L’OPINIONE – Incontro con Javier Perez de Cuellar

Nonostante molti regimi dittatoriali siano caduti, la democrazia non è una conquista così diffusa. In Perú essa è messa in pericolo dal presidente Fujimori, che da 8 anni esercita il potere in maniera estremamente autoritaria. Ma anche all’Onu, la massima assise mondiale, la democrazia non è di casa. Basti pensare al «diritto di veto» dei 5 membri permanenti…
Così la pensa Javier Pérez de Cuéllar, per 10 anni segretario generale dell’Onu, oggi leader del movimento «Union por el Perú».
Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Lima.

Strade pulite ed ordinate, giardini ben curati, case eleganti. San Isidro è uno dei quartieri esclusivi di Lima. La nostra meta è una villa bianca, bella, ma forse un po’ soffocata dai condomini costruiti a ridosso.
Ci apre la porta un domestico in livrea. La casa è molto elegante. Un’ampia scalinata sale al piano superiore. Quadri, sculture, tappeti, argenteria sono in bella vista. Una signora viene ad informarsi se sono previste delle foto. Rispondiamo affermativamente.
Pochi minuti dopo, puntualissimo, si presenta il nostro ospite, l’ex segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni unite Javier Pérez de Cuéllar.
Nella notte del 27 agosto 1998 il Congresso peruviano ha bocciato un referendum popolare per il quale erano state raccolte 1 milione e mezzo di firme. Cosa pensa di questa decisione?

È una «derota», una sconfitta per il paese e per la democrazia. Il referendum è l’unico strumento previsto dalla Costituzione per un intervento diretto del popolo. Purtroppo, due organi dello stato (il «Jurado Nacional de Elecciones» e l’«Oficina Nacional de Procesos Electorales») hanno commesso un grave errore sostenendo che la consultazione popolare doveva ottenere la preventiva approvazione del Congresso. Poi quest’ultimo, attraverso una votazione molto discutibile, ha deciso che il referendum non doveva tenersi. Tutto ciò dimostra una mancanza di fiducia del governo nella propria popolarità.

Strana questa paura. Sia nel 1990 che nel 1995 Fujimori stravinse…

Ma in questo paese le elezioni non sono mai limpide. Nel 1995, Fujimori e «Cambio 90» guadagnarono una maggioranza assoluta nel parlamento con manovre illecite…

Fujimori e i suoi uomini sono al potere dal 1990. In questi 8 anni sono riusciti a impossessarsi di tutte le leve del potere, a riscrivere la Costituzione e interpretarla a proprio piacimento, come dimostra in modo eclatante la vicenda del referendum. Dottor Pérez de Cuéllar, davanti a questa situazione ci si chiede se il Perú sia una democrazia o una dittatura…

La situazione è grave perché le istituzioni democratiche non sono rispettate. I tre poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – sono attualmente controllati dal governo.
Dunque, non si può dire che il Perú sia una democrazia, ma allo stesso tempo non si può dire che sia una dittatura (almeno per il momento). C’è ancora una relativa libertà di stampa. Relativa, non assoluta, perché il governo ha il controllo su parecchi giornali e televisioni.

Nel Congresso, su 120 deputati, 71 appartengono a «Cambio 90 – Nueva Mayoria», il partito di Fujimori. Con questi numeri che può fare l’opposizione?

Questo congresso è completamente nelle mani di Fujimori. I congressisti dell’opposizione hanno un ruolo poco più che formale. Hanno una funzione di vigilanza, per scoprire e denunciare ai giornali indipendenti «los atropellos», gli abusi che vengono commessi.
Per l’anno 2000 occorre una coalizione, una convergenza tra i partiti dell’opposizione (APRA, Partito Popular Cristiano, ecc.). Essi debbono accordarsi e trovare un candidato da contrapporre al presidente. Fujimori rimane molto forte e, soprattutto, è furbissimo. Se si ripresenta (come pare ormai certo), è probabile che riesca a vincere per la terza volta consecutiva. A meno che…

A meno che l’opposizione non si presenti compatta con un candidato alternativo, serio e credibile. C’è attualmente una persona che risponda a queste caratteristiche?

No, purtroppo attualmente non c’è un candidato alternativo a Fujimori.

E che ci dice di Pérez de Cuéllar?

Io? Io sono troppo vecchio. Vecchio, vecchio, caro mio. È necessario un candidato giovane di 40-50 anni. Io non ho più l’età per la politica…

Però lei è il leader di «Union por el Perú».
Se non ci fosse questa situazione, io mi sarei ritirato dalla vita politica. Preferirei stare più tranquillo e godermi la mia vecchiaia con mia moglie e i miei 6 nipotini.
Invece, ho scelto di lottare per la restaurazione della democrazia e per il rispetto dei diritti umani in questo paese.
Fujimori e i suoi ministri mostrano con orgoglio i risultati ottenuti in economia (prodotto interno lordo in crescita, inflazione in ribasso), dimenticando i dati sulla disoccupazione e la povertà dilagante. Lei come giudica il programma economico del governo fujimorista?

Non bastano i dati sul prodotto interno lordo e sull’inflazione per gridare al successo. Il programma economico di Fujimori non dà la necessaria attenzione all’aspetto sociale. Educazione, salute, alimentazione non sono abbastanza seguiti. Insomma questo programma manca di una dimensione umana.
Qualsiasi nuovo governo avrebbe il dovere politico e, soprattutto, morale di cambiare. C’è un problema di distribuzione per un paese che è fondamentalmente ricco.

Secondo lei, è possibile che questa grave situazione sociale porti a una rinascita di «Sendero»?

Ci sono già stati segnali in questo senso…
È certo che il terreno è pronto per una rinascita del terrorismo. Tuttavia, polizia e corpi speciali sono allenati per affrontarlo.
Purtroppo, la metà dei peruviani sono poveri. Di questi, almeno 5 milioni sono in condizioni di estrema povertà. Questa situazione può originare violenza, anche se, in generale, il peruviano è pacifico e molto tollerante.

Uno dei maggiori vanti di Fujimori è di aver sconfitto il terrorismo. Però nelle carceri peruviane sono finiti anche tantissimi innocenti…
Lei dice cose vere: la repressione contro il terrorismo ha prodotto molte ingiustizie. Tuttavia, la «commissione ad hoc» (l’organismo governativo che esamina le carcerazioni «dubbie», ndr), guidata dal padre belga Hubert Lanssiers, è un importante passo in avanti.
Per me il diritto fondamentale è il diritto alla vita; per questo sono contro la pena di morte. Non bisogna mai dimenticare che anche a un criminale debbono essere riconosciuti tutti i diritti e ciò per il semplice fatto che lui, pur avendo sbagliato, rimane un essere umano.

Parliamo allora di diritti umani. Nonostante sia finita l’emergenza terrorismo, gli abusi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti (il «Sin» di Vladimiro Montesinos) rimangono un fatto normale…

Però, anche il governo di Fujimori ha finalmente capito che deve rispettare i diritti umani. Purtroppo, tra la gente c’è una grande ignoranza rispetto a questo tema, soprattutto nelle regioni meno sviluppate del paese. Per questo sarebbe importante iniziare una educazione ai diritti umani fin dalla scuola.
D’altra parte, è difficile avere rispetto dei diritti umani, quando non c’è democrazia.

In un contesto così difficile, che tipo di ruolo ha la chiesa peruviana?

Ha, prima di tutto, una funzione moralizzatrice. Oggi il governo spesso la accusa di «fare politica». Ma non può essere diversamente quando c’è un autoritarismo così pronunciato.

Lasciamo il Perú e i suoi problemi, per parlare delle Nazioni Unite, organismo al cui vertice lei è stato per 10 anni…

Sull’Onu piovono critiche da parte di tutti. Dall’alto della sua esperienza di ex segretario generale, ci spieghi cosa c’è che non funziona in quella istituzione.
Le risponderò con un esempio. Le Nazioni Unite sono come la sua macchina fotografica. Se non la usa, non può dire che la macchina non vada bene; d’altra parte, se lei non sa usarla, identicamente non può dire che la macchina non funzioni.
Io credo che il meccanismo dell’Onu sia teoricamente perfetto, ma i paesi non lo utilizzano o non sanno utilizzarlo. Le Nazioni Unite potrebbero veramente costituire lo strumento ideale per la soluzione di tutti i problemi mondiali.

I 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia) hanno il «diritto di veto». Se esercitato, esso può bloccare qualsiasi decisione. Le pare giusto?

Il diritto di veto non è uno strumento democratico. Occorrerebbe modificare questa norma, ma per sopprimerla è necessario avere l’assenso dei 5 membri permanenti. Purtroppo, tra loro non c’è accordo su questo punto.

Ci sono paesi, tra cui l’Italia, che spingono per entrare nel Consiglio di sicurezza come membri permanenti. Che ne pensa?

Io sarei d’accordo sull’ampliamento del consiglio, almeno per Germania, Giappone e Italia.

Qual è il suo ricordo più bello nei 10 anni alla guida delle Nazioni Unite?

Il più bel ricordo come segretario ONU fu l’indipendenza della Namibia.

E quello più brutto?
Anche qui non ho alcun dubbio: il più brutto ricordo è la guerra del Golfo.

Lei fu eletto segretario generale una prima volta nel 1981 e riconfermato nel 1986. Perché il suo successore, l’egiziano Boutros Ghali, non ottenne un secondo mandato?

Boutros Ghali fu un segretario molto intelligente e preparato. Non fu rieletto per l’opposizione degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei. Probabilmente sulla sua mancata riconferma influirono gli insuccessi in Africa (soprattutto in Somalia, Burundi e Rwanda) e nella ex Jugoslavia.

E che ci dice dell’attuale segretario Kofi Annan?

Boutros Ghali era un giurista, mentre Kofi Annan è un tecnico.

LA NOTTE CHE IL CONGRESSO UCCISE IL REFERENDUM

L’antefatto. L’articolo 112 della Costituzione peruviana del 1993 prevede che il presidente della repubblica possa essere rieletto soltanto per un secondo periodo consecutivo. Il 22 agosto 1996 il Congresso approva la legge 26657, conosciuta come legge di «interpretazione autentica» dell’articolo 112: in base a questa norma Alberto Fujimori potrà candidarsi anche alle elezioni del 2000. Sarebbe il terzo mandato consecutivo, in palese violazione del dettato costituzionale.
Dopo quella decisione, in parlamento e nel paese si sviluppa un vasto movimento di opposizione che vuole impedire l’abuso attraverso il ricorso alla consultazione popolare. In due anni di duro lavoro, il «Foro Democratico» raccoglie quasi un milione e mezzo di firme. Lo scopo del referendum è quello di chiedere ai peruviani se sono d’accordo che il presidente Fujimori si candidi per la terza volta alla presidenza del paese.
Quando sembra che tutto sia pronto per andare a votare, ecco un nuovo colpo di scena. Per impedire il pronunciamento dei cittadini, la maggioranza fujimorista fa pressione sulla «Oficina Nacional de Procesos Electorales» (Onpe) e sul «Jurado Nacional de Elecciones» (Jne). Nell’agosto 1998, i due organi statali inopinatamente stabiliscono che il referendum debba passare attraverso il filtro del Congresso: la consultazione popolare potrà aver luogo soltanto se otterrà almeno 48 voti a favore. È quasi un requiem per il referendum, dal momento che il Congresso è dominato da «Cambio 90-Nueva Mayoria», il partito del presidente (che può contare su 71 dei 120 congressisti).

Lima, 27 agosto 1998. Piazza Bolivar, di fronte al Palazzo del Congresso. Oggi il Congresso decide la sorte della consultazione popolare.
Dalla statua equestre di Simon Bolivar scendono due lunghi striscioni con una scritta a caratteri cubitali: referendum. Davanti al palazzo è stata schierata la polizia. Sono tutte donne, disposte in due file, che coprono l’intera lunghezza dell’edificio. La folla che attende la decisione dei congressisti è variegata. Gli studenti, seduti sul prato, pennelli in mano, preparano i cartelli della protesta.
Fujimori e Vladimiro Montesinos, il potentissimo (e chiacchierato) assessore del presidente, sono i bersagli preferiti. Altri alzano al cielo le prime pagine dei maggiori quotidiani (El Comercio, La Republica etc), tutti schierati in favore della consultazione popolare.
Ci sono pensionati che battono i tamburi della protesta e intonano gli slogan: «Muera Montesinos, Viva el referendum». Le donne (che sono tante) portano, legato attorno al capo, un fazzoletto rosso con una scritta: referendum.
«Stiamo lottando – ci dicono all’unisono tre signore – perché questo governo non si perpetui in eterno». Nella calca, un’altra signora si avvicina al registratore: «Io sono una madre di famiglia, che non si è mai interessata di politica. Ma i miei figli non hanno lavoro – signore – e io non so come dare loro da mangiare».
«Ogni volta che c’è qualcosa di grave – ci spiega un uomo di mezza età – il presidente esce dal paese. Lascia che altri prendano le decisioni scottanti, lavandosene le mani. Così, a cose fatte, potrà dire: “Io non c’ero”».

Il sole è calato da molte ore, quando in piazza Bolivar si diffonde il risultato della votazione: la maggioranza dei congressisti (67 contro 45) ha respinto una proposta referendaria, che non avrebbe neppure dovuto passare attraverso le forche caudine del Congresso. Tra i manifestanti la delusione è enorme, visibile, palpabile. Molte studentesse non riescono a trattenere le lacrime. Sessantasette persone hanno risposto «no» alla legittima richiesta di un milione e mezzo di cittadini peruviani. Fujimori potrà ripresentare la propria candidatura. Per la terza volta consecutiva. Ora ci sono quasi due anni per «preparare» la sua nuova vittoria «democratica».
Paolo Moiola

Chi è? Javier Pérez de Cuéllar

Nato a Lima il 19 gennaio 1920, laureato in lettere e diritto all’Università cattolica della capitale peruviana, Javier Pérez de Cuéllar entrò giovanissimo nel servizio diplomatico. Fu ambasciatore del Perú in vari paesi. Nel 1981 fu eletto segretario generale delle Nazioni Unite. Cinque anni più tardi fu riconfermato nella carica. Nel 1995 si presentò alle elezioni presidenziali, ma fu sconfitto da Alberto Fujimori, detto «El Chino», presidente in carica. Attualmente è leader dell’«Union por el Perú», uno dei maggiori partiti peruviani d’opposizione. Nonostante i quasi 80 anni, Pérez de Cuéllar viaggia molto: Stati Uniti, Portogallo (paese in cui vive una figlia), Francia. Trascorre molti mesi dell’anno a Parigi dove presiede una fondazione che si occupa di diritti umani.

Paolo Moiola

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