte per tornare nella loro terra, a una vita normale.
Ma quando tutto sembrava diventare sereno, il destino riservava loro ancora una brutta sorpresa.
UN REGALO DI NATALE
Alpidio Balbo del «Gruppo missionario di Merano» e la sua decisa signora Carmen riportarono al villaggio natale le bimbe, finalmente divise, ma il villaggio le rifiutò ostinatamente, minacciandole di morte.
Che fare a questo punto?
Il centro d’accoglienza delle «Figlie del cuore di Maria» prima e le suore di Madre Teresa di Calcutta, poi, si presero nuovamente cura delle piccole gemelline che, sebbene crescessero vivaci e allegre, avevano ancora bisogno di tante cure e affetto.
Il tempo passa. Siamo alla vigilia del Natale del 1995. Con un filmato girato dal signor Balbo, la storia delle gemelle viene raccontata anche in televisione. Il «caso» vuole che una famiglia italiana, residente a Monte Carlo, ne venga a conoscenza e accolga l’invito del «Gruppo missionario di Merano» per una fondazione che possa prendersi cura di queste bimbe e di tanti altri piccoli sfortunati.
Grazie alla generosità di questa famiglia, operante nel riserbo, proprio durante le feste natalizie del 1995 iniziano i lavori per la costruzione di una casa d’accoglienza per bimbi abbandonati.
Molte sono le forze che la stessa Africa mette in moto in una gara di generosità. Il medico che tre anni prima aveva salvato le gemelline da morte certa, in collaborazione con alcuni medici, infermieri e maestre d’asilo locali, il gruppo di Merano, i volontari dell’Avo di Padova e i missionari… tessono le fila per una fondazione seria: solide fondamenta, regole semplici e chiare permetteranno a questo progetto non solo di nascere, ma di avere continuità, affinché la sabbia del deserto non ricopra tutto ciò che un impeto di amore di alcuni uomini ha creato.

Siamo tornati sotto il sole del 13 aprile 1998. Sono le 11 del mattino e il caldo si è fatto torrido; ma ciò non toglie nulla al gentile «sguardo d’amore» di tante piccole creature, mentre assistono alla benedizione dell’arcivescovo di Cotonou, mons. De Souza. Si inaugura questa casa, completa di stanze, docce, servizi, un’infermeria e un giardino-giochi.
Quella che agli occhi degli uomini era una disgrazia si è trasformata in grazia agli occhi di Dio. Il fatto insegna che basta «uno sguardo d’amore parte di tutti perché il mondo sia salvato e viva la pace»: come recita la targa di legno appesa all’ingresso di questa piccola nuova casa.
Buona fortuna, Regard d’amour!

(*) Gianni Martinetto è medico. Lavora con il gruppo missionario di Merano che da quattro anni opera in Africa Occidentale.

Gianni Martinetto




I buoni propositi

Il 4 marzo 1998 Michel Rocard, deputato francese al parlamento dell’Unione Europea (UE) e membro della «Commissione sviluppo e cooperazione», ha presentato delle proposte in materia di cooperazione con i paesi in via di sviluppo (PVS). Il suo rapporto è stato salutato con vivo interesse dai partecipanti all’Assemblea paritaria (parlamento europeo e parlamenti dei paesi ACP: Africa, Caraibi, Pacifico), che si è svolta a Port-Louis (Mauritius) dal 20 al 24 aprile 1998 (*). Prudente – e, per certi versi, disturbata – è risultata la delegazione della Commissione europea (CE) presente al convegno.
È indubbio che l’accelerazione della globalizzazione rappresenta per i partners ACP/UE l’opportunità di realizzare un partenariato equilibrato che essi preparano da 30 anni (Convenzioni di Yaoundé, di Lomé, ecc…).
E, a questo riguardo, il «Rapporto Rocard» fa proposte concrete sui quattro capitoli individuati dalla Commissione europea quali nodi dei futuri negoziati ACP/UE:
1) dare al nuovo partenariato una dimensione politica forte;
2) porre la lotta contro la povertà al centro dell’azione;
3) aprire la cooperazione al partenariato economico;
4) rivedere radicalmente le modalità strategiche di gestione della cooperazione finanziaria e tecnica.

Due visioni-base sono date per acquisite. In primo luogo, il fatto che il gruppo ACP (ad oggi 71, tra cui da poco il Sudafrica) è dall’UE assimilato ad una entità politica, pur prevedendo differenziazioni geografiche (riproducenti diversità regionali) e l’accresciuto ruolo della cooperazione regionale e dell’integrazione in quanto fattori di sviluppo.
In secondo luogo, il fatto che lo sviluppo è anzitutto affare degli interessati (uomini e donne), che debbono deciderlo-organizzarlo-realizzarlo: la popolazione deve appropriarsi della cooperazione e la sua gestione autonoma da parte dei paesi beneficiari favorisce il rafforzamento delle loro stesse capacità.
Dunque, distintamente per ognuno dei citati quattro capisaldi, le proposte concrete del «Rapporto Rocard» sono così sintetizzabili.
1) Una dimensione politica forte del nuovo partenariato ACP/UE deve basarsi sulla promozione dei valori della democrazia e del rispetto dei diritti umani;
– il successo delle politiche di sviluppo e di cooperazione allo sviluppo esige una visione integrata degli aspetti economici, politici, culturali, sociali, ambientali;
– per la prevenzione di conflitti, è richiesta la creazione di osservatori regionali su tensioni etniche, linguistiche, economiche, sociali o religiose. Inoltre, occorre instaurare delle strutture di gestione di risorse comuni, quali l’acqua, le terre arabili, le foreste;
– lo sminamento di paesi africani colpiti da tale calamità umana deve precedere ogni attività di sviluppo, come pure la limitazione e il controllo della vendita di armi. L’UE deve dotarsi di misure legali e amministrative in vista di controlli efficaci sui trasferimenti di armamenti;
– i paesi ACP debbono impegnarsi a limitare i loro bilanci militari, a rispettare i diritti umani (che includono i diritti della donna, della famiglia, dei bambini, degli anziani), a lottare contro l’arricchimento illecito e la corruzione, a consentire la libertà di opinione e di stampa, a gestire bene il governo del paese;
– per rafforzare la democrazia nei paesi ACP, la CE deve finanziare: la formazione di giudici e avvocati; la creazione e la diffusione di media indipendenti e non sovvenzionati dai governi; la formazione ai diritti umani, alla preservazione dello stato di diritto, alle procedure giudiziarie di militari, gendarmi e poliziotti; il sostegno alle forme tradizionali di risoluzione dei conflitti; lo sviluppo delle municipalità e delle organizzazioni indipendenti della società civile.

2) Il ruolo della donna nei PVS dev’essere considerato fondamentale nella lotta per lo sradicamento della povertà e per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali, quali: l’acqua pulita, l’instruzione di base, la sanità, la formazione, l’abitazione, l’alimentazione, l’ambiente;
– «l’economia popolare» e artigianale (in quanto: favorisce una crescente partecipazione; dà il senso delle responsabilità; promuove l’appropriazione dell’attività economica) deve essere considerata un fattore-chiave della politica di sviluppo e di cooperazione. Essa pertanto deve avere accesso al credito o micro-credito;
– occorre intervenire nella lotta alla povertà che colpisce i più deboli degli abitanti le periferie urbane (donne, bambini, ecc…);
– rifugiati ed emigrati (particolarmente in Africa) debbono ricevere aiuti non solo in cibo-acqua-tende, ma anche in termini di assistenza sanitaria (preventiva e curativa);
– bisogna diversificare le produzioni agricole di autoconsumo (in luogo delle monocolture da esportazione), valorizzando (anche a scopi farmaceutici) vegetali e alimenti locali.
La stessa CE è sollecitata ad associarsi per la promozione e la certificazione dei prodotti del «commercio equo e solidale» e – nei PVS – a finanziare la pubblicità a prodotti locali e non a prodotti importati.

3) Il «Rapporto Rocard» anzitutto esprime timori che la proposta della Commissione europea di negoziare accordi regionali di libero scambio possa tradursi in una recrudescenza della povertà e in un rafforzamento della tensione sociale negli stati ACP (deterioramento della produzione industriale locale, riduzione delle entrate pubbliche… a danno dei più deboli e vulnerabili). In concreto propone che:
– per un periodo di transizione di 10 anni, dalla scadenza (2000) della 4° Convenzione ACP/UE, sia dall’UE mantenuto l’attuale regime commerciale (preferenze, protocolli prodotti, compensazioni delle perdite di introiti da esportazioni) quale misura di accompagnamento al processo di adattamento e di integrazione dei mercati regionali;
– l’opzione di cooperazione economica deve essere finalizzata allo sradicamento della povertà e allo sviluppo durevole. Pertanto occorre evitare che l’adozione precoce e improvvisa del sistema unilaterale delle preferenze generalizzate costituisca un rafforzamento considerevole del protezionismo UE nei confronti dei PVS;
– considerando che i 71 paesi ACP rappresentano altrettanti voti (su 132) nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Commissione Europea è invitata ad assistere gli ACP nel rafforzamento della loro capacità di far valere i loro interessi in ambito OMC;
– si chiede il lancio di un vasto programma di trasferimento di tecnologie su base non commerciale verso i paesi ACP, accompagnato da programmi di formazione idonei, nonché un incremento degli aiuti alla lotta contro l’AIDS nei PVS;
– occorre sviluppare un quadro giuridico internazionale per assicurare la protezione della proprietà intellettuale della biodiversità nel Sud e dei diritti inalienabili delle popolazioni indigene;
– si incoraggia l’elaborazione di un progetto globale riguardante sia la riduzione del debito, specie dei paesi poveri più indebitati, sia le politiche bancarie e i tassi di interesse praticati;
– poiché la pubblicità diffusa nei paesi ACP riguarda essenzialmente prodotti importati, occorre che la CE sostenga campagne di pubblicità per i prodotti locali.

4) Ogni cooperazione dev’essere: responsabile, trasparente, efficace, visibile, con procedure semplificate, coerente con obiettivi tanto dell’UE quanto degli ACP;
– si chiede alla CE di prevedere procedure specifiche per operatori di sviluppo privati e operatori espressi dalla società civile a scopo non lucrativo (associazionismo, università, collettività locali europee, ecc…), al fine di attuare un reale decentramento della cooperazione finanziaria e tecnica;
– in particolare, le Organizzazioni non governative (ONG) debbono dalla CE essere consultate e informate e la loro attività deve essere integrata nella cooperazione europea allo sviluppo. In questo paragrafo il «Rapporto Rocard» evidenzia con dispiacere come la CE non abbia ancora sancito il principio di uno stanziamento finanziario specifico per gli attori non governativi;
– la «cooperazione decentrata» dev’essere considerata dalla CE come un principio cardine dei futuri accordi ACP-UE: adattabile ai differenti tipi di attori dello sviluppo negli ACP (collettività territoriali pubbliche, associazionismo di base, Ong, associazioni di migranti, imprese private, istituti di formazione, ecc…); essa deve inglobare misure e progetti che abbiano incidenza sulla vita quotidiana della gente e favorire iniziative dei rappresentanti locali delle categorie più povere della popolazione.
Gli stessi migranti siano, in Africa specialmente, considerati non tanto un problema quanto attori di sviluppo e come tali sostenuti dalla «cooperazione decentrata»; nel quadro di una politica generale di «co-sviluppo partenariale», i paesi europei che accolgono temporaneamente lavoratori provenienti dai PVS dovrebbero – in accordo con i paesi d’origine e di ritorno – definire e realizzare progetti di formazione ai mestieri direttamente legati allo sviluppo (agricoltura, artigianato, ecc…) e ciò per facilitare il rientro di questi lavoratori aiutandoli a diventare attori di sviluppo.

Il «Rapporto Rocard» non è uno sterile elenco di buoni propositi: è un importante atto politico della «Commissione sviluppo e cooperazione» del parlamento europeo, che indica alla Commissione europea le cose concrete che possono e debbono essere fatte. Questo perché l’Unione non tradisca le aspettative di solidarietà che, non solo le popolazioni dell’Est europeo, ma le sempre più imponenti legioni di depredati e poveri d’Africa in essa hanno riposto.
Un atto politico che ora ha bisogno del sostegno dei singoli parlamenti nazionali e dell’opinione pubblica europea.
Pier Giorgio Gilli (*)

(*) Pier Giorgio Gilli, presidente di «Sviluppo e Pace», ha partecipato – con diritto di parola – al convegno di Port-Louis (Mauritius), in rappresentanza del «Comité de Liaison» delle 900 associazioni europee di solidarietà che operano in collaborazione con la Commissione europea.

Piergiorgio Gilli




Dalla parte del sud

Fermato (per ora) l’imbroglio del M.A.I.

La mobilitazione della solidarietà internazionale è riuscita a bloccare
l’«Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.), l’apoteosi del dogma
liberale, la massima espressione
del prevalere degli interessi
privati su quelli pubblici.
Nel frattempo, l’ultimo «Rapporto sullo sviluppo umano»…

Si chiama «Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.): una nuova sigla nell’intricato panorama dei rapporti inteazionali caratterizzato – ora più che mai – dal dogma liberale, secondo il quale la libera circolazione dei beni e dei servizi legati al commercio mondiale e la libera circolazione dei capitali hanno contribuito a sostenere la crescita economica mondiale.
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) tale crescita economica (sintetizzata spesso dall’evoluzione del Prodotto interno lordo per abitante) è stata principalmente determinata da: aiuti allo sviluppo, investimenti stranieri diretti, investimenti in portafoglio, rimesse degli emigrati in diaspora, prodotti delle esportazioni intra ed extra-regionali.
I flussi netti di risorse finanziarie verso i PVS sono passati dai 10 miliardi di dollari (1970) ai 284,6 miliardi di dollari (1996), dei quali ultimi l’86% proveniente dal settore privato. Bisogna subito dire che la ripartizione non è stata uniforme: l’Africa Sub-sahariana non ha rappresentato che il 5% di tali investimenti mentre l’Asia ed il Pacifico il 44,5% e l’America Latina ed i Caraibi il 30,5%.
Nel frattempo – come ci informa l’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) – il numero dei cittadini del pianeta che dispongono di un reddito giornaliero inferiore al dollaro è passato, nel periodo 1987/1993, da 100 milioni a 1,3 miliardi. È sempre l’Africa Sub-sahariana che conosce «la più elevata proporzione ed il più rapido tasso di crescita di povertà umana».

S u richiesta delle società transnazionali e degli stati dei paesi dell’OCSE, è emersa la necessità di attivare – quale corollario al quadro giuridico esistente nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio – un sistema multilaterale: questo dovrebbe annullare gli effetti indesiderabili dell’interventismo degli stati in materia di investimenti… L’obiettivo del MAI è, da una parte, di assicurare una protezione agli investimenti e, dall’altra, creare un quadro globale incitativo che favorisca gli investitori.
Un tale accordo dovrebbe favorire l’impiego ottimale del risparmio mondiale circolante sotto forma di investimenti. Non esiste alcun riferimento all’importanza di creare impieghi, né alla distinzione tra investimenti che li generano e quelli che non lo fanno.
Il MAI ha per obiettivo la liberalizzazione dei regimi di investimenti e la protezione degli investitori. Esso è fondato sul postulato secondo il quale la continuità della crescita mondiale si basa sulla liberalizzazione del commercio, la quale è legata al ruolo pionieristico degli investitori.
Il ruolo degli stati sarebbe ridotto a quello di cinghia di trasmissione delle misure di accompagnamento, che debbono garantire il diritto assoluto dell’investitore mediante un sistema di responsabilità senza errore. Gli stati sarebbero infatti costretti a rimborsare perdite e danni subiti dagli investitori…
Stiamo abbandonando la società in cui il consumatore era il re per una società in cui l’investitore sarà il re. Con il MAI le società transnazionali aumenteranno il loro diritto alla capacità di influenza nel mondo.
Questa è la preoccupata analisi pubblicata su Le courrier ACP-UE (maggio-giugno 1998): il suo autore è Yves Ekoué Amaizo, responsabile dei programmi speciali dell’UNIDO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, con sede a Vienna).

Nel 1995 a Parigi, nella sede dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che raggruppa i 29 paesi più ricchi al mondo: Brasile ed Argentina stanno premendo per entrare nel club), prendono l’avvio i negoziati per promuovere il MAI: questo dovrebbe essere «una delle ultime pagine della costituzione di un’economia mondiale unificata» come l’ha salutato il direttore generale dell’OMC (Organizzazione mondiale del commercio), l’italiano Renato Ruggiero.
In realtà, il testo provvisorio del MAI – dopo che alcune Organizzazioni non governative statunitensi lo hanno scoperto e diffuso – è stato talmente criticato che la sua firma ha dovuto essere più volte rinviata.
Nel testo attuale, al capitolo «Diritti degli investitori», è sancito il diritto assoluto di acquistare senza alcuna restrizione terreni, risorse naturali, servizi di telecomunicazioni, valute, ecc. Gli stati dovrebbero: garantire incentivi fiscali, ecc. tanto alle società nazionali quanto a quelle straniere; impegnarsi a non emanare leggi che limitino l’espansione delle imprese o impongano controlli delle stesse su risorse naturali, minerarie, forestali; impegnarsi a non esercitare pressioni sugli investitori per il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente; non sottoporre a embargo né bloccare investimenti diretti a paesi che violano i diritti umani. Gli stati hanno solo doveri pesanti; chi investe capitali ha solo diritti: anzi, il MAI prevede che le società transnazionali siano autorizzate a citare in giudizio quei governi che – con leggi su tutela ambientale, tutela dei lavoratori, dei consumatori, ecc. – ledano i loro interessi e ne facciano diminuire i profitti… I parlamenti – quand’anche eletti democraticamente – sarebbero esautorati dalle transnazionali.
Le critiche al MAI vengono da ogni parte, USA inclusi.
Molti parlamentari ACP hanno evidenziato come il MAI, proibendo il rafforzamento delle industrie nazionali, di fatto espellerebbe le imprese del PVS dal mercato mondiale. Inoltre, gli stati – specie i più deboli in termini di potere contrattuale – sarebbero impotenti nei confronti delle manovre speculative delle società transnazionali.
Infine, sarebbero vanificati del tutto i difficili processi di democratizzazione in atto in molti PVS.

Dopo 6 mesi di stop, i negoziati sul MAI avrebbero dovuto riprendere il 20 ottobre a Parigi. Ma, a pochi giorni dall’inizio, il governo francese ha fatto sapere che non avrebbe partecipato, in quanto non condivideva la formulazione dell’accordo. Un brutto colpo per i sostenitori del MAI; un successo per tutte le centinaia di associazioni ambientaliste e di solidarietà internazionale che si sono mobilitate per fermare l’imbroglio.

Piergiorgio Gilli




Dalla parte del capitalismo

Dopo il fallimento del comunismo,
quasi tutti i paesi si sono adeguati
al sistema economico capitalista.
Sul pianeta permangono pesanti squilibri,
ma le colpe non vanno fatte ricadere sull’Occidente.
Soltanto attraverso una collaborazione
non faziosa si possono trovare soluzioni efficaci.

Oggi le economie delle singole nazioni sono così profondamente interrallacciate che si può parlare di un unico sistema economico di dimensioni planetarie. Il processo è molto recente e lo stato di sviluppo delle singole nazioni è così variabile che non è stato ancora identificato un insieme di regole per il raggiungimento di un sistema equilibrato di generazione e distribuzione della ricchezza.
È un fatto innegabile che, oggi, la distribuzione della ricchezza sul pianeta sia tutt’altro che soddisfacente. È, quindi, necessario operare dei correttivi a vari livelli. Attualmente, fra le soluzioni proposte, ve ne sono alcune che non solo non raggiungono i risultati, ma hanno come obiettivo implicito di indebolire le economie forti e non di rafforzare quelle deboli. Il parlare di ricchezza non deve far dimenticare un certo numero di persone che, particolarmente in Italia, ritiene che la ricchezza costituisca una manifestazione diabolica.
«Dio non vuole la povertà del suo popolo» afferma il documento del Pontificio Consiglio «Cor Unum», intitolato La fame nel mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale. E aggiunge che i cristiani sono ingiustamente accusati di voler perpetuare la povertà fisica delle persone. Pertanto è da considerarsi un messaggio stimolante della chiesa il trovare i mezzi per «arricchire» tutti i popoli della terra, colpendo non la povertà evangelica (che va invece perseguita), ma quella generata dalla indisponibilità di denaro e, soprattutto, dei mezzi per generarlo.
Occorre, infatti, non dimenticare che, per distribuire la ricchezza, è necessario in primis generarla. In questo contesto è significativa la scomparsa del comunismo come sistema economico e sociale. Esso è crollato sotto il peso della propria inefficienza nel generare la ricchezza per i cittadini ad esso sottomessi. Al di là delle storture «demoniache» di voler addirittura distruggere la persona umana, per rifarla come automa alle dipendenze del sistema, il comunismo si è mostrato incapace non solo di far arricchire i propri cittadini, ma li ha mantenuti in stato di perpetua povertà. Infatti, nonostante il tenore di vita bassissimo esistente in tutti i paesi comunisti, la generazione di ricchezza a livello nazionale è stata inferiore al consumo della medesima, contribuendo alla conseguente caduta del sistema. Quindi, parlando di sviluppo, non si può più sostenere il comunismo proprio perché, pur nella gestione dittatoriale del potere e senza alcun impedimento interno, esso ha generato solo miseria e distruzioni ambientali, come nel caso del Mare d’Aral.

A questo punto occorre fare una considerazione che spieghi l’attuale divario economico fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. È innegabile che il progresso tecnologico è stato finora appannaggio quasi esclusivo dei paesi occidentali.
Lo sviluppo ha avuto una formidabile accelerazione dopo l’ultima guerra mondiale e sta ancora progredendo con significativa velocità. Esso ha interessato tutti i campi: dalla medicina alla meccanica, dall’elettronica all’informatica. Non sempre però viene fatto risaltare il fatto che, nel contempo, sono state sviluppate anche le tecniche economiche che hanno permesso lo sviluppo attraverso la disponibilità di capitali. Anche l’economia è una tecnologia inventata dall’uomo; anzi, essa sottende qualsiasi attività umana.
Occorre ancora precisare che l’uomo «scopre» le cose, le «inventa» secondo il significato etimologico della parola latina «invenire», cioè «trovare». Ciò significa che tutto è stato creato da Dio e che l’uomo realizza via via molte scoperte: «trova» cose inizialmente nascoste, ma esistenti, perché create da Dio. Quindi tutte le scoperte o invenzioni in sé sono buone, compresa l’energia nucleare che è la stessa che tiene accese miliardi di stelle in miliardi di galassie. Pur essendo tutte intrinsecamente buone, le tecnologie debbono essere usate correttamente, comprese quelle economiche, che infatti hanno generato la prosperità dei paesi occidentali che le hanno «inventate».
D’altra parte, anche la bibbia nel libro dei «Proverbi» sostiene:

«se appunto invocherai
l’intelligenza e chiamerai
la saggezza, se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai
il timore del Signore
e troverai la scienza di Dio,
perché il Signore dà
la sapienza, dalla sua bocca
esce scienza e prudenza» (Pr 2,3).

È quindi sorprendente osservare gli attacchi alle economie occidentali eseguiti da gruppi di individui, che a ben guardare sono dei parassiti delle nostre società, perché ne godono i frutti ma ostentano di disprezzarli.
Grazie alle tecnologie mediche, alimentari ed economiche nel mondo – ricorda il citato documento vaticano -, «dal 1950 al 1980 la produzione complessiva delle derrate alimentari è raddoppiata e nel mondo esiste complessivamente sufficiente cibo per tutti. Dal 1960 al 1987 il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei cinque anni si è ridotto della metà, e due terzi dei lattanti al di sotto dell’anno di età sono vaccinati contro le principali malattie dell’infanzia. Il consumo di calorie per abitante è aumentato del 20% circa fra il 1965 e il 1985».

Nel processo di sviluppo, però, occorre non trascurare la preservazione delle risorse del pianeta. Il clima sul nostro pianeta dipende da cause naturali, che si basano essenzialmente sul rapporto esistente fra il Sole e la Terra. Questo rapporto è attualmente sconosciuto; ma si sa, ad esempio, che 12 mila anni fa si è verificata una glaciazione che ha interessato tutto il pianeta, che è durata parecchie centinaia di anni, e si è poi esaurita. Nessuno è in grado di spiegare che cosa sia successo; ma il fatto che si sia verificata significa che esistono forze ignote che condizionano il nostro clima. D’altra parte gli stessi parametri dell’orbita terrestre, intorno al Sole, non sono fissi nel tempo, ma variabili con periodi lunghissimi che sono stimati anche in decine di migliaia di anni, con conseguenti variazioni sul clima.
Quindi non dobbiamo aspettarci un clima stabile e duraturo, perché tutto l’universo è stato creato in modo da evolversi ed arrivare ad una fine. Ciò non toglie che si debba rispettare l’evoluzione naturale del clima, senza introdurre disturbi come il volume delle emissioni di anidride carbonica o l’abbattimento di intere foreste.
Il problema non è, semplicisticamente, quello di distruggere le fonti di energia attualmente utilizzate, ma consiste nell’individuare i sistemi che mantengano e migliorino l’attuale qualità della vita, che richiede una quantità sufficiente di energia; e questo senza intaccare la naturale variabilità del clima, che dipende da cause estee al sindacato dell’uomo.
A proposito della distribuzione della ricchezza, esistono pubblicazioni che affrontano il problema opponendosi alle economie occidentali, aprioristicamente ritenute responsabili dello stato di povertà delle altre nazioni. Questi libri demonizzano la cultura economica occidentale a favore di… niente, in quanto, come si è visto, il comunismo, il cui fantasma continua ad aleggiare per certi nostalgici, si è dimostrato incapace non solo di distribuire la ricchezza, ma anche di generarla.
È condiviso il fatto che nel mondo esistono problemi di sfruttamento di parti di popolazioni, ma è altrettanto vero che il comunismo si è dimostrato sfruttatore di tutte le popolazioni assoggettate. Quindi il desiderio legittimo e doveroso di contribuire allo sviluppo economico delle nazioni povere deve prescindere dall’applicazione delle «tecniche» fallimentari del comunismo.
A titolo di esempio di faziosità cito un grafico, riportato in uno di questi libelli, sulla spartizione del valore di una banana fra il produttore, i grossisti, la distribuzione e l’utente finale, secondo cui al produttore rimane circa il 6% del prezzo finale. Supposto che siano vere le percentuali riportate, la malizia dell’esposizione cerca di far gridare allo scandalo dello sfruttamento del Nord rispetto al Sud. In realtà ciò è falso nei limiti in cui non si introduce il concetto del potere di acquisto delle monete nei singoli paesi e del rispettivo costo della vita.
Se si osservano obiettivamente i dati e si calcola la quantità di denaro che rimane in mano al produttore, secondo la percentuale indicata, si ottiene che la cifra ammonta a una determinata entità. In sè essa non dice nulla; diventa significativa solo se rapportata al costo della vita locale. In Italia la cifra trovata sarebbe misera e sintomo di sfruttamento ma in loco, cioè in quei paesi tropicali, probabilmente no, in quanto il costo della vita è molto più basso.
Con ciò non intendo dire che la suddivisione del prezzo delle banane, durante il loro spostamento dal produttore al consumatore, sia corretto o no; voglio però sottolineare che il metodo esposto è malizioso e intende solo affermare acriticamente che il Nord sfrutta il Sud.
Da ciò si deduce che non è corretto individuare il reddito pro-capite annuo per i cittadini di ogni nazione come parametro unico con cui stimae lo stato di povertà o meno; occorre anche rapportare il reddito al potere di acquisto locale. Quando si applica questo criterio (ed è stato già fatto) si rileva che, ad esempio, il cittadino cinese medio, anche se ha meno disponibilità, ha attualmente un potere di acquisto superiore a quello dell’italiano medio, per il quale il costo della vita è superiore.

Per aiutare i paesi poveri, occorre innanzitutto non privarli dei loro mezzi. Quindi, prima di iniziare ad esportare, specialmente prodotti alimentari, ogni paese deve soddisfare le esigenze alimentari della propria popolazione. In questo contesto, non si capisce come si possa sottrarre, ad esempio, il miele ai messicani per venderlo a maggior prezzo in Italia, nei «centri di commercio solidale». Questo non è commercio solidale, ma un impoverimento delle popolazioni locali, a cui il miele serve, a favore di un limitatissimo numero di produttori locali che ha trovato vie di esportazione forzose e meglio remunerate. Per il bene delle popolazioni locali, è necessario che il miele rimanga nel paese di origine fino a che una produzione superiore al consumo locale non stimoli l’esportazione.
Occorre seguire l’esempio dell’India, che ha migliorato la propria produzione agricola fino a diventare autosufficiente ed ora può pensare all’esportazione dei beni prodotti.
Quindi uno dei contributi che si possono dare ai paesi poveri è quello di sviluppare innanzitutto le vie intee dei commerci dei propri prodotti, quando non vi sono eccessi di produzione come, ad esempio, per le banane in vari paesi. In questo caso è corretto esportare un bene nei paesi che, per ragioni di clima, non possono ottenee la produzione.
Ed è inoltre sacrosanto che questa esportazione venga fatta in modo tale da distribuire equamente il guadagno fra tutti gli interessati. Il commercio diventa veramente solidale quando si individuano vie alternative nello scambio planetario delle merci, che richiedano anche un minor numero di intermediari.

In conclusione, il mondo occidentale è stato il primo e, in molti casi, l’unico a sviluppare le tecnologie, anche economiche, attualmente esistenti, e ne detiene la conoscenza. Quindi, nella distribuzione della ricchezza fra tutti, non è seminando faziosità e odio di classe che si risolvono i problemi, ma solo con l’utilizzo delle tecnologie disponibili e con sincera collaborazione.
Le soluzioni individuate dovrebbero essere mirate ad aiutare i paesi poveri, ma senza demonizzare l’Occidente, anzi dando inizio a una effettiva collaborazione in cui gli occidentali mettano a disposizione il loro patrimonio tecnico in ogni campo.

Piergiorgio Motta